«I rifugiati palestinesi sono persone il cui normale luogo di residenza era la Palestina tra il giugno 1946 e il maggio 1948, che hanno perso tanto le loro abitazioni quanto i loro mezzi di sussistenza come risultato della Guerra arabo-israeliana del 1948» UNRWA (Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei profughi palestinesi nel vicino oriente)
Quando si arriva in Cisgiordania e si conosce la realtà dei campi profughi si capisce che, al contrario di campi nati da poco (ad esempio Za’atari in Giordania), quelle che erano una volta tendopoli sono ora sobborghi trascurati alle periferie della città, quartieri spesso malandati e con poche strutture essenziali (sanitarie, scolastiche e di fornitura di beni di prima necessità), che mantengono lo status di campo profughi e aiuti da parte di organizzazioni umanitarie come la Croce Rossa e l’UNRWA anche a distanza di molti anni.
I primi campi profughi palestinesi nascono dopo la Nakba (l’esodo del 1948, la catastrofe) quando con la creazione dello stato ebraico circa 700.000 persone (dati delle UN) sono state costrette a riversarsi in Cisgiordania e nei territori circostanti (Striscia di Gaza, Giordania, Siria, Libano e altri paesi). Nel 1967, con la Guerra dei sei giorni, Israele conquista anche il resto del territorio della Palestina storica e i palestinesi sono costretti a un nuovo esodo (la Naksa). Nascono così nuovi campi, a volte adiacenti a quelli già esistenti (come i campi di Old Askar e New Askar nati rispettivamente nel ’50 e nel ’67), molti profughi si riversano nei campi già esistenti creando un sovraffollamento in aree non preparate ad accogliere un numero così grande di persone, mentre altri emigrano nei paesi vicini. Inizialmente si trattava di tendopoli nate per accogliere momentaneamente le famiglie messe in fuga dal conflitto, poi con il passare del tempo e con la speranza del ritorno alle proprie case che si allontanava sempre di più, le tende furono sostituite dai mattoni. A ogni famiglia furono assegnati un certo numero di metri quadrati su cui costruire la propria casa (all’inizio della grandezza di una stanza o poco più) indipendentemente dai membri che componevano la famiglia. I profughi, nonostante non avessero mai smesso di sperare in un ritorno alle loro città di origine, hanno iniziato a stabilirsi nei territori che li avevano ospitati, tirando su le loro case come meglio potevano, poco alla volta e aggiungendo pezzi laddove ce ne fosse la possibilità, soprattutto in altezza, ma la grandezza dei campi restava perlopiù invariata, nonostante l’inevitabile aumento della popolazione a distanza di 60 anni e le condizioni di vita che peggioravano sempre più. Dal 1948 ad oggi, secondo le statistiche dell’UNRWA, i profughi palestinesi registrati dentro e fuori dalla Cisgiordania sono aumentati da 700.000 a circa 5 milioni.
Una delle realtà più sconvolgenti in questo senso è sicuramente quella di Balata, in cui tutti i disagi dei campi profughi sono moltiplicati e accentuati: l’altissima percentuale di disoccupazione, il problema dell’acqua, l’assenza e il degrado dei servizi essenziali, una rete fognaria insufficiente, il sovraffollamento delle scuole e l’alta densità della popolazione per Km2. Nato nel 1950 e grande poco più di 1 Km quadrato, ospita, secondo i dati del 2012, tra i 26.000 e i 29.000 profughi. È infatti una delle aree più densamente popolate al mondo. Il 75% della popolazione è al di sotto dei 29 anni e solo il 10% oltre gli 80. La vita media è di 50 anni e un gran numero di persone muoiono di infarto intorno ai 45 anni.
La vita, in un chilometro quadrato, comprende inevitabilmente tutta una serie di disagi dovuti alla mancanza di privacy. Le case sono tutte adiacenti, dai muri sottili e con pochissimo o a volte nessuno spazio tra l’una e l’altra, non esiste privacy né dentro né fuori quelle mura. Questo crea numerosissimi problemi non solo di convivenza tra una famiglia e l’altra (non si può più parlare, mangiare, piangere, discutere, fare l’amore, senza che il vicino sappia cosa stiamo facendo), ma anche gravi problemi psicologici all’interno delle famiglie e nei rapporti sociali: senza privacy si vive una condizione di grande disagio mentale, ancora di più in una società come quella islamica, in cui la vita privata ha una grandissima importanza, soprattutto per le donne, che in casa si spogliano del velo e delle vesti per concedersi la libertà di essere viste dai familiari.
