di Teodora Malavenda
Trauerarbeit è fotografia. Ma è anche pittura. Trauerarbeit è elaborazione del lutto (dal tedesco ndr) ma è anche presa di coscienza che il passato segna il presente e marchia il futuro, ponendosi come elemento da reinterpretare. E mai da archiviare. Un’operazione quest’ultima che presupporrebbe la cancellazione della memoria collettiva.
Il forte potere evocativo delle immagini e la rilettura personale – ma non per questo meno attendibile di una corale – della storia coesistono nel progetto di Ninni Donato e Angela Pellicanò. Il primo elabora le fotografie anonime dell’aviazione statunitense eseguite durante i voli di ricognizione pre bombardamento della seconda guerra mondiale. La seconda invece insiste sui volti del regime del ventennio fascista pre periodo bellico.
Il lavoro curato da Barbara Vincenzi, sarà inaugurato oggi in occasione della 55ª Biennale di Venezia all’interno degli spazi di Officina delle Zattere sede del Padiglione Nazionale del Bangladesh.
Trauerarbeit è un progetto a “due menti”: quella di un fotografo e quella di una pittrice. Capiamo meglio di cosa si tratta.
Angela: Trauerarbeit è la contrapposizione letteraria alla dimenticanza collettiva. Significa prendere in considerazione l’ipotesi che qualcosa, seppur distante per spazio e tempo, possa essere vissuta come esperienza e ciò presuppone un coinvolgimento che deve necessariamente essere risolto. Per questo progetto ho attinto ai testi pre-bellici e al racconto della guerra ma anche alle sue omissioni per “regola di propaganda di regime”.
Ninni: L’impadronirsi di ricordi non personali ci ha messo in relazione con una memoria che oltrepassa il nostro vissuto. Confrontandoci con la doppia morte, quella fisica e l’oblio, abbiamo provato ad esorcizzare e sublimare quest’ultimo rielaborando il documento originale storico.
L’azione che esercito sulle fotografie anonime del passato è semplicemente il tentativo di limitarne la perdita, di misurare empiricamente esistenze e memorie già da tempo invalidate.
Non ho velleità didattiche o intenti etici. Ciò che cerco di raccontare travalica ogni scientifica obiettività avvicinandosi al racconto letterario: è come cantare guerra senza spargimenti di sangue. Nella mia “elaborazione del lutto” ho sovrapposto strati: distanza temporale dagli eventi, perdita della memoria legata all’individuo (si tratta di scatti anonimi), distanza della visione aerea. Ho immaginato che in “bellum omnium contra omnes” tale distanza fosse funzionale al processo di pacificazione con le migliaia di vittime provocate. Ho cercato nella memoria collettiva la resurrezione dei morti nutrendo la speranza della supremazia dell’intelligenza sulla forza.
Nel vostro lavoro le immagini hanno un forte potere evocativo. Ci riportano indietro di parecchi decenni e richiamano alla memoria eventi nefasti. Dovendo concentrarvi sulla seconda guerra mondiale, quali sono state le vostre sensazioni?
A.: Il modo con cui abbiamo affrontato il progetto ha una duplice lettura. Una orizzontale, evocativa, ravvicinata che focalizza l’attenzione sul particolare. Le immagini ora dipinte, ora ritagliate dalle riviste dell’epoca, si mescolano senza soluzione e risolvono le emozioni senza la rimozione mnemonica. Il ricordo diventa consapevolezza. Solo affrontando il mostro è possibile annientarlo. Per quanto mi riguarda, ho recuperato il vecchio concetto di Davide e Golia, ma Davide è una bambina che spalanca gli occhi sulla miseria. Ninni invece guarda tutto dall’alto.
N.: La reinterpretazione di quel periodo non vuole essere scientifica. Il ‘900 è già stato analizzato in maniera approfondita da storici e filosofi. La nostra rilettura è semplificata, istintiva. Abbiamo considerato che il periodo dal 1930 al 1945 sia il confine oltrepassato il quale nulla è stato come prima. Quel lasso di tempo ha mutato l’esistenza delle generazioni successive, spaccando il mondo in due blocchi e innescando le dinamiche che ritroviamo nei sistemi di potere attuali. Quegli anni ci hanno insegnato che il male non ha bisogno di mostri ma che si annida anche nel più insulso dei burocrati quando questi lo avalla per spirito di carriera o semplicemente per quieto vivere.
In Trauerarbeit fotografia e pittura che rapporto hanno instaurato?
A.: Nel progetto è imprescindibile il rapporto tecnica-narrazione. Io non avrei potuto attingere al passato se non l’avessi visto documentato. Ninni non avrebbe potuto elaborare le immagini se non fossero esistite. L’aderenza con il reale in questa fase, produce la verità che non è sempre scontata. Ciò che è fotografato dal regime non è sempre ciò che è realmente accaduto e nella mia esecuzione l’elaborazione è doppia. Da una parte i volti del regime con le loro rigide grottesche maschere, dall’altra la sofferenza risolta solo a un livello, quello emozionale. In fondo nell’elaborazione del lutto c’è sempre una perdita, quella è contemplata. Nella soluzione resta solo l’essenza, ma è fondamentale alla sopravvivenza.
N.: Nella prefazione al suo saggio Il Secolo breve, lo storico Eric J. Hobsbawm, parafrasando il poeta T. Eliot, scrive: “il mondo finisce in questo modo: non con il rumore di un’esplosione, ma con un fastidioso piagnisteo”. Il Secolo breve è finito in tutti e due i modi”. Ecco, il nostro lavoro credo sia il risultato di quell’esplosione e di quel piagnisteo.
Nel progetto gioca un ruolo fondamentale il recupero della memoria e dei ricordi vissuti da altri. Ninni e Angela invece come si rapportano con il proprio passato?
A.: Il nostro passato ci condiziona? Passo la parola a Ninni (sorride ndr).
N.: Siamo necessariamente figli di qualcuno o di qualcosa. In ogni modo mi sento pacificato. È chiaro che anche la memoria degli altri passa attraverso la mia personale rilettura.
Il nome di uno scrittore, di un regista e di una città.
A.: Orhan Pamuk, Jan Švankmajer, Istambul.
N.: Dante con il suo Inferno ed Aldous Huxley, profetico e visionario. Registi e città vanno insieme: Wim Wenders e Berlino.
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