- I conti col passato. Un’altra tappa del processo al figlio di Muammar Gheddafi Seif al Islam e al suo capo dell’intelligence Abdullah Senussi. Sulla loro sorte si gioca l’immagine internazionale della Libia e, nel primo caso, anche il rapporto delle forze interne. [Leggi]
- Economia. Il workshop FDILibyadi Londra sembra sancire un importante legame economico con l’Inghilterra di David Cameron, cui il Primo ministro libico Ali Zeidan ha fatto visita. Non solo Inghilterra, comunque, tra i partner economici libici, anche Francia e Italia. La statunitense Exxon Mobil Corporation minaccia il ritiro se il blocco dei terminali petroliferi dovesse continuare. [Leggi]
- Fatti di Bengasi del settembre 2012. Proprio mentre un furto d’armi crea frizioni tra l’esercito statunitense e quello libico, una nuova inchiesta repubblicana sull’assalto all’ambasciata di Bengasi sottolinea le presunte responsabilità dell’ex Segretario di Stato Hillary Clinton, probabile candidata democratica per le presidenziali del 2016. Intanto un nome potrebbe collegare quegli eventi agli omicidi politici accaduti quest’anno in Tunisia. [Leggi]
- Cultura, storia e geopolitica. Lo storico mediorientale inglese Jason Pack interpreta, alla luce del suo ultimo studio, le insurrezionilibiche del 2011. E spiega come la Libia potrebbe risollevarsi dalla crisi e al fianco di chi. Intanto anche nelle università libiche la cultura sembra parlare inglese. [Leggi]
Udienze separate per Seif al Islam Gheddafi e Abdullah Senussi, volti illustri dell’era verde. Il figlio e ex delfino del Colonnello al centro di contenziosi nazionali e internazionali.
testoIl 19 settembre la Libia ha incontrato per l’ennesima volta il suo passato, che ha il volto di Seif al Islam Gheddafi e Abdullah Senussi. Entrambi ricercati anche dalla Corte Internazionale dell’Aia, vedono pendere sulla loro testa, assieme ad accuse di minor conto, anche quella di crimini contro l’umanità. Un articolo del corrispondente in Libia del giornale inglese The Guardian Chris Stephen informa i lettori sul loro passato. Seif al Islam, 41 anni, è, com’è noto, l’unico tra i figli di Gheddafi a essere ad oggi detenuto nelle carceri libiche. Fu preso pochi giorni dopo la morte del padre mentre tentava di fuggire in Niger; l’intento era forse quello di seguire le orme del fratello Saadi che aveva oltrepassato la frontiera già dopo la caduta di Tripoli a fine agosto, nel settembre 2011. Tra gli altri figli di Gheddafi, alcuni avevano trovato la morte nel corso del conflitto, come forse Khamis e sicuramente Mutassim, altri, come Aisha e appunto Saadi, erano riusciti a lasciare il paese prima che per loro fosse troppo tardi. Dai primi anni duemila Seif al Islam si era presentato all’opinione pubblica libica e internazionale come un riformatore, come colui che avrebbe rivitalizzato la creatura politica del padre, la Jammahiriya: da anni infatti la Libia era oggetto di sanzioni ONU e si trovava isolata sul piano internazionale.
Seif al Islam aveva quindi preso a girare i salotti buoni d’Europa in cerca di consensi, rinsaldando soprattutto i legami con l’Inghilterra dell’allora primo ministro Tony Blair, ricevendovi un dottorato e devolvendo denaro a favore dell’università britannica. All’interno del paese aveva patrocinato dei progetti di relativa liberalizzazione.
Nel febbraio 2011 però i fatti di Bengasi e la successiva rapida militarizzazione degli attori in gioco mettevano in discussione Muammar Gheddafi e la sua Jammahiriya. Troppo anche per Seif, che appariva in televisione puntando fisicamente il dito contro i ribelli: la sua posizione era al fianco del padre. Oggi quel dito, insieme ad altri, non c’è più, secondo l’ex delfino a causa di un bombardamento NATO.
