“E’ come un pezzo di carne nelle mani di molti macellai che la stanno affettando con lame affilate”. E’ la Siria, nelle parole di un ingegnere che da Damasco ha trovato rifugio in Libano. Qui l’antropologa Rochelle Davis e la sua equipe hanno raccolto la sua testimonianza nell’ambito di una ricerca su una parte degli oltre due milioni di persone, quasi 40% della popolazione siriana, costrette ad abbandonare la propria terra. Ad oggi, sono infatti 2.301.925 i rifugiati che in condizioni diverse, spesso proibitive, hanno trovato accoglienza in prevalenza nelle regioni confinanti di Libano, Giordania, Turchia, Egitto ed Iraq: le loro sono voci che non possono essere estromesse dal dibattito sulla gestione, e soluzione, della crisi siriana, voci che spingono a ricordare chi erano queste persone prima di diventare un numero da citare freddamente nelle statistiche, a guardare in faccia la brutalità di quello che la violenza ha fatto a loro e alle loro vite. “Ci spingono a comprendere come queste persone e milioni di persone come loro sopravvivranno alla guerra, e come queste memorie peseranno sul tentativo di ricostruire le loro vite”. Voci che lasciano emergere dolorosamente la brutalità di esperienze marchiate a fuoco nella mente e sul corpo, e voci che rispondendo alla semplice domanda “Cosa ti manca di più?”, da quella brutalità tentano caparbiamente di recuperare, conservare e proteggere la memoria di piccoli gesti consueti, di odori, luoghi, spazi di condivisione, amicizia, affetti, volti, di tutto quello che la Siria era per loro, prima che lame affilate devastassero la sua carne. E di quello che potrebbe essere, o che non tornerà mai ad essere.
“Mi manca il venerdì nel quartiere. Ogni pomeriggio i vicini si sedevano insieme a chiacchierare, e il flusso delle loro storie si interrompeva solo nel cuore della notte. Mi manca la mia casa, e il mio lavoro. E, più di tutti, mio figlio, che è stato martirizzato, Dio benedica la sua anima. Mi manca parlargli, ascoltare la sua voce. Mi manca prenderlo in giro, e abbracciarlo. Passare davanti alla sua stanza e scorgerlo a giocare con i suoi amici. Ora non è rimasto nessuno. Sono tutti scomparsi. Parlo con mio fratello nel campo, quando funziona la rete telefonica qui, possa Dio proteggere lui e la sua famiglia” (uomo palestinese di 42 anni da Yarmouk Camp, Damasco; vive attualmente a Burj A-Shamali Camp, Tyre, Libano).
“Mi manca la Siria, e Damasco. Mi mancano i suoi mercati, il monte di Qassiyun, camminare per le strade di al-Hamadiyya e in tutte le altre strade di Damasco. Mi manca anche leggere la frase sul segnale che dice “Benvenuti in Siria”. E spero, al mio ritorno, di leggere ancora quella frase. Mi manca mia zia, che ha la mia stessa età, siamo proprio come amiche, sorelle. E certo, tutte le persone che conosco. La cosa a cui penso più spesso è tornare in Siria, e vederla libera” (ragazza di 20 anni, da Midan, Damasco, ora in Giordania).
“Ho deciso di portare la mia famiglia in Giordania. Mentre eravamo sulla strada per Dara’a, ci hanno fermato ad un checkpoint e hanno controllato i nostri documenti. Quando hanno preso mio figlio maggiore abbiamo cominciato tutti a piangere. Ci hanno detto che il suo nome era tra i ricercati. Li abbiamo pregati di lasciarlo, ma non ci hanno ascoltato. Che Dio li maledica! Dopo questo mia moglie non ha più voluto lasciare il paese. Come poteva, senza sapere dov’è suo figlio? E se lo avessero liberato, da chi sarebbe potuto andare altrimenti? Ma sono passati otto mesi e di lui non abbiamo alcuna notizia. Mia moglie e mia figlia piccola sono rimaste in Siria con parenti. Io ho portato con me il resto dei nostri figli e abbiamo cercato rifugio nel campo di Zaatari. Dopo che mio fratello ci ha raggiunti in Giordania e ha affittato una casa ho lasciato Zaatari e mi sono trasferito con lui. E una delle persone che mi manca di più è mia figlia, la piccola, che è sempre stata al mio fianco, e mi avrebbe seguito ovunque. E’ l’anima del mio cuore. Sogno di tornare in Siria. Mi manca la mia casa, i campi che ho irrigato, gli uccelli per cui avevo trovato accoglienza sul mio tetto. Mi manca tutto, specialmente la casa dove ho trascorso tutta la mia vita e che ora è stata distrutta. Spero di poterla ricostruire e di poterci vivere per il resto della mia vita” (uomo di 45anni da Harasta, vive attualmente a Irbid, Giordania).
