La Siria, le immagini alterate e l’etica del fotogiornalismo

di Monica Ranieri

Non sbagliava Susan Sontag quando sosteneva che “un evento diventa reale, agli occhi di chi è altrove e lo segue in quanto ‘notizia’, perché è fotografato”, se i 55.000 scatti del rapporto reso pubblico da CNN e The Guardian a poche ore dall’apertura di Ginevra II hanno tardivamente indotto a sostenere con convinzione la responsabilità di Bashar al-Assad nei crimini di guerra documentati. Prove, e conferme, inconfutabili, le 50 immagini al giorno scattate da un fotografo “talpa” anonimo che ritraggono cadaveri, vittime delle torture nelle prigioni del regime, sostengono e avvalorano il rapporto della commissione, e nel loro essere documento non possono che rientrare in quella categoria di immagini atroci dalle quali dobbiamo lasciarci ossessionare: “quelle immagini dicono: ecco ciò che gli esseri umani sono capaci di fare”.

LA GUERRA DELLE IMMAGINI. Eppure anche nel lasciarci ossessionare dall’atrocità non possiamo concederci di sospendere il pensiero vigile, perché quelle stesse immagini non possono confondersi nella marea di sollecitazioni visive in cui siamo immersi e rischiamo di perderci, smarrendo la concentrazione e la concatenazione tra l’immagine, che è rappresentazione, e la realtà che ha prodotto quell’immagine, che la precede e la segue: “Il rischio dell’immagine è quello di obliterare il pensiero, impedendoci in ultima analisi di capire”. E intorno alle immagini si scatena una guerra nella guerra, che riguarda il controllo e la manipolazione delle informazioni in senso specifico, il condizionamento, e, sempre più spesso, l’annichilimento delle nostre coscienze. Non c’è da stupirsi quindi che la CNN abbia più volte precisato di non poter confermare in modo indipendente l’autenticità delle fotografie cui si fa riferimento nella relazione.

CONTRERAS, AP E MANIPOLAZIONE. Qualche giorno dopo l’attenzione è ancora una volta puntata sul racconto fotografico della crisi siriana: si tratta però di una sola immagine, scattata da Narciso Contreras durante uno scontro a fuoco con le forze governative nel villaggio di Telata il 29 settembre 2013. Qualche click digitale di troppo in fase di post-produzione e il lavoro che ha valso al fotografo messicano una serie di riconoscimenti a livello internazionale e all’AP il Pulitzer nel 2013 è sparito nella nebbia dell’inattendibilità, risucchiato nell’annoso dilemma dell’ambiguità dell’immagine fotografica. Nonostante il fotoritocco nasca con la fotografia stessa, la tecnologia digitale ha accresciuto e agevolato la possibilità di intervenire sulle immagini: così, grazie a Phostoshop Contreras ha rimosso dalla sua foto la videocamera che originalmente appariva ai piedi del combattente ribelle siriano, scatenando la reazione della nota agenzia che ha deciso di recidere i rapporti professionali con tanto avevano fruttato ad entrambi. Un unico caso di manipolazione, per altro marginale e non compromettente la veridicità dell’informazione contenuta nella notevole produzione di immagini di Contreras, ma pur sempre una grave violazione dei principi etici dell’AP, che vietano sin dal 1990 la rimozione deliberata di elementi dalle fotografie.

I PRECEDENTI: LA NUBE CLONATA. Un caso simile, anche se non nel contesto delicato di un conflitto, si era verificato nel 2011 quando l’AP decise di interrompere i suoi rapporti con il fotografo freelance Miguel Tovar, colpevole di aver utilizzato lo stesso stratagemma per clonare una nube di polvere eliminando la propria ombra da una foto. Anche in quella occasione l’agenzia aveva invitato i suoi collaboratori a mantenere saldamente la concentrazione sui fondamenti del giornalismo, senza lasciarsi distrarre dalle nuove e seduttive possibilità offerte dalla tecnologia, e ad attenersi alle indicazioni del proprio codice deontologico: secondo i principi dell’ AP, il valore di verità della foto è legato ad un utilizzo di Photoshop che non alteri in alcun modo gli elementi compositivi e formali della foto e ne preservi la “natura autentica”.

REUTERSGATE – Non erano certo questi i presupposti che hanno portato al Reutersgate durante la copertura di notizie del conflitto tra Israele e Libano nel 2006: la Reuters ammise che due delle foto del libanese Adnan Hajj erano state significativamente alterate prima di essere pubblicate. Lo scandalo aveva indotto la Reuters a rendere chiara la propria condotta etica, definendo rigorosamente i limiti dell’utilizzo di Photoshop: “We use only a tiny part of its potential capability to format our pictures, crop and size them and balance the tone and colour”.

Ma tanta cura deontologica non ha sottratto la Reuters alla nuvola di polemiche montata poco più di un mese fa, in seguito alla morte di un collaboratore dell’agenzia, Molhem Barakat, giovane fotografo siriano. Barakat è stato ucciso con suo fratello, combattente del FSA, mentre seguiva una lotta tra e forze e i ribelli di Al-Kindi Hospital di Aleppo di Bashar Al-Assad il 20 dicembre 2013. Non pochi corrispondenti di guerra hanno reagito alla notizia criticando l’agenzia per non aver tenuto conto dell’estrema giovinezza del ragazzo (ci sono ancora dubbi sulla sua maggiore età) e per non aver adottato le consuete norme di sicurezza per proteggere i giovani siriani sul cui lavoro si basa la copertura della zona di guerra. Molta della documentazione fotografica prodotta dall’inizio della crisi siriana è frutto del lavoro di fotografi siriani, e le loro stesse immagini non sono esenti da quel processo di mistificazione, confusione, alterazione di notizie che ha influenzato in generale l’approccio, in vari gradi consapevole e/o colpevole, dei media alla questione.
A ciò si aggiungono poi madornali sviste, o consapevoli leggerezze, nella diffusione di alcