Non è difficile capire perché ogni anno milioni di persone scappano dall’Eritrea. Il dittatore Isaias Afewerki è al potere da 19 anni. Stando ai più recenti dati diffusi da Amnesty International, i cittadini eritrei subiscono regolarmente soprusi da parte delle forze dell’ordine. Sparizioni, detenzioni arbitrarie, omicidi e stupri sono all’ordine del giorno. Il servizio militare nazionale è obbligatorio per uomini e donne. I minori, che devono frequentare l’ultimo anno della scuola secondaria presso il collegio militare di Sawa, vengono reclutati per svolgere lavori forzati. Nonostante questo, tantissimi paesi, tra cui Egitto, Regno Unito, Svezia, Sudan e Ucraina, attuano la politica del rimpatrio forzato.
Abrham è uno studente eritreo di 22 anni. L’ho conosciuto alla Sala Borsa di Bologna, quando è stato invitato a raccontare la sua storia a seguito della proiezione del film Mare Chiuso di A. Segre. È entrato in Italia via mare, nell’estate del 2007 – appena prima degli accordi Italia-Libia sui respingimenti in alto mare, sanciti a dicembre dello stesso anno. Insieme agli altri attivisti del movimento Eritrean Youth Solidarity For Change, denuncia una dittatura militare che viola sistematicamente i diritti umani di moltissime persone, ma anche il sistema dell’accoglienza italiano – “malato e poco intelligente”. L’idea di mettere per iscritto la sua lunga avventura nasce dall’esigenza di descrivere il lato umano e pratico di un difficile itinerario di migrazione che sfollati, rifugiati e richiedenti asilo in tutto il mondo sono costretti a intraprendere. Quella che era partita, per me, come una semplice intervista, si è poi ben presto trasformata in un rapporto di amicizia, ricco di scambio culturale. Sono stata molto fortunata ad aver avuto l’occasione di ascoltare, così da vicino, una storia di così immenso valore.
DA STUDENTE AD ASMARA A “CLANDESTINO” IN LIBIA – “Mi chiamo Abrham Tesfai. Sono nato in Eritrea da una famiglia non molto numerosa, ad Asmara, su un altopiano di circa 2000 metri. Ho frequentato le scuole elementari e medie vicino casa mia. Non mi potevo lamentare. Poi, crescendo, sono iniziati i problemi. Ho iniziato a sentire il peso di quello che avevo attorno. Una dittatura militare, il risultato di un’epoca di colonizzazioni e guerre. La costituzione ratificata nel 1997 non è mai stata attuata. Giornalisti in galera, l’università chiusa, persone scomparse nel nulla, il servizio militare obbligatorio per tutti, uomini e donne.
Tutti gli studenti eritrei devono passare l’ultimo anno di scuola superiore in un collegio militare. Eravamo in 10.000 e faceva un caldo insopportabile. Appena arrivi iniziano a picchiarti, di modo da farti diventare pauroso, o scemo. Devi obbedire. La mentalità di un dittatore. È stato un anno terribile. Quando sono tornato a casa, i miei genitori erano arrabbiati, perché ero messo male, e molto dimagrito. La mia idea, comunque, era quella di rimanere ad Asmara, studiare, farmi una vita. Tornare alla normalità. Dopo poco tempo, però, mi sono reso conto che non ero libero di realizzare questi progetti. Non avevo neanche 18 anni quando sono stato costretto a recarmi in un posto lontano da casa e vicino al confine con il Sudan per costruire una diga. Lavori forzati, praticamente. C’erano anche le donne, che per scampare a quella malavita hanno solo la possibilità di farsi mettere incinta, o sposarsi. È lì che ho iniziato a pensare alla fuga. Mi sentivo trattato come uno schiavo, e non volevo esserlo per tutta la vita. Ho convinto due ragazzi che avevo conosciuto lì. Non è stato facile. Ci vuole decisione, perché se ti catturano mentre attraversi il confine ti ammazzano, o ti mettono in galera. Una notte, che pioveva tantissimo, una lampadina rotta ci ha dato il pretesto per scappare. I soldati non ci vedevano bene. Quando si sono accorti che in tre erano spariti, hanno iniziato a rincorrerci, ma era troppo tardi.