Abdullah Senussi, 63 anni, è stato per decenni il capo dell’intelligence gheddafiana, stretto al suo leader anche dal matrimonio con la sorellastra. Il suo nome rimarrà per sempre legato all’eccidio del carcere di Abu Selim, Tripoli, dove nel 1996 furono uccisi 1200 detenuti, in buona parte oppositori politici. Un detenuto di quel carcere ricorda al corrispondente del Guardian: «Era responsabile di tutto quello che vi accadeva, tutte brutte cose. Lui era il peggiore. Quando avesse camminato fuori [dalle celle], lo avresti saputo, avresti sentito correre un brivido lungo la schiena». Ma, aggiunge sempre Azerdin Madani imprigionato negli anni ’80 per aver preso parte a un tentativo di omicidio ai danni di Muammar Gheddafi, «voglio vederlo affrontare un vero processo; deve avere giustizia. Voglio che veda che questa è la vera differenza tra il suo modo di fare e il nostro». Senussi però è noto anche all’estero perché legato a episodi di terrorismo internazionale, ed è per questo che la Corte dell’Aia lo richiede assieme a Seif.
Il 19 settembre Seif al Islam e Abdullah Senussi avrebbero dovuto ritrovarsi uno di fronte all’altro a Tripoli e alla vigilia dell’udienza le autorità della capitale avevano mostrato una certa sicurezza nel dire che questo sarebbe avvenuto. Nessun dubbio per Senussi, già detenuto a Tripoli; il problema, come sempre, era Seif Gheddafi, che le milizie di Zintan si sono sempre dimostrate restie a consegnare. Insieme ai due, altri 36 ufficiali lealisti si sarebbero dovuti presentare, e si sono presentati giusto il tempo di sentire i crimini che venivano loro imputati e vedersi aggiornato il processo al 3 ottobre: venivano dalle prigioni di Misurata, Sebha, Zawiya.
Ma il 19 settembre, a Tripoli, Seif al Islam non è mai arrivato, venendo invece processato a Zintan per i reati minori di cui è accusato: insulto alla bandiera nazionale e tentativo di fuga. A domanda esplicita, pare che abbia risposto che la sua volontà è di essere processato a Zintan, che come Tripoli è territorio libico. Durante l’udienza qualcuno ha avanzato la proposta, a proposito della Corte Internazionale, di processare insieme a Seif anche il suo avvocato dell’Aia, l’australiana Melinda Taylor, e la sua interprete libanese Helene Assaf. La Taylor fu trattenuta per qualche tempo nel 2012 con l’accusa di aver scambiato alcuni importanti documenti con il suo assistito, ma è ovvio che l’immunità garantitale dal suo ruolo non ne permetta il processo.
Ad attendere Senussi e gli altri 36 lealisti a Tripoli, in una struttura adeguata all’eccezionalità del caso e con tutti gli esercizi circostanti che hanno dovuto osservare un giorno di chiusura, i parenti delle vittime di Abu Selim che, mostrano le foto scattate dai giornalisti del Libya Herald, ne chiedevano la morte.
Secondo una versione fuori dal coro riportata dalla Reuters, ci sarebbe chi comincia ad averne abbastanza del comportamento dei ribelli di Zintan, accusati di proteggere l’ex delfino di Gheddafi per poter ricavarne prestigio e forza politica: lo consegnassero a Tripoli come ogni altro e lo facessero giudicare. D’altro canto a Zintan si continua a mettere sotto accusa la scarsa sicurezza della capitale, che non sarebbe sufficiente a garantire la salvaguardia del detenuto.
Difficile stabilire ora come finirà la questione, dove e da chi in ultimo sarà giudicato Seif. Zintan o Tripoli che sia, non pare che la Libia abbia particolare fretta di esaudire le richieste di estradizione dell’Aia, perché giudicare il maggiore simbolo di un’era ormai finita sarebbe la dimostrazione agli occhi del mondo che uno Stato capace di giudicare e funzionare in Libia esiste; altro sarebbe invece consegnarlo a un’autorità sovranazionale. Certo è che in Libia tanto Gheddafi quanto Senussi, fossero trovati colpevoli, rischierebbero la pena di morte, all’Aia la pena maggiore sarebbe l’ergastolo. Ma a chi mette in dubbio che le autorità di Tripoli siano in grado di assicurare ai due un processo giusto, equo e credibile, il ministro della giustizia Salah Marghani rsponde, sempre dalle pagine dell’Guardian: «Non avremo i processi di Topolino con questo governo. I processi di Topolino li abbiamo avuti in passato. Li abbiamo avuti negli stadi e nelle piazze delle città con orribili risultati». Per Saif al Islam il processo è ora rinviato al 12 dicembre. L’intenzione è che prima o poi gli si aggiunga anche il fratello Saadi, per cui è stata fatta al Niger domanda di estradizione.
L’economia della Libia del dopoguerra. L’Inghilterra sembra essere uno dei partner maggiori, la crisi petrolifera alla lunga potrebbe ridisegnare qualche alleanza.
I rapporti tra Libia e Inghilterra, non più quelle di Seif al Islam Gheddafi e Tony Blair, ma quelle di Ali Zeidan e David Cameron, continuano anche oggi, a distanza di due anni dalla rivoluzione del 17 febbraio.
Tra il 17 e il 18 settembre si è tenuto a Londra il workshop FDILibyache ha inteso mostrare ai partner del paese nordafricano quale è stato e quale sarà l’indirizzo economico del dopo 2011. Sul sito ufficiale del progetto è stato postato un video datato 2 giugno 2013 in cui il vice Primo ministro Abdul Salem al Qadi spiegava che l’intenzione è quella di favorire quanto più possibile gli investimenti esteri e liberalizzare il mercato per andare incontro tanto agli imprenditori stranieri, che devono essere allettati a investire in Libia, quanto a quelli locali: «Riguardo l’idea dell’intervento dello Stato in tutti i settori dell’economia, ciò sarebbe una perdita per lo Stato e un fallimento per gli imprenditori. Per questo vogliamo rafforzare il ruolo degli uomini d’affari e degli investitori».
In questo panorama Londra pare avere un ruolo privilegiato. Non a caso se alcune conferenze promozionali di FDILibya si sono tenute anche a Dubai e Washington e se tra gli invitati nominati nel video risultano Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Stati Uniti e Turchia, sin dall’inizio era stato previsto che la conferenza finale e più importante avesse luogo sulle sponde del Tamigi. Non a caso, poi, la delegazione libica era presieduta dal Primo ministro Ali Zeidan, che ha approfittato della missione per parlare con il pari ruolo inglese David Cameron del disarmo delle milizie e della ricostruzione delle forze militari nazionali.
Alcuni dati sul rapporto economico che lega Libia e Inghilterra sono stati raccolti dal Libya Herald durante un’intervista a Nick Baird, che mentre a Londra si teneva il workshop a Tripoli presenziava all’apertura ufficiale di un negozio della catena Debenhams. Nick Baird è una figura di un certo rilievo, essendo il capo esecutivo della United Kingdom Trade and Investiment (UKTI). Spiega Baird che la debolezza attuale dei mercati tradizionali ha spinto l’Inghilterra alla ricerca di altre rotte e il Nord Africa è una di queste. In particolare le risorse energetiche – gas e petrolio – del suo sottosuolo rendono la Libia un paese molto importante in cui lo Stato europeo potrebbe investire nel tentativo di aumentare il proprio volume di affari relativo alle esportazioni: l’intenzione sarebbe passare – questi i numeri forniti da Baird – dal volume attuale di 500 miliardi di sterline a un trilione di sterline entro il 2020. Tra i futuri probabili investimenti, anche la Coppa d’Africa che la Libia dovrebbe ospitare nel 2017 e che potrebbe essere organizzata proprio con la supervisione di Londra.
