Lo scorso settembre Getty Images, azienda leader nella creazione e distribuzione di contenuti visivi e multimediali, annuncia i vincitori del programma annuale Grants for Editorial Photography. Cinque fotogiornalisti selezionati ricevono un contributo di 10.000 dollari ciascuno e la possibilità di avvalersi della collaborazione editoriale e del sostegno di Getty Images per proseguire i progetti in cui sono impegnati. Tra i vincitori spunta il nome dell’italiano Marco Gualazzini con il reportage “M23 – Kivu: A Region Under Siege “. Venticinque immagini che documentano il conflitto in atto nella parte settentrionale della regione del Kivu e della sua capitale Goma (Congo). “Nell’aprile del 2012, l’ammutinamento di alcuni militari delle forze armate governative del Congo, FARDC, ha portato alla creazione di una forza militare e politica denominata M23. In soli tre mesi i ribelli sono riusciti ad assumere il controllo soggiogando la popolazione locale”. Intervista di Teodora Malavenda
Come ti sei avvicinato al fotogiornalismo?
Ho iniziato a seguire la cronaca per la Gazzetta di Parma. Questa collaborazione è durata sette anni durante i quali ho messo in pratica tutta la teoria che con il tempo avevo acquisito. E’ stata un’esperienza fondamentale perché mi ha consentito di conoscere da vicino le dinamiche di una notizia che, seppur piccola come per esempio può essere un’incidente di provincia o una rapina, va raccontata secondo regole generali che valgono anche per avvenimenti di più ampio respiro.
Sei il quinto italiano (dopo Alex Majoli, Paolo Pellegrin, Stefano De Luigi e Paolo Marchetti ndr) a ricevere il Getty Grant. Cosa rappresenta per te questa vittoria?
Ancora oggi se qualcuno me lo ricorda, come stai facendo tu, mi emoziono. Senza dubbio è un onore. Parliamo di nomi talmente risonanti che ancora adesso stento a crederci. È stato come un fulmine a ciel sereno. Spero di esserne all’altezza e soprattutto di raggiungere la “maturità” dei miei predecessori.
Perché un reportage sul Congo?
Questa meta mi ha sempre affascinato. Lì vivono dei missionari a cui sono molto legato. Inoltre quando mi sono avvicinato al fotogiornalismo, erano gli anni del genocidio e i fotografi che più mi hanno ispirato, come Nachtwey o Gilles Peress, stavano lavorando proprio a Goma.
Il tuo primo reportage dal Congo risale al 2009. Da allora cos’è cambiato?
In realtà nulla. Prima c’era il generale Nkunda, ora Kagame. Prima i ribelli si chiamavano CNDP, ora M23. Prima avevano gli anfibi, ora hanno scarponi di gomma.
Subito dopo il premio sei tornato in Africa. Quale aspetto hai approfondito?
La cosa che più mi interessava era documentare le radici del conflitto. Ufficialmente questa guerra è dovuta all’odio etnico tra Hutu e Tutsi ma sappiamo bene che entrambe queste etnie non sono altro che marionette in mano a potenze come Rwanda e Uganda. Queste a loro volta hanno alle spalle potenze come Cina, Francia e Stati Uniti che esercitano una forte influenza sullo sfruttamento del sottosuolo, in modo particolare dei minerali come il coltan, la cassiterite e il tantalio. Ecco io mi sono concentrato sul coltan.
Conoscendo bene le dinamiche locali, come pensi possa evolvere la situazione?
In base alle notizie che leggo su twitter o ricevo dai contatti del luogo, posso immaginare tre scenari differenti. Il primo è che si continui a combattere nella giungla, lungo il confine tra Uganda, Rwanda e Congo, senza coinvolgimento di civili. In questo caso però sarebbe difficile documentare la “scena” in maniera etica. Si avrebbe una visione parziale della situazione, per cui non credo possa interessarmi. Il secondo scenario invece vede nuovamente il coinvolgimento dei civili, per cui partirei immediatamente. Il terzo scenario, più catastrofico, prevede l’entrata in guerra del Rwanda che minaccia di intervenire nel caso di nuovi bombardamenti. Ma mi auguro che questa rimanga solo un’ipotesi altrimenti assisteremmo ad una catastrofe umanitaria.
Prima hai nominato l’etica. In che rapporto sta con la fotografia?
Questo è uno di quegli argomenti affrontati decine di volte da critici, fotografi, curatori nel corso dei decenni. Penso che chi fa il mio lavoro deve assumere sempre un atteggiamento rispettoso nei confronti dei soggetti che ritrae, siano essi persone o luoghi. Già quando si decide di inquadrare una scena piuttosto che un’altra, si opera una scelta. E’ proprio a partire da questa scelta che l’etica entra in gioco.
La fotografia in che modo può essere d’aiuto, ammesso che abbia questo potere, alle popolazioni in guerra?
Non so darti una risposta univoca. Credo che la fotografia non debba essere sopravvalutata. Non penso proprio che possa cambiare le cose. Magari può spingere l’osservatore a porsi delle domande. Ma sono scettico. Oggi siamo bombardati da foto, tanto che si parla di “pornografia dell’immagine”. I lettori sono assuefatti. Ma vorrei sbagliarmi…
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