Abbiamo camminato per un giorno e una notte, attraverso un bosco e una zona desertica, prima di arrivare nella regione del Kassala in Sudan. Dei nomadi incontrati sulla strada ci hanno aiutato, dandoci indicazioni e offrendoci un po’ di latte. Poi ci siamo diretti nel campo per i rifugiati di Wad Sharifey. Nel campo profughi hanno dato a me e ai miei amici un documento per vivere nel paese, ma nessuna garanzia. Eravamo preda dei sudanesi che erano nel campo. Ci ricattavano chiedendoci soldi (altrimenti “ci avrebbero riportato in Eritrea”). Noi volevamo dei diritti. Volevamo arrivare in un paese sicuro. Così, facendo auto-stop e grazie all’aiuto di alcune persone generose, siamo arrivati a Karthoum, la capitale sudanese. Lì ho finalmente contattato la mia famiglia. Mio padre e mia madre erano sconvolti. Avevano paura per il loro figlio. A Karthoum ci sono arrivato come uno straccione, senza scarpe e senza vestiti, ma poi ho iniziato a riprendermi. Sono rimasto lì per 5-6 mesi, facendo il tassista per mantenermi e vivendo in una stanza affittata con altre sei persone. Da Karthoum potevi partire per il Sud Africa, l’Europa o l’America, ma i prezzi erano troppo alti per me. Diecimila o dodicimila euro. Non ho mai sognato di avere molti soldi, ma quella volta mi avrebbero fatto comodo. Così scelsi la strada verso la Libia, attraverso il deserto, per poi arrivare in Europa via mare. La strada più economica, ma anche quella più pericolosa. Di tre macchine che partivano ne tornava una. Nel deserto non ci sono indicazioni. Se sbagli una strada, o finisci il carburante, sei finito. Anche l’autista, quello che paghi, finisce con te. Dissi a mio padre che mi servivano dei soldi per vivere in Sudan, e mi feci mandare 800 euro. Con quei soldi sono partito, insieme a una cinquantina di altri rifugiati, principalmente eritrei ed etiopi. Ci misero in due pk. Tu non te lo immagini! 50 persone ammassate l’una sull’altra, non potevi respirare. Le donne piangevano. La cosa peggiore era che se cadevi, facevano finta di non vederti, e andavano avanti. Dopo 7 giorni gli autisti sudanesi ci hanno lasciato nel deserto in territorio libico. Sono arrivati degli uomini. Ci hanno chiesto soldi, hanno iniziato a picchiarci. Alla fine ci hanno portato vicino Bengasi. Lì sono arrivati dei taxi. Io non avevo soldi, e così sono rimasto senza un posto dove andare. Con me c’erano altri ragazzi senza soldi. Io ero allibito. Non era per quello che avevo pagato. È arrivata la polizia. Ci ha chiesto i documenti. Ci ha detto che eravamo clandestini e ci ha messo in galera.
IL VIAGGIO IN GOMMONE ATTRAVERSO IL MEDITERRANEO – Io sono sempre stato una persona ottimista. In prigione, però, ero molto triste. Non avevo fatto niente di male. Sono clandestino? Va bene, rimandami al mio paese, non mettermi in prigione. Era un buco sotto-terra. Dormivi lì, pisciavi lì, non uscivi mai. Durante una rissa, ho visto un mio amico etiope, T., morire. Sono stato fortunato perché, dopo un po’ di tempo, i soldati mi hanno portato a lavorare per loro in un accampamento. Siccome sapevo il tigrino e un po’ di arabo, ero utile per fare le traduzioni. Mi finsi mussulmano, dicevo di chiamarmi Ibrahim. Poi sono riuscito a scappare di nuovo, durante una visita alla moschea, di venerdì. Sono rimasto nascosto tutto sabato, finché non ho incontrato dei pastori sudanesi che mi hanno aiutato a raggiungere Tripoli. Tripoli era il mio obbiettivo iniziale, perché da lì potevo attraversare il mare. Ho contattato i miei genitori. Mi sono fatto spedire i soldi necessari al viaggio in mare – i risparmi di una vita. Mio padre era molto triste per quello che mi stava succedendo, ma sapeva che non potevo più tornare indietro. Tutt’oggi non so chi mi ha dato quel coraggio, adesso non sono così. La prima volta è andata male. 50-60 persone, tra cui donne incinte, in un gommone che si è subito rotto. Io sono tra quelli che sono riusciti a tornare a riva a nuoto. Gli altri sono rimasti in mezzo al mare, morti o in galera. La seconda volta è andata bene. Il gommone si è rotto di nuovo, ma in acque italiane. Era la fine del 2007, non c’era ancora la legge sui respingimenti in alto mare. È arrivata la Guardia Costiera.
SOGNANDO GINEVRA – Ho passato un mese nel centro di accoglienza di Caltanissetta, in Sicilia, senza mai uscire o avere contatti con la gente del posto. Non mi hanno insegnato l’italiano, né la cultura, né dato indicazioni. Dopo un mese mi hanno dato un documento provvisorio e mi hanno detto: arrangiati. Siccome avevo degli amici in Svizzera, sono riuscito a contattarli. Loro mi hanno mandato 120 euro (non potrò mai dimenticarlo) per prendere il “treno di notte” da Roma (imparai a memoria “trenodinotte” senza sapere cosa volesse dire, non parlavo ancora italiano). Sono arrivato a Ginevra. Lì è diverso. Ti sistemano, ti danno una mano a integrarti. Purtroppo, quando hanno scoperto che io ero entrato in Europa dall’Italia, mi hanno rimandato al confine, dopo una notte in galera.