Per avere un’idea di quanto l’Inghilterra stia affiancando l’economia nazionale libica, si può dare un’occhiata alle pubblicità che compaiono nella pagina di uno dei più letti giornali nazionali, il Libya Herald: si vedrà che tra le inserzioni compaiono la British Airlines, il sito della FDILibya e la catena di di distribuzione Debenhams: proprio quella che il capo esecutivo dell’UKTI Nick Baird si apprestava a inaugurare a Tripoli e la cui inaugurazione è stata coperta dal giornale stesso. Ma non c’è solo Inghilterra nel parco economico libico: si contano anche Francia e Italia. Sull’Italia, storico partner economico della Libia è sempre il Libya Herald a proporre qualche dato: secondo il giornale libico il volume d’affari tra le due sponde del Mediterraneo nel 2012 ha avuto una punta massima di 2,4 miliardi di euro e dovrebbe toccare i 2,7 entro la fine del 2013. Non è qui specificato in cosa consistano questi affari, ma il principale motivo della comunicazione economica dei due paesi storicamente è il petrolio. Nel recente passato – dopo il 2011 – ci sono stati anche rapporti di tipo militare con donazioni all’esercito libico di mezzi Lince, e culturali. L’articolo cita una delegazione della camera di commercio di Padova che visiterà Tripoli tra il 21 e il 24 settembre.
Al momento uno dei settori in cui la Francia – insieme a Inghilterra e Stati Uniti – sembra essere più interessata è quello della telefonia, anche questa in via di liberalizzazione in Libia. Le due compagnie telefoniche nazionali libiche sono la Libyana, che raccoglie circa l’80% degli utenti e varrebbe secondo la Reuters un miliardo di dollari l’anno, e la al Madar. Rispettivamente servono un pubblico di circa 6 milioni e 2 milioni di persone. Appetibili per i mercati esteri ci sarebbero alcune riforme strutturali come la diffusione della banda larga, ancora poco presente in alcune aree, e l’Alcatel ha già siglato in passato alcuni accordi per l’Ovest del paese. Una maggiore delusione hanno riservato invece i francesi nel settore della sanità: alla decima mostra internazionale di Tripoli hanno risposto solo in minima parte, mentre molto più presenti erano i turchi e i paesi del Golfo.
In ultimo la crisi petrolifera, che se sembra in buona parte risolta all’Ovest con la possibilità di riutilizzare i giacimenti di El Sharrara e El Feel, all’Est è invece difficile vedere una fine: non solo Es Sider, Ras Lanouf, Brega e Hariga sono ancora chiusi per le esportazioni, ma i ripari e i controlli da eseguire non appena riprendessero le attività richiederebbero milioni di dollari e settimane di tempo, fa sapere alla Reuters il rappresentante della Libia all’OPEC (Organization of the Petroleum Exporting Countries) Samir Salem Kamar. L’autoproclamatosi Consiglio di Cirenaica – la Cirenaica è la regione orientale della Libia – contesta il governo di Tripoli e fa sapere che, dal suo punto di vista, gli scioperi e la chiusura dei terminali non c’entrano nulla con pretese motivazioni economiche, con gli stipendi degli operai; piuttosto denunciano l’esasperazione per l’assenza del governo nel controllo della corruzione nella vendita all’estero del petrolio e nella mancata messa in sicurezza di città come Bengasi, dove gli attentati sono molto frequenti. Chiede poi che cariche come quella politica del Capo di Stato maggiore e quella religiosa del Grand Mufti non vengano detenute da una sola persona ma da gruppi di persone rappresentanti di tutte e tre le province libiche: Tripolitania, Cirenaica e Fezzan.
