Gli alberi di Istanbul han gridato per bocca dei turchi, e la bocca dei turchi ha ricominciato a pretendere ad uno ad uno i diritti negati, elementari quanto la libertà di parola, di stampa, diritti riconosciuti a donne e omosessuali. Una foresta di libertà che il popolo turco ora più che mai vuole con fermezza.
Feride Çiçekoglu è una scrittrice che ha lottato per la libertà e ha subito il carcere per aver “pensato a voce alta” durante la giunta militare, salita al potere con il colpo di stato nel 1980. Restò in carcere quattro anni e da quella esperienza trasse il suo Non sparate sugli aquiloni, divenuto poi anche un film di successo nel suo paese e metafora quanto mai attuale delle tensioni che la Turchia vive oggi. Parlare con lei significa riuscire a tracciare un filo conduttore nel tempo, traendo dal suo libro lo spunto per leggere quanto accade oggi nelle piazze turche ma soprattutto nel cuore della gente comune che quelle piazze riempie.
Edito in Italia dalla casa editrice Scritturapura, Non sparate agli aquiloni è la storia di Bariş, un bambino costretto a vivere in carcere con la madre, reclusa per ragioni politiche. La poesia della sua ingenuità non solo non toglie nulla alla crudezza della prigionia, alla convivenza coatta, alla violenza perpetrata anche attraverso una censura ossessiva, la distruzione dei libri, ma se possibile ancor di più mette in risalto l’assurdità e l’ingiustizia della repressione politica in Turchia, della mancanza di libertà di pensiero, della condizione femminile stessa. L’unica libertà che il piccolo Bariş intravvede, senza capirne fino in fondo il senso, è quel fazzoletto di cielo oltre le sbarre, dove di tanto in tanto volano gli aquiloni.
Che cosa la portò in carcere all’indomani del colpo di Stato?
Venni imprigionata perché “pensavo a voce alta”. Migliaia di persone vennero imprigionate durante la giunta del 1980 in Turchia per essersi opposte ai militari e io ero fra quelle. Passai due anni in un carcere militare, non molto diverso da un campo di concentramento, e altri due in un carcere civile. Non avevano prove contro di me. L’unica prova della mia colpevolezza fu che in 55 giorni di detenzione (il che significava essere sottoposti a tortura per tutto il tempo) io non avevo confessato nessuno dei crimini che mi venivano accreditati. Che di per sé, agli occhi della corte, era prova sufficiente della mia “militanza”. Come avrei potuto altrimenti resistere se non avessi subito un “lavaggio del cervello” ideologico? Questo fu quanto mi venne addossato come accusa di colpevolezza, verdetto che venne tuttavia cancellato una volta caduta la giunta militare.
La durezza del carcere letta con l’innocenza di un bambino: perché la scelta dello sguardo infantile e ingenuo per descrivere la crudezza della condizione carceraria?
Perché è possibile dire tantissime cose attraverso il punto di vista di un bambino. Tante assurdità si fanno molto più evidenti dallo sguardo che ha un bambino sul mondo. Ancora oggi, 27 anni dopo esser stato scritto, battute e argomenti contenuti nel libro restano attuali per i giovani lettori perché non sono legati al luogo o al tempo. Il punto di vista di un bambino resta genuino nel porsi domande attorno la dittatura.
Nei recenti eventi accaduti a Istanbul e diffusisi alle altre città della Turchia, contro il dispotico rifiuto del governo di dare ascolto ai cittadini, nei network sono circolate battute citate proprio da questo libro. La maggior parte di chi ha messo in rete queste storie non era ancora nato durante la giunta del 1980, ma ha facilmente messo in relazione il libro con quanto di simile ad allora sta avvenendo oggi.
Cielo e celle, libertà e costrizione: in quale delle due condizioni si trova a guardare il suo futuro la Turchia oggi?
Il desiderio di giustizia sociale non può essere annichilito. I recenti eventi in Turchia sono un’altra prova del fatto che se il popolo viene messo troppo sotto pressione, se per esso viene deciso come dovrebbe vivere, che cosa dovrebbe leggere o non leggere, che cosa bere o non bere, presto o tardi il popolo tornerà a lottare.
Quanto la donna rimane uguale a se stessa in un carcere femminile? E quali sono le difese che può usare contro la violenza psicologica della mancanza di libertà e di espressione?
Le donne non erano le stesse in cella, diventavano migliori. Più forti, e anche più allegre.
Feride Çiçekoglu, Non sparate agli aquiloni, Scritturapura, Asti 2011.
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