Giudice, procuratrice, donna, afghana, potente. Madre, moglie e lavoratrice. Nominata dal Time nel 2011 tra le 100 donne più influenti del mondo, insignita dal governo degli Stati Uniti con il The International Women of Courage Award, il suo obiettivo principale da quando è diventata procuratore di Herat, nel 2009, è quello di proteggere le donne e garantire la fine della loro oppressione. Oggi, con mio grande onore, intervisto Maria Bashir.
Seduti fuori dal suo ufficio, noto subito che la sua segretaria è una donna. Indossa un chador con i colori della bandiera dell’Afghanistan: verde, nero e rosso. Ad aspettare con noi ci sono molti uomini. La cosa mi lascia stupita: Maria Bashir e il suo lavoro non vanno certo sempre d’accordo con la cultura, ancora troppo maschilista, che appartiene a questo Paese. Non sono certo segrete le minacce di morte che quotidianamente arrivano sulla sua scrivania. Eppure, mentre ci fanno accomodare, l’uomo che è ancora dentro allo studio stringe la mano al procuratore, mi sembra, con una stima sincera.
Appena ci sediamo, oltre al rituale del thè, è lei a ringraziarmi per l’attenzione nei suoi confronti. Le spiego che la sua fama e il suo impegno nel suo lavoro sono ben noti nel resto del mondo e lei sorride. E’ una bella donna. Sicura, fiera del suo ruolo.
Parto subito chiedendole quanto è cambiato il suo Paese negli ultimi anni, soprattutto riguardo le battaglie che lei personalmente porta avanti. La risposta è meno positiva di quello che mi aspettavo.
“Purtroppo, né le commissioni internazionali né il GIRoA, hanno ancora fatto abbastanza. Nessuno di loro ha realmente mantenuto le promesse riguardo alla condizione della donna. Sì, rispetto al passato abbiamo fatto dei passi avanti: le donne di oggi sono ogni giorno più attive, cercano di avere una presenza sempre più attiva sia in ambito governativo che nelle organizzazioni. Ogni giorno la loro consapevolezza e le loro capacità aumentano ed è sicuramente un risultato. Ma dipende strettamente dalle donne e non è abbastanza”.
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La sua voce è una litania in lingua Dhari ma si percepisce, dalla fermezza della sua voce, quanto sia ferrata sull’argomento e quanto tutto questo sia importante per lei. Le chiedo del suo ruolo di giudice, di quanto può fare lei dalla sua posizione.
“Il mio ruolo è sicuramente importante. E pesante, soprattutto per una donna. Soprattutto per quanto riguarda la nostra lotta per far approvare la legge contro la violenza delle donne, i mullah ci remano contro. La legge ora è arrivato in Parlamento, ovvero è in attesa di approvazione. Sono fiduciosa, ma so che là ci sono tante persone che non vogliono sottoscriverla. La comunità internazionale ha minacciato di togliere fondi e supporto al governo di Karzai se questa legge non diventerà effettiva. Dobbiamo lavorare seriamente, dobbiamo avvalerci del loro aiuto. E’ un traguardo importante e necessario per il nostro lavoro”.
L’Afghanistan è prossimo alle elezioni, previste nel 2014. Maria Bashir ha spesso criticato l’attuale governo di Hamid Karzai, per le sue politiche poco progressiste e per la sua continua fedeltà ai mullah conservatori. Le chiedo cosa si aspetta dal voto dei suoi concittadini. “Le elezioni presidenziali sono un punto importante, ci permetteranno di deporre Karzai. Ad oggi, in Afghanistan, ci vuole un presidente determinato, che lotti per i diritti umani di tutti e, soprattutto, di noi donne. Se non organizzeranno elezioni oneste e non ascolteranno i nostri diritti non so dove andremo a finire. Il nostro attuale presidente non decide da solo: raccoglie i consulti dei partiti e si fa guidare dai più forti. Lui, in primis, è un pessimo esempio: non solo non permette a sua moglie di lavorare, ma se ne vanta, ne parla con orgoglio per fare pace con i talebani. ‘Guardate, io non ho mai permesso a mia moglie di essere una donna libera’, e fa sì che continuino ad esserci legge che impediscono alle donne di viaggiare da sole. Le cose devono cambiare. Il 40% della popolazione afghana è donna e vogliono iniziare a fare parte attivamente della politica e della vita di questo paese. L’Unione Europea deve aiutarci”.