Intanto, qualsiasi siano le sue motivazioni, la crisi petrolifera i suoi danni li ha già fatti, visto che secondo i dati del ministero dell’economia la Libia perde 130 milioni di dollari al giorno da due mesi in qua e entro la fine dell’anno potrebbe essere costretta a intaccare le sue riserve di 40 milioni di barili. Il punto è che dal governo partono, diretti all’estero, messaggi quanto più possibile rassicuranti, con la NOC (National Oil Company) che fa sapere che i contratti saranno rispettati e che semmai si rinuncerà a nuove indagini del sottosuolo nel 2014; annuncia anzi un piano decennale di 60 miliardi di dollari per migliorare le proprie infrastrutture. Le reazioni sono state le più varie: se l’italiana ENI fa sapere di non avere intenzione di ritirarsi dalla Libia, la statunitense Exxon Mobil Corporation si è dimostrata più perplessa e ha fatto sapere che potrebbe ritirare il suo staff se il blocco continuerà e la sua presenza sul terreno risulterà quindi non giustificata.
«Non siamo soli nel mondo», ha dichiarato il Primo ministro Ali Zeidan forte del comunicato congiunto di Stati Uniti, Inghilterra, Italia e Francia di appoggio al governo sulla questione petrolifera. Rimane da vedere per quanto.
USA, un furto d’armi «speciali» ai danni una missione militare statunitense potrebbe incrinare il rapporto con la Libia. Hillary Clinton coinvolta da un’inchiesta repubblicana sui fatti di Bengasi del settembre 2012. Vi sarebbe un possibile collegamento tra questi eventi e gli assassinii politici del 2013 in Tunisia.
Succede a 27 km da Tripoli, nella base nota col nome di «32a brigata», l’unità lealista comandata da uno dei figli di Gheddafi che pare non sia sopravvissuto alla guerra del 2011, Khamis. Da qualche tempo in quella base militare operavano dei soldati statunitensi che in qualche modo avevano a che fare con armi speciali dotate di particolari visori notturni. Queste armi vengono lasciate nell’edificio – e qui qualcuno mette allora in dubbio che fossero poi tanto speciali – quando i soldati vanno a dormire nei loro appositi alloggi e più raids uomini non meglio identificati riescono a sottrarle. Si teme che finiscano in mani sbagliate, ci sono voci di fermi alla frontiera. L’episodio creerebbe comunque attriti tra esercito statunitense e libico e sembra che l’unità potrebbe essere richiamata oltre Atlantico. Di tutto questo l’11 settembre il canale FOX News [12 FOX armi] dà notizia al pubblico americano. Per il pubblico libico invece la prima voce è quella del Tripoli Post [13 TP armi], che, riprendendo proprio l’emittente d’oltre oceano, il 15 settembre riserva al governo parole poco tenere: «Il governo libico non ha mai rivelato cos’è successo e ha tenuto il pubblico all’oscuro nonostante i pericoli che un incidente di questo tipo può arrecare alla sicurezza della sua gente».
La questione del furto alla «32a brigata» non è l’unica a rendere insidioso il rapporto politico tra Stati Uniti e Libia. Su tutto, naturalmente, la questione mai risolta della morte dell’ambasciatore John Cristopher Stevens a Bengasi, l’11 settembre del 2012, che giusto nei giorni del primo anniversario sembra aver assunto un nuovo peso nell’attualità politica nordamericana.
Un anno fa infatti il governo federale aveva commissionato un’indagine alla Administrative Review Board, la quale in circa due mesi era giunta alla conclusione che responsabili della morte dell’ambasciatore fossero quattro ufficiali di medio livello: la colpa, non aver saputo preparare adeguatamente le misure di sicurezza necessarie ad un’ambasciata in un paese instabile come la Libia del dopoguerra. Tra l’altro i quattro risultano ancora lavorare per lo Stato americano, solo con diverse mansioni.