Così, è iniziata la mia vita a Bologna. Non ho lo status di rifugiato. Magari. Da rifugiato, potrei rivendicare diritti. Quando sono entrato in Italia ho ottenuto un permesso umanitario, che rinnovo in questura ogni anno. È un permesso adatto a chi ha un problema temporaneo. Eppure il motivo per cui ho abbandonato la mia casa e i miei genitori è una dittatura che dura da 19 anni. Sono stato fortunato, ho avuto delle persone che mi hanno aiutato, che mi hanno preso in simpatia. Piano piano, mi sono iscritto alla scuola serale e poi all’università. Sono stato lontano dalla comunità habesha per due anni. Poi ho incontrato, qui a Bologna, dei sostenitori del dittatore. Così è riaffiorata la rabbia. L’odio per la dittatura e il ricordo del mio viaggio mi hanno spinto a fondare il gruppo bolognese di EYC (Eritrean Youth Solidarity For Change). Siamo nati a giugno dell’anno scorso. Promuoviamo tante iniziative di sensibilizzazione. Siamo sempre di più.”
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Caro stefano hai perso l’ennesima occasione per stare zitto posssibile che di tutto il racconto tu ti sei perso dietro ai numeri?
anche se fosse una sola persona ed avesse subito un decimo di quello che racconta il ragazzo dovremmo indignarci con i governanti del mondo che per loro esclusivo tornaconto hanno creato questo sistema globale di ingiustizie.
bisogna raccontare tutte le storie solo informando tutti possiamo sperare che finalmente il mondo occidentale capisca che questa è una strada che porterà all’estinzione del genere umano.
Vai ed andate a vedere il messaggio di Papa Francesco tutti i cattolici dovrebbero interrogarsi e dire io cosa faccio per cambiare le cose ?
purtroppo l’ipocrisia che esprimi dicendo tutto quello che dice il ragazzo lo dice per suoi interessi quidi me ne frego è il pensiero comune.
questo uccide la democrazia e permette ai potenti di essere sempre più potenti.
il tuo pensiero espresso in questi termini è complice di chi ha determinato questa situazione e quindi anche tu sei colpevole della situazione tragica vissuta dal giovane ragazzo africano.
possa alleviare le sofferenze del mondo
Non sono milioni ma sono decine di migliaia. Bene, ora ditemi cosa cambia. Avete bisogno di cifre esatte per indignarvi di fronte alla condizione di queste persone? Dati esatti non ne avrete perche’, come sicuramente saprete, in Eritrea non entrano giornalisti o organizzazioni internazionali in grado di condurre indagini serie e veritiere. Non volete credere alla storia di questo ragazzo? Ci sono migliaia di giovani come lui disposti a raccontarvi la loro e vi assicuro che non ci sono parole in grado di descrivere cio’ che hanno passato. Questo non vi basta? Chedete a me. Sarebbe opportuno informarsi prima di sparare a zero su cio’ che non si conosce, accusando di falsita’ il racconto di un giovane eritreo che cerca di aprire gli occhi alla comunita’ internazionale con l’unica arma che ha: le parole.
Informatevi e ascoltate.
Grazie Rossella.
E ora spero che un ombra di vergogna trovi spazio nelle vostre misere vite.
Rossella De Falco ha perso una buona occasione per scoprire un paese meraviglioso e rendere giustizia al giornalismo confezionando un articolo evidentemente privo del benché minimo approfondimento dell’argomento, fidandosi unicamente delle notizie riportate dal sedicente Abrham e da Amnesty che in Eritrea non ha una sede e non vi ha nemmeno messo mai piede. Il racconto autoreferenziale di Abrham mostra evidentemente il suo scopo di giustificare richieste finalizzate solo al proprio tornaconto facendo leva sui sentimenti della gente ignara e a costo di tradire tutto e tutti.
“Milioni di persone che scappano ogni anno dall’Eritrea…” su una popolazione di meno di quattro. Bastava consultare un atlante.
“…Non è difficile capire perché ogni anno “milioni” di persone scappano dall’Eritrea.” E no! E’ terribilmente difficile, considerando che la popolazione totale in Eritrea non supera i 3 (tre) milioni e mezzo di abitanti + o – da venti anni ad oggi. Con una premessa del genere, il fantastico, nel senso di fantasia, racconto di Tesfai ed i dati diffusi da amnesty (totalmente priva di credenziali in quella terra) si ha la certezza di non poter dare all’articolo alcuna credibilità.
sembra ieri che mio nonno mi raccontava il suo viaggio in america i problemi eranogli stessi.
abbiamo dimentivato in fretta