Di recente, la sentenza contro il marito della poetessa Nadia Anjuman, accusato di averla uccisa dopo che lei lo aveva trascinato in giudizio per percosse, è stato un piccolo barlume di luce. Certo, niente di eclatante, l’uomo è tornato al lavoro, ma è comunque stato ammesso il fatto: lui l’ha picchiata ed è stato punito per questo. La morte della poetessa è però stata archiviata come suicidio. E questo Maria Bashir non se lo perdona ancora. Le chiedo cosa pensa di questa storia.”In Afghanistan chi vuole lavorare fuori casa deve, prima su tutti, scontrarsi con la sua famiglia. La lotta inizia intestina. E molto spesso sono i padri, i fratelli, i mariti, i primi ostacoli. Io sono un esempio e sono orgogliosa di esserlo. Io sono qui per dimostrare che esistono, e devono esistere, donne che lavorano. Io sono un successo per, e del, mio Paese. E sono qui, a lottare, per garantire che questo futuro sia possibile per tutti. Deve diventare la normalità!”.
Mi ricordo degli uomini seduti fuori, nella sala d’attesa, che aspettano di parlare con lei. Della stretta di mano di quell’uomo con la barba bianca che è entrato prima di noi. Le chiedo, allora, se qualche uomo che crede in lei c’è.
“Sa qual è una cosa che mi diverte molto? Quando ho iniziato la gente mormorava, dicevano che una donna non sarebbe mai stata capace di occupare questo incarico e il mio ufficio avrebbe chiuso dopo sei mesi. Adesso io raggiungo molti più successi rispetto ai miei colleghi uomini. Quando ho iniziato eravamo solo in due, ora siamo in tredici. La strada è lunga, lo so, ma stiamo facendo piccoli progressi”.
La nomina del Times, il riconoscimento degli Stati Uniti e la sua sicurezza. Quanto pesa essere Maria Bashir a Maria Bashir?
“I premi mi hanno reso orgogliosa, dimostravano che non erano solo parole ma anche tanto impegno e tanto lavoro quotidiano. Ogni giorno io rischio la vita, ogni giorno qualcuno vuole uccidermi. Due settimane fa, una lettera dei Servizi Segreti afghani mi informava che il Consiglio dei talebani del Kuwait e del Pakistan aveva stilato una lista di persone da uccidere: io ero al secondo posto, subito dopo il Governatore. Giovedì scorso, alle 20.30, mi veniva segnalato che c’era una signora anziana che tentava di parlare con me da un po’ di giorni. Nel suo stomaco era stato trovato dell’esplosivo. Voleva uccidermi anche lei. Non posso muovermi senza la scorta e più che per me mi spiace per la mia famiglia. Mia mamma ogni mattina prega per me, per vedermi tornare a casa la sera. Non è facile nemmeno per loro”.
Le chiedo un ricordo bello degli anni difficili della sua vita, quando insegnava nel sotterraneo di casa sua a leggere e scrivere con i libri di contrabbando, di quelle allieve che ora sono donne in un Afghanistan un po’ diverso. Mi guarda e gli occhi diventano lucidi.
“Le sento spesso. Sono cresciute, si sono laureate, cercano lavoro. E’ stato un periodo orribile ma indimenticabile, tutta la pazienza e i rischi che correvamo solo per insegnare loro qualcosa, in quella piccola stanza chiusa. Sobbalzavamo ad ogni rumore ma non ci siamo mai arresi. Alcune di loro sono diventate giornaliste. La cosa più bella è che quando mi vedono mi chiamano ancora “Maestra“. Mi scalda il cuore, sempre. Sono uno dei motivi che mi spinge ad andare avanti sempre, nonostante tutto”.
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