A Balata la vita quotidiana è dura, non c’è lavoro e non c’è speranza nel futuro per nessuno e questo porta alla frustrazione e alla violenza, che comprende omicidi, faide e suicidi. Una pressione grandissima per gli abitanti del campo profughi, che sono spesso fuori controllo e si trovano ad agire in maniera violenta in molti aspetti della vita. Le scuole di Balata sono tra i luoghi più pericolosi della Terra, bambini tra gli 11 e i 15 anni portano con sé armi e coltelli quotidianamente, inoltre il 50% di questi ragazzi è analfabeta anche dopo nove o dieci anni di scuola. Molti degli abitanti di Balata non sono neanche registrati all’anagrafe perché non hanno mai ottenuto documenti di identificazione. Alcol e droga, introdotte da Israele, sono reperibili su tutto il territorio del campo e creano problemi ulteriori di violenza e frustrazione. Queste sostanze, usati spesso per evadere da quella realtà, portano a vivere in contrapposizione ai principi dell’Islam e all’autodistruzione dell’individuo che umiliato da scelte sbagliate secondo la sua religione reagisce in maniera avventata: non sono rari infatti i casi di uomini che entrano nelle colonie israeliane circostanti per essere arrestati o che passano ai check point con armi giocattolo o fuochi d’artificio nella borsa per essere uccisi ed evitare così le conseguenze di una vita all’insegna dell’haram.
Il campo profughi di Balata riceve aiuti dalla Croce Rossa, dalle Nazioni Unite e dall’UNRWA, che negli anni hanno costruito quattro scuole (che ospitano circa 6.000 bambini), un centro di distribuzione alimentare, un centro di salute dell’UNRWA, un’unità di emergenza psicologica, un centro di riabilitazione gestito dalla comunità locale e un centro per le donne. Tuttavia, nonostante l’aumento considerevole della popolazione negli ultimi anni, gli aiuti dalle organizzazioni umanitarie sono rimasti invariati. Se dieci anni fa una famiglia riusciva a vivere con 300 dollari al mese, oggi, con l’aumento del costo della vita del 4-5% e con famiglie sempre più numerose, è praticamente impossibile sopravvivere con quella cifra. Per le famiglie di Balata è molto dispendioso anche mandare i figli a scuola o andare a lavorare fuori dal campo profughi se la distanza è tale da dover essere raggiunta in taxi.
A Balata si vive come stranieri nella propria terra, privati dei propri diritti, senza lavoro, senz’acqua corrente per giorni, senza elettricità, senza servizi adeguati per i giovani e per gli adulti in difficoltà e, come accade anche in campi profughi vicini, con le continue incursioni dell’esercito di giorno e di notte. Si vive anche una condizione di disagio e pericolo all’interno della comunità perché la frustrazione e il disagio di una vita come quella non assicurano le condizioni di benessere psicofisico necessario per la civile convivenza. In una situazione come questa, in cui si vive alla giornata, senza speranza e senza futuro, anche la speranza di ritornare alle proprie città di origine svanisce e senza nessuno scopo nella vita si perde l’entusiasmo di viverla e ci si rifugia nell’oblio, nella depressione, nella frustrazione che è ciò che rende vulnerabili e deboli, innocui davanti agli occhi del paese oppressore.
Se è vero dunque che Israele è artefice di questa situazione (oltre ad essere artefice in primis delle condizioni che hanno creato questa situazione provocando l’esodo nel ‘48), è anche vero che questa non è altro che una strategia per neutralizzare parte della popolazione: se 30.000 anime saranno neutralizzate grazie alla droga e alle faide interne, saranno 30.000 anime in meno di cui preoccuparsi.
La realtà di Balata, come quella di molti altri campi profughi, è una realtà sconcertante che spesso viene ignorata o nascosta perché se lo stato che si definisce unica democrazia in Medio Oriente ammettesse di essere responsabile della vita spezzata di tante persone, forse non tutti continuerebbero a considerarlo un paese democratico. Motivo in più per parlare, fare informazione e portare alla luce queste realtà, anche se a volte troppo dure anche per essere raccontate.
N.B. Le informazioni contenute in questo articolo sono state raccolte sul territorio grazie alle testimonianze dirette dei palestinesi, i dati raccolti sono stati forniti da un centro culturale all’interno del campo profughi e dal sito dell’UNRWA.
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