Un anno dopo, nei giorni appunto dell’anniversario, da parte repubblicana si alzano critiche contro questa indagine: sarebbe stata troppo frettolosa e soprattutto avrebbe accuratamente evitato di coinvolgere personalità di più alto livello e che non potevano non essere responsabili di quanto accaduto, del fallimento delle misure di sicurezza. Tra queste personalità il nome più illustre è quello dell’allora Segretario di Stato Hillary Clinton, sulla quale una nuova commissione vicina appunto ai Repubblicani, la House Oversight Committee (HOC), sta invece indagando.
Se si considera che la Clinton è una delle probabili candidate democratiche per le elezioni presidenziali del 2016, si può capire il peso politico che la nuova indagine rischia di assumere.
Abbastanza scontate anche le proteste del partito dell’ex Segretario: ne è un esempio la lettera che lo stesso Daily Beast pubblica a seguito del suo primo articolo sulla nuova indagine, in cui un componente democratico della Commissione sconfessa quanto sta accadendo e ritiene l’indagine una pura strumentalizzazione repubblicana dei fatti di Bengasi.
La HOC ha in ogni caso dato il via alle interrogazioni, raccogliendo in settimana varie testimonianze di persone legate agli eventi. Non solo Hillary Clinton comunque, tra gli imputati, ma anche il responsabile per il Medio Oriente del segretariato di Stato Liz Dabble, nominato dopo i fatti vicecapo della missione all’ambasciata statunitense a Londra, e il sottosegretario di Stato Patrick Kennedy.
Nella seconda udienza, tenutasi giovedì 19 settembre, i parenti delle altre due vittime statunitensi dell’ambasciata, Tyron Woods e Sean Smith, hanno chiesto come mai nessuna unità militare americana sia intervenuta in difesa degli attaccati: il generale Martin Dempsey ha risposto che semplicemente nessuna unità era in grado di intervenire in tempo a Bengasi. Pare inoltre che l’edificio di Bengasi fosse stato classificato non come «ambasciata», ma come «temporary post», postazione temporanea, e che questo giustificasse in qualche modo minori misure di sicurezza.
Ma novità sulla questione vengono anche dall’emittente araba Al Jazira, che rende nota la possibilità di un collegamento tra l’attacco all’ambasciata di Bengasi e l’assassinio dei due leaders della sinistra tunisina Chokri Belaid, il 6 febbraio 2013, e Mohamed Brahimi, il successivo 26 luglio.
Il collegamento si chiamerebbe Ali Harzi, che avrebbe avuto legami col braccio tunisino di Ansar al Sharia; il gruppo pare sia responsabile dell’attacco all’ambasciata statunitense a Tunisi il 14 settembre 2012. Nell’ottobre 2012 Ali Harzi era stato preso a Istanbul e estradato in Tunisia. Sospettato di aver partecipato all’attacco di Bengasi, era stato interrogato in carcere da agenti dell’FBI, ma rilasciato l’8 gennaio per mancanza di prove. Era stata la stessa Hillary Clinton a dichiarare – scrive Al Jazira – che il governo tunisino aveva dato precise rassicurazioni sul fatto che Ali Harzi sarebbe stato comunque sorvegliato e avrebbe avuto l’obbligo di non allontanarsi dalla capitale. I Repubblicani proponevano comunque la sospensione degli aiuti alla Tunisia – 320 milioni di dollari l’anno -, mentre Ansar al Sharia criticava il governo del paese nordafricano per aver permesso che un suo cittadino venisse interrogato da agenti statunitensi.
Poi ci furono i due assassinii e il 28 agosto 2013 Tunisi dichiarava Ansar al Sharia un gruppo terroristico.
