Datagate: la Cina attacca gli USA sul rispetto dei diritti umani

di Alessandra Colarizi

HONG KONG – Le rivelazioni scottanti della “gola profonda” Edward Snowden, ex analista della Cia ed ex contractor della National Security Agency (Nsa), hanno gettato l’amministrazione Obama in una crisi di credibilità che Pechino interpreta a proprio favore come una conferma della manifesta ipocrisia di Washington, da anni impegnato a lamentare attacchi cibernetici da parte del Dragone. Le operazioni globali di hackeraggio della Nsa – stando a quanto rivelato da Snowden al South China Morning Post – sarebbero state oltre 61 mila con centinaia di bersagli a Hong Kong e su territorio cinese. Lo ha raccontato dal suo misterioso rifugio nell’ex colonia britannica, scelta per la sua nota libertà di parola e in quanto base di diverse organizzazione per la difesa dei diritti umani. Una propaggine della Repubblica popolare legata alla mainland sotto la formula “un paese, due sistemi” che le lascia una sostanziale autonomia amministrativa e libertà di iniziativa economica in cambio della rinuncia ad una propria politica estera e di difesa. Ma che è pur sempre Cina.

Estradizione difficile ad Hong Kong. Nella giornata di sabato, attivisti hongkonghesi sono scesi in strada per dimostrare il proprio supporto a Snowden. “Obama e Xi are watching you! No Big Brother State!” recitava uno striscione, facendo riferimento ai nomi del presidente americano e cinese. Qualora gli stati Uniti cercassero di estradare “la talpa”, l’ultima decisione spetterebbe ai tribunali del Porto profumato, come viene anche chiamata l’ex colonia inglese, i quali in passato hanno collaborato strettamente con Washington in merito ad alcune cause penali, fatta eccezione per i “casi politici”. Pechino dal canto suo ha il diritto di intervenire nella “regione amministrativa speciale” in casi che rischiano di influenzare la propria “politica estera, la difesa e l’interesse nazionale”. Un’ipotesi che, secondo avvocati e diplomatici di Hong Kong, rimane piuttosto improbabile considerata la crescente insofferenza dimostrata dai cittadini dell’isola verso l’ingerenza del governo cinese nelle questioni locali.

La Cina avrà mai un suo Snowden? Il Global Times, versione pop dell’ufficialissimo Quotidiano del popolo, ha sottolineato come l’opinione pubblica oltre la Muraglia si dimostrerebbe fortemente contraria ad un’ipotesi estradizione. “La Cina deve fare in modo che Hong Kong non diventi l’ultimo posto dove altri ‘Snowden’ scelgano di andare. Perlomeno, Hong Kong dovrebbe rappresentare un destinazione accettabile per loro” sentenzia il tabloid. Giocando di rimbalzo il web cinese, che ha in Sina Weibo la sua piattaforma di dibattito privilegiata, si domanda con una punta di ironia “quando la Cina avrà un suo Snowden?” In un paese dove la libertà di parola e di stampa compare a chiare lettera nella Costituzione (art. 35), ma viene quotidianamente imbavagliata dalla più potente macchina censoria del mondo, giovani netizen tentano di sensibilizzare il popolo ad una maggiore responsabilità politica attraverso la rete. Zhu Ruifeng, autore del cliccatissimo video a luci rosse che ha messo sotto scacco un corrotto funzionario di Chongqing è a modo suo “un brillante giovane idealista” che, proprio come l’ex spia della Cia, ha tentato di portare allo scoperto i lati oscuri del proprio paese in nome della democrazia. Ugualmente, il giornalista Luo Changping ha scelto Weibo per far luce sulla corruzione di Liu Tienan, vice direttore della Commissione nazionale per le Riforme e lo Sviluppo (NDRC), consapevole del fatto che un pezzo investigativo sull’argomento non avrebbe mai visto la luce nel Regno di Mezzo.

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Il giro di vite del Governo cinese. Negli ultimi tempi l’opinione pubblica si è scagliata contro la nuova dirigenza di Pechino per aver messo in atto un giro di vite ai danni degli attivisti anti-corruzione, molti dei quali sono finiti agli arresti con l’accusa di “incitamento alla sovversione dello Stato” o di aver organizzato “raduni illegali”. Alla vigilia della ricorrenza del massacro di piazza Tian’anmen diversi dissidenti hanno lamentato misure repressive persino più severe rispetto a quelle degli scorsi anni, mentre le madri delle vittime dell’89 hanno agitato il fantasma di un rinnovato maoismo tra le mura di Zhongnanhai, il quartier generale del Partito. Proprio la pagina buia della storia cinese ha alzato la temperatura tra Washington e Pechino a pochi giorni dal summit informale tra Obama e il presidente della Repubblica popolare Xi Jinping con la richiesta da parte del Dipartimento di Stato americano di dare una volta per tutte spiegazioni sulle morti, le detenzioni e le misteriosi sparizioni seguite all’intervento armato di quel 4 giugno 1989. La risposta secca da parte del portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, si è tradotta in un invito ad “accantonare pregiudizi politici e trattare correttamente lo sviluppo della Cina”.

L’imbarazzo di Obama. Un timido accenno alla questione dei diritti umani ha trovato spazio nel discorso di benvenuto con il quale Obama ha accolto il presidente cinese Xi Jinping nella tenuta californiana di Sunnylands, durante quel weekend “sbottonato” che ha visto i due leader uniti sulla questione nordcoreana e inevitabilmente distanti sul cyber-spionaggio. Mentre lo scandalo del Datagate montava di ora in ora, un Obama visibilmente imbarazzato avrebbe potuto avanzare ben poche pretese. La violazione dei diritti fondamentali dei cittadini americani da parte del “Grande Fratello” e la rivelazione del programma con il quale Washington ha sorvegliato mezzo mondo, hanno fornito nuovo materiale a Pechino per rispedire al mittente le annose accuse di pirateria telematica e violazione dei diritti umani. Un argomento, quest’ultimo sul quale la Cina si è ampiamente espressa nel mese di maggio con la pubblicazione del Libro bianco per il 2012, nel quale vengono ostentate una serie di vittorie nel campo del welfare, della sanità e degli standard di vita.