“Mi mancano le mie cose, l’università, il mio studio d’arte, i miei amici. Mi manca uscire e passeggiare liberamente per Damasco, senza ostacoli. Mi manca la mia ragazza, è partita per la Svezia con la sua famiglia. È la mia speranza, penso molto a lei e a come potremo sposarci e vivere insieme. Anche lei è cristiana. Sento i miei amici e parenti tramite internet e telefono. È l’unico modo, fino a quando potrò rivederli” (ragazzo di 23 anni, da Damasco; attualmente vive a Beirut, Libano).
“La Siria ha bisogno che ci sia gente a disegnare cuori sui muri. È più bello delle armi. Voglio disegnare un cuore sulla porta della mia stanza, un fiore sulla porta del mio vicino, e sulla porta del mio amico un sole. Qui non ci sono scuole come da noi, o amici come i miei. Mi manca George. Non so dove sia adesso. Mi manca andare con lui a messa. E lui veniva con me in moschea. Mio padre è sempre in contatto con i suoi amici ad Homs, e chiede della nostra casa. Parliamo di George, di sua madre, e del nostro albero di Natale. Parliamo della scuola, delle ragazze, e della musica. Spero che in Siria le cose tornino ad essere come erano prima, che il fumo nero si diradi. Ho paura del domani. Ho paura di non poter tornare a casa mia” (un ragazzo di 17 anni da Homs; vive attualmente a Beirut, Libano)
“Mi manca la Siria, l’aria, l’acqua, mi manca respirare l’aria di Homs. La cosa che mi manca di più è andare sulla tomba di mio padre e mia madre e pregare chiedendo la loro benedizione e il loro perdono” (una donna di 41 anni da Homs, ora in Giordania).
“Ho imparato a conoscere alcuni amici che hanno situazioni simili alla mia, e la nostra amicizia si è rafforzata velocemente. Ma nonostante questo, mi mancano ancora i miei amici in Siria, sono ancora tutti lì. E nella mia vita sento maggiormente la mancanza degli amici martirizzati. Alcuni di loro sono stati sparati, altri sono morti a causa delle torture in prigione. La mia vita sarà difficile senza di loro, perché ne erano una parte fondamentale ed essenziale, erano più che fratelli per me. Quando torneremo dovrò passare da una sensazione di vuoto all’altra. Non c’è nulla che io possa fare per riportarli indietro” (un ragazzo di 21 anni da Dara’a; vive attualmente ad Irbid, Giordania).
“Avevo l’abitudine di andare a trovare i miei parenti, i miei amici, i miei figli e nipoti. Si raccoglievano tutti intorno a me, e questo mi manca tantissimo. Chiedo a Dio di farci ritrovare tutti insieme di nuovo. Voglio solo morire sul suolo della mia patria. Mi manca la mia casa, che ho costruito io stesso lavorandoci sodo. Mi manca la mia azienda, che ho tirato su con il sudore della fronte e il duro lavoro delle mie braccia. Ogni cosa nel mio paese ha un significato e un posto nel mio cuore” (un uomo di 57 anni da Dara’a, ora vive a Irbid).
“Mi manca la mia dignità. E mio figlio, che ora è solo con quei mostri criminali” (uomo di 68 anni, da Hana, ora vive in Giordania).
“Quello che mi manca di più è sedere con i miei amici e la famiglia nella valle di Yarmouk a sera. E mi manca molto la cucina di mia madre. Lei mi manca più di tutti. Il mio pensiero ricorrente è come e quando potrò tornare in Siria. E come potranno sconfiggere il regime” (una ragazza di Dara’a, attualmente a Irbid, Giordania).
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mi manca tutto da siria
Piccoli gesti consueti, di odori, luoghi, spazi di condivisione, amicizia, affetti, volti, di tutto quello che la Siria era per loro, prima che lame affilate devastassero la sua carne. E di quello che potrebbe essere, o che non tornerà mai ad essere.