Nelle università libiche la cultura sembra parlare sempre più inglese. Lo storico Jason Pack presenta a Londra il suo libro sulla guerra del 2011 e pensa a un potere forte per unire la Libia; “l’Inghilterra sarebbe l’alleato ideale”.
In settimana sono usciti alcuni articoli che gettano uno sguardo interessante sul panorama culturale libico. Anche qui si deve registrare, senza volerne fare ovviamente un dato assoluto, una certa presenza inglese. Tra economia e cultura, l’impressione che la stampa di questa settimana ha dato dell’Inghilterra a proposito dei suoi rapporti con la Libia è stata quella di una sorta di grande incubatrice, una grande balia che la Libia del dopo 2011 tiene per mano per muovere i primi passi. Una settimana di notizie non basta certo a inquadrare in modo definitivo i rapporti tra i due paesi, rischia anzi di metterli in risalto più di quanto effettivamente meritino, ma possono comunque dare un’idea. Un’idea da verificare, certo, nel lungo periodo, ma non da scartare.
Il primo, del Libya Herald, descrive una fiera del libro tenutasi all’università di Tripoli. Il lettore ne può trarre un’idea generale del mondo universitario libico: gli studenti intervistati dichiarano infatti una generale predilezione per le materie tecniche, ritenute forse più concrete e favorevoli delle umanistiche per uno sbocco lavorativo, e individuano una predilezione, da parte degli insegnanti, per l’insegnamento del lato tecnico e grammaticale delle lingue. Ma anche in questo mondo universitario la cultura inglese sembra avere una sua importanza, visto che tra i libri di testo buona parte di quelli poi adottati nei corsi è stampata a Oxford e Cambridge.
E proprio il 15 settembre si è tenuta a Londra una conferenza sulla guerra che nel 2011 portò alla fine del progetto politico che Muammar Gheddafi aveva iniziato col colpo di Stato del 1 settembre 1969. A parlarne, lo studioso di storia mediorientale dell’università di Cambridge Jason Pack, autore del recente libro The 2011 Libyan Uprisings and the Struggle for the Post Qadhafi Future («Le insurrezioni libiche del 2011 e lo sforzo per il futuro dopo Gheddafi»). Il titolo dell’opera è già eloquente, in quanto declina al plurale ciò che di solito si è abituati a pensare al singolare: non dice «l’insurrezione libica» ma «le insurrezioni libiche», «the Libyan uprisings». L’autore è infatti convinto che Gheddafi abbia dovuto affrontare, unite in una sola, varie insurrezioni motivate da diversi fattori economici, politici, etnici, sociali e che la morte, in ultimo, del Colonnello, abbia eliminato l’unico collante che le teneva insieme. Dal 20 ottobre 2011 in poi ognuna avrebbe intrapreso il proprio percorso e costituito una forza disgregante dell’unità e della stabilità economica, politica, etnica, sociale, della Libia. Pack auspica quindi per l’ex Jammahiriya un nuovo potere forte capace di unificare e tenere insieme tutte queste tendenze.
Una Libia forte richiederebbe anche un alleato economico e politico sicuro quale l’Inghilterra già più della Francia e degli Stati Uniti potrebbe essere: la Francia perché non gode, sostiene lo studioso, del credito universale che servirebbe per agire nel paese – Pack si riferisce in particolare all’immagine dello Stato europeo nei Paesi del Golfo -, gli Stati Uniti perché l’attacco all’ambasciata di Bengasi del settembre 2012 costituirebbe ancora una questione spinosa da risolvere prima che i due paesi possano tornare ad avere un rapporto del tutto normale.
Profilo dell'autore
- Il primo amore è stato la letteratura, leggo e scrivo da che ne ho memoria. Poi sono arrivati la storia e il mondo, con la loro infinita varietà e con le loro infinite diversità. Gli eventi del 2011 mi lasciano innamorato della Libia: da allora ne seguo il dopoguerra e le persone che lo vivono, cercando di capire questo Paese e la sua strada.
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