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La controffensiva di Pechino. Ufficialmente trincerato dietro un rigoroso “no comment”, il governo cinese non ha fatto nulla per impedire che la stampa ufficiale sfruttasse le rivelazioni dell’ex della Cia per sparare una serie di fiammate contro l’altra sponda del Pacifico. Così, a circa una settimana dalla confessione di Snowden, il Quotidiano del Popolo e l’agenzia di stampa statale Xinhua hanno riproposto un editoriale piccato a firma di Xu Peixi, columnist di China.org.cn. “Prima di tutto il caso Snowden ci offre una rara opportunità di riesaminare l’integrità dei politici americani e il management delle compagnie internet americane dominanti”, scrive Xu, “Appare chiaro che mentre molti di questi individui attaccano verbalmente altre nazioni e persone nel nome della libertà e della democrazia, in realtà, ignorano il degenerare della situazione americana interna”. L’articolo fa poi riferimento a quanto affermato dall’ex segretario di Stato Usa Hillary Clinton, che tempo addietro aveva esortato le aziende mediatiche americane ad “assumere un ruolo proattivo nello sfidare le richieste dei governi stranieri in materia di censura e sorveglianza”. A fornire alla Clinton l’occasione per un’imbeccata sulla libertà di internet era stata la lunga querelle tra Google e Pechino, culminata nel 2010 con il ritiro provvisorio del colosso di Mountain View dalla Cina a causa della “sorveglianza” governativa e del “regolare accesso da parte di terzi” agli account Gmail di decine di attivisti per i diritti umani.

Google coinvolta nello scandalo. Ora che alla luce del caso Prism Google compare tra le aziende colpevoli di aver fornito i dati degli utenti ai Servizi di sicurezza americani, l’eco delle parole dell’ex segretario di Stato suona quanto mai irritante alle orecchie del Dragone. “Possiamo vedere quindi che quando i politici e gli uomini d’affari americani fanno osservazioni accusatorie, i loro occhi sono fissi sui paesi stranieri, mentre vengono chiusi quando si tratta dei propri misfatti” continua l’editoriale sottolineando come “sempre più cinesi capiranno un giorno che la democratizzazione dei media nazionali è completamente diversa da quella che sta avvenendo all’estero”. Con che faccia Obama ha sciorinato la sua retorica sulla libertà della rete agli studenti dell’Università Fudan di Shanghai durante la sua visita del 2009? Come possiamo spiegare la sfida al sistema lanciata da Snowden, da Bob Woodward e Carl Bernstein nell’affaire Watergate, dal padre di Wikileaks Julian Assange e dal soldato Bradley Manning? Xu sembra rispondersi da sé: “Mentre gli attivisti dei diritti umani provenienti dai paesi in via di sviluppo (come sicuramente vengono definiti in Occidente) sono spesso benedetti con un’ampia scelta di nascondigli, oggi ci troviamo davanti al dilemma dei dissidenti occidentali. Per questa ragione la Cina, nonostante non abbia una buona reputazione per via della sua governance di internet, dovrebbe muoversi con coraggio e garantire asilo a Snowden”. Durissimi i toni adoperati dal quotidiano ufficiale dell’Esercito popolare di liberazione che nella giornata di sabato ha definito le agenzie d’intelligence statunitensi “delinquenti abituali”, mentre alcuni giorni fa il China Daily aveva osservato compiaciuto come gli scheletri nell’armadio della Casa Bianca siano usciti allo scoperto proprio nel momento in cui il pressing di Washington sul presunto cyber-spionaggio cinese si faceva più incalzante. Una coincidenza? Forse. Stando a quanto riportato da Bloomberg, per dissipare ogni dubbio il controspionaggio Usa ha deciso di indagare al fine di stabilire eventuali collegamenti tra Snowden e i servizi segreti del Dragone.

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La grana del dissidente Chen Guangcheng. E mentre si rincorrono le ipotesi, i dietrologismi si sprecano. La settimana scorsa il New York Post aveva dato in esclusiva la notizia di un presunto allontanamento dagli Stati Uniti del dissidente cieco Chen Guangcheng su pressione del governo cinese. Scintilla scatenante di una (sventata) crisi diplomatica tra Washington e Pechino, culminata in una clamorosa fuga dagli arresti domiciliari fino all’ambasciata americana in Cina. La scorsa primavera Chen era poi riuscito a recarsi nella Grande Mela con un visto di studio che gli ha dato la possibilità di coltivare la propria passione per il diritto presso la New York University. Alla fine di giugno il dissidente, a seguito delle forti pressioni fatte da Pechino sull’ateneo, lascerà la NYU ma non gli Stati Uniti. Lo assicura il professore di legge Jerome Cohen, al tempo uno degli organizzatori della partenza di Chen verso il Nuovo Continente, che ha smentito categoricamente qualsiasi ipotesi di uno scambio Snowden-Chen Guangcheng tra le due superpotenze. “Nessun rifugiato politico, nemmeno Albert Einstein, ha mai ricevuto un trattamento migliore da un istituto universitario americano di quello garantito a Chen dall’università di New York” ha scandito Cohen. La domanda sorge spontanea: sarà dunque altrettanto soddisfacente il trattamento riservato dalle autorità cinesi alla “talpa” Snowden qualora Washington ne dovesse chiedere l’estradizione?


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