“Viaggiando immersi nella giungla, avvolti dai suoi odori, dai rumori degli animali, della terra, si percepisce una profonda spiritualità, ma non la definirei un’esperienza religiosa: si tratta piuttosto di avvertire, di respirare la presenza di qualcun altro accanto a te, nell’aria. Chiamiamoli anche spiriti, degli alberi, della terra, degli animali. E ognuno di essi vive ancora come storie della creazione, come il Talud, uomo malvagio trasformato in una sorta di canna di bambù dalla maledizione di due ragazze che egli stesso aveva tenuto prigioniere. Incontrando sul mio cammino questa pianta sapevo di non poterla scalfire, perché ora sapevo, ora ricordavo, chi quella pianta era stata prima”.
La giungla è quella della Malesia, meta del viaggio che la storyteller Kamini Ramachandran ha intrapreso alla ricerca di storie, storie mai raccontate al di fuori della giungla, e quasi dimenticate dai suoi stessi abitanti, che ora, raccolte dalla viva voce di uno sciamano della tribù dei Tamiar, grazie a lei e al suo lavoro, potranno essere nuovamente diffuse, narrate, forse per costruire un nuovo senso di percepire il mondo, di ascoltare il suo respiro. L’occasione di conoscere il lavoro e l’impegno di riscoperta di Kamini Ramachandran, per la prima volta in Italia, è stata offerta nell’ambito del ricco programma del Festival Internazionale di Storytelling “Raccontami una storia”, tenutosi al Parco regionale dell’Appia Antica a Roma dal 20 al 23 giugno.
Kamini è un’ affermata storyteller malesiana di origini indiane che oltre ad esibirsi in una perfomance in cui ha dedicato all’Italia il primo capitolo del Rāmāyaṇa, ha raccontato, nel corso di una conferenza, una piccola ma preziosa parte del suo progetto “Tribal Tales”. Per quanto non indigena ma appartenente alla quarta generazione di indiani giunti in Malesia in seguito all’occupazione inglese, Kamini è cresciuta nella giungla cullata dalle storie tradizionali narratele dal nonno materno, storyteller, addestrata da lui all’arte del racconto, arte di parole, ma anche di codificata e raffinata gestualità e mimica: “è stato lui la mia scuola, sono cresciuta con lui, mi raccontava tutto attraverso le storie, e mi ha raccontato le grandi storie epiche indiane, il Mahābhārata e il Rāmāyaṇa, insegnandomi i codici gestuali, perché gli storytellers indiani puntano molto sul movimento degli occhi e delle mani. Si tratta di storie tanto lunghe che hanno richiesto anni di racconti, e lui me le raccontava nella nostra lingua madre, per cui ho appreso anche il sanscrito oralmente”.
Kamini è diventata così una storyteller professionista, responsabile dell’organizzazione di un festival e di corsi di storytelling a Singapore, dove ora risiede, ed è impegnata costantemente in viaggi che la conducono in tutta la regione del Sud-est asiatico per diffondere, collaborando anche con diversi tipi di artisti, la conoscenza del patrimonio narrativo attraverso spettacoli pensati per ogni tipo di pubblico. Di fronte all’ interruzione della linea di trasmissione orale e alla conseguente estinzione degli storytellers tradizionali, Kamini ha avvertito la necessità di intervenire per porre un argine all’erosione del patrimonio narrativo malesiano, tornando alle origini, alle storie in cui rintracciare ancora un’esperienza autentica, un reale legame con la vita e la natura del paese che ha accolto prima la sua famiglia e poi lei, tralasciando le versioni note grazie alla trascrizione dei missionari e dei coloni inglesi che depurarono per un consumo di “mercato” le storie dai loro aspetti più cruenti, più “veri”, riducendo il loro contenuto a qualcosa di più accettabile, rassicurante, non conturbante.
Ma Kamini ha una visione delle storie, e della funzione dello storytellers, differente: non si tratta di intrattenimento e di assicurare a tutte le storie un comodo finale piacevole e felice. Si tratta piuttosto di approfondire la comprensione e la comunicazione fra gli uomini, e anche gli aspetti più cruenti sono necessari perché avvenga una loro elaborazione, entrando a far parte di un processo di comprensione reciproca. Per questo l’espressione malese per indicare lo storyteller è PENGLIPUR LARA, “dispeller of the worries”, spiega Kamini, e non esiste alcuna differenziazione fra i tipi di storia, tutti indicati come “cerita rakyat”.
Ha preso così avvio un progetto di recupero e valorizzazione, che ha condotto Kamini nel 2012 nella regione di Perak a raccogliere storie tradizionali presso la gente, e soprattutto presso gli anziani, della tribù Temiar, parte di coloro che si considerano gli originari abitanti della Malesia, gli Orang Asli: Kamini ha narrato di come questo mondo inaccessibile le sia stato svelato casualmente da un legionario francese già in contatto con la tribù, dell’interminabile viaggio in barca attraverso il lago Tasik Temenggor, del villaggio immerso nella fitta, rigogliosa, umida ed impervia giungla, delle complesse fasi di avvicinamento che lei, “ a modern indian” ha dovuto percorrere per farsi accettare e adattarsi alla vita del villaggio e alle sue abitudini, compreso il disagio provocato dalla mancanza di segnale per la ricezione dei cellulari e la necessità di tornare a scrivere su carta a fronte di un unico (ed insufficiente) filo elettrico per l’intero villaggio, per altro provvisto di una sola strada costruita dal governo senza tenere conto della disposizione delle abitazioni degli aborigeni.
Il racconto di Kamini si colora anche di vividi sogni di animali totemici e di spiriti guardiani avuti durante la permanenza nella giungla e di figure come quella di Awis, capo villaggio cresciuto dai missionari ed educato dagli inglesi: con Awis come traduttore Kamini ha dovuto superare una sorta di prova all’interno della comunità, scambiando le storie che ascoltava con le storie che lei stessa raccontava, traducendole nel loro dialetto locale: storie del proprio repertorio, ma anche storie della propria vita, storie che facessero loro intendere “quale dio mi ha posta qui” (i Tamiar credono che ciascuno nascendo sia stato posto da un particolare dio proprio in quel luogo. Arrivando quindi era necessario, racconta Kamini, far comprendere quale dio l’avesse lì condotta e per quale motivo) . Solo dopo questa sorta di apprendistato Kamini è stata introdotta alla conoscenza dello sciamano Pak Uda, il quale dopo una cerimoniosa presentazione si è lasciato conquistare dal racconto che Kamini ha deciso di narrargli per stabilire un ponte con lui attraverso contenuti che pur tratti dall’ epica indiana potessero consentirgli di riconoscere un linguaggio affine.
Con l’aiuto di Awis come traduttore Kamini è riuscita così a convincere l’anziano sciamano a narrarle interamente ben dieci racconti sulla vita della gente della tribù e sulla creazione, come quella che Kamini ha per la prima volta raccontato durante la sua conferenza, a proposito dell’origine del rattan (in malesiano “rotan”), una tipologia di palma tipica delle regioni tropicali. Pak Uda ha permesso alla storyteller malesiana di diffondere le sue storie, affidandole la missione di salvarle dall’oblio in cui rischiano di calare anche nel loro stesso villaggio:
“ Per raccontare storie è necessario che tutti abbiano il tempo di sedersi e ascoltare gli anziani, ma loro adesso non dispongono di questo tempo perché molti dei padri sono costretti a recarsi lontano per lavorare, come taglialegna anche per le grandi imprese impegnate nella deforestazione e anche le donne, dovendo occuparsi di tutto a casa non hanno più tempo. Inoltre i bambini devono andare a scuola: la più vicina è a ore e ore di cammino e i bambini rimangono lì per tutta la settimana senza tornare a casa. E a scuola non si possono raccontare storie tribali, perché considerando la grande frammentazione culturale e religiosa si preferisce rimanere distanti da questo tipo di contenuti per evitare qualsiasi tipo di conflitto”.
Monica Ranieri
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