reportage di Cristina Mancigotti
“La natura selvaggia e meravigliosa, la gente amabile, i paesaggi da mozzare il fiato”. Così mi diceva un armeno descrivendomi il Nagorno Karabakh, la terra rivendicata dagli armeni e dagli azeri. Il nome di questa parte del Caucaso rivela le sue vicissitudini storiche, in cui si ritrovano tracce di russo in “nagorno” (montagnoso), di azero in ”karabakh” (giardino nero) e nel nome che viene dato dagli armeni, “Artsakh”. L’auto proclamazione dell’indipendenza dalla Repubblica del Nagorno Karabakh, avvenuta nel 1991, è al momento riconosciuta solo da tre stati a loro volta non riconosciuti: l’Abkazia e l’Ossetia del Sud nel territorio della Georgia e la Transnistria, in territorio moldavo. Questa lingua di terreno è uno dei motivi di astio principali fra il popolo armeno e il vicino Azerbaigian, i quali siglarono nel 1994, con il trattato di Bishkek, un trattato di ceasefire, cessate il fuoco. Ma nonostante l’accordo di quasi vent’anni fa, sulle linee di confine i cecchini sparano ancora su qualsiasi figura che si palesi alla loro vista, con perdite di centinaia di vite umane su entrambi i fronti. Eppure nel parlare del Nagorno Karabakh gli armeni lo raccontano sempre come un territorio tranquillo e non pericoloso, purché si rimanga nelle città e non si vada nelle zone di confine. Dopotutto farsi trovare da truppe azere in possesso del solo visto per il Nagorno Karabakh potrebbe portare ad un arresto per accesso illegale in Azerbajgan. Così, durante la mia esperienza di volontariato a Yerevan mi sono informata sulla regione e ho ottenuto il visto, che costa circa 6 euro (3000 dram armeni). Da Yerevan ogni mattina parte una marshutka – minivan sovietici con una capienza di 15 persone circa – con destinazione finale Stepanakert, la capitale del Nagorno Karabakh. Eppure, insieme al mio compagno di’avventure, abbiamo deciso di optare per un’opzione decisamente meno tradizionale di viaggio: l’autostop. L’idea di fare autostop non mi aveva mai solleticato molto, non essendone mai stata particolarmente avvezza. Eppure molti dei volontari e delle mie conoscenze in Armenia avevano già provato quest’esperienza uscendone non solo del tutto illesi, ma anche molto soddisfatti. L’ospitalità infatti è uno dei valori di cui i popoli del Caucaso vanno più fieri, qualità che si nota subito nel caso dell’autostop: si fermano perfino famiglie la cui macchina è piena, stringendosi per offrirti un posto! Ovviamente non bisogna mai dimenticarsi di regole basilari, di avere un po’ di senso comune e tenere a mente che viaggiare in coppia è molto più facile e sicuro che soli. Perciò usciti un’ora da Yerevan ci ritroviamo ad alzare il pollice e sfoderare un sorriso smagliante, diretti verso il sud dell’Armenia. Una Lada bianco sporco si ferma per darci un passaggio, una trentina di kilometri più avanti un camion che trasporta vari generi di beni, e così via macchina di macchina. Per fine della giornata riusciamo a raggiungere Tatev, città dove sorge uno dei monasteri armeni con la vista più sbalorditiva. Fare autostop non è tutto “rose e fiori” e, oltre a camminare per mezz’ore senza nessun passaggio, ci capitò anche di essere lasciati a “cinque minuti dalla città”, quando in realtà eravamo nel mezzo di una vallata senza alcun segno di una macchina in arrivo. In compenso si entra a contatto con persone e storie diverse, dall’anziano che durante l’Unione Sovietica finì come soldato in Vietnam, al proprietario di una compagnia di gas che cerca di tornare a Stepanakert dai parenti ogni weekend possibile. Ma tornando al nostro viaggio: la mattinata dopo un militare ci porta oltre il confine diretti verso Shushi, una delle città più grandi della Repubblica del Nagorno Karabakh. Nell’unica e tortuosa strada che collega il confine armeno alle varie città del Nagorno Karabakh – strade pagate per la maggioranza dalle comunità di diaspora armene nel mondo – il soldato ora ci indicava una città e di come gli armeni avessero combattuto e conquistato la terra, ora di un punto montuoso e di come i cecchini azeri fossero sempre appostati lì. Shushi mostra ancora i segni della guerra, essendo stata una delle città espugnate con maggior fatica dalle truppe armene, nonché fulcro delle tattiche militari per l’occupazione del territorio. Nel museo di storia della città è presente una dettagliata ricostruzione degli avvenimenti della guerra, di cui uno dei soldati sopravvissuti, nonché gestore del museo Saro Saryan, è in grado i farvi vivere in secondo persona con il suo i racconti tutti i momenti salienti del giorno della conquista di Shushi del 1992. Fra gli edifici diroccati si riconoscono numerosi segni del popolo azero che camminato a sua volta quei terreni, e non lontane dal centro città, quasi a portarne il simbolo, due moschee in rovina abbandonate a loro stesse. In una ventina di minuti in mashutka si è Stepanakert, e il paragone con Shushi balza subito all’occhio: decisamente più animata e popolosa, i panni stesi fra un palazzo e l’altro dove spiccano numerosissime le divise militari. Si respira un clima tranquillo e nella periferia si nota una corsa alla costruzione di nuovi edifici, che allargano lentamente il profilo della città. Costeggiato da un lungo vialone, sorge su una collina nel mezzo del nulla uno dei monumenti simbolo dell’Artsakh, “Papik u Tatik” (il nonno e la nonna). Così, nonostante non avessimo avuto il tempo di visitare altri luoghi “imperdibili” a detta degli armeni, ci siamo rimessi in viaggio sulla strada di ritorno per Yerevan, anche questa volta alzando il pollice e lasciandoci prima Stepanakert, e poi Shushi alle nostre spalle: “Steistiun!”.
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