INTERVISTA AL FOTOREPORTER FABIO BUCCIARELLI
A cura di Teodora Malavenda
In questi giorni a Torino (fino al 6 ottobre), nella Project Room della Fondazione Sandretto Re Rebaudengo, è in mostra Evidence. Ce ne vuoi parlare?
Evidence è una mia personale. La prima tappa è stata fatta a Trento presso Le Gallerie di Piedicastello. È un’esposizione di 70 fotografie dall’Iran, dalla Libia, dalla Birmania e dalla Siria. Il reportage sulla Siria è Battle to Death che ha ottenuto diversi riconoscimenti tra cui il Robet Capa Gold Medal Award e il secondo premio per la categoria Spot News Stories del World Press Photo.
Come hai sviluppato questo lavoro?
Ho realizzato Battle to death tra settembre e ottobre 2012. Ho raggiunto Aleppo passando per la Turchia. Sono arrivato a Gaziantep e da lì ho attraversato la frontiera. Ho cercato di documentare tutti gli aspetti del massacro che le milizie di Assad stanno compiendo sulla popolazione civile: la front line, i feriti, i profughi che scappano dalla città, la vita quotidiana sotto le bombe, la morte.
Hai vissuto 40 giorni in Siria. Che idea ti sei fatto di quella che è stata percepita inizialmente come una nuova rivoluzione, sull’onda delle Primavere arabe?
Più che una rivoluzione è un massacro contro i civili. L’esercito di Assad ha tanti strumenti bellici come i Mig, i katiuscia, i mortai. I ribelli invece non dispongono di una logistica militare tale da poter fronteggiare la grande potenza. Questo è quello che ho visto un anno fa. Adesso la situazione è cambiata. Dopo due anni di non intervento internazionale la rivoluzione ha perso le ragioni per cui era nata. Inoltre sono entrate in gioco cellule jhadiste che hanno reso la situazione più confusa e più difficile da documentare.
In Siria hai lavorato anche a fianco di Domenico Quirico. Come commenti le sue dichiarazioni subito dopo la liberazione: “non è più la stessa rivoluzione che ho incontrato due anni fa ad Aleppo, laica e democratica. E’ diventata un’altra cosa, molto pericolosa e complessa”.
Sono pienamente d’accordo con Domenico. Tra l’altro dopo 152 giorni di prigionia credo che abbia un quadro preciso della situazione. Come ti ho già detto, si è arrivati ad una situazione estrema anche a causa dell’indifferenza del resto del mondo, che si è limitato per due anni a guardare. Il territorio siriano oggi è impraticabile tanto che il rischio maggiore per i giornalisti non sono i bombardamenti ma i sequestri.
Al di là del valore documentario intrinseco nell’immagine, qual è il messaggio che vuoi comunicare con le tue fotografie?
Il ruolo del giornalista è il ruolo di ambasciatore dell’informazione. Io mi sento soddisfatto anche se solo una persona guardando una mia fotografia si sente partecipe del racconto. Smuovere le coscienze, è questo lo scopo del reportage dalle zone di conflitto. Dobbiamo mostrare quello che succede fuori dai nostri orticelli, soprattutto in paesi come la Siria neppure poi tanto lontani dall’Italia.
Etica e fotografia. In che rapporto stanno?
Stanno in un rapporto molto stretto. Sono quasi sinonimi. Etica vuol dire documentare quello che sta succedendo in maniera congrua e reale, rispettando i soggetti ritratti. Ci sono molti fotografi che fanno buone fotografie, però la differenza tra una fotografia fatta bene e una che passerà alla storia è l’empatia che si instaura tra il fotografo e il soggetto fotografato. E questa empatia è legata all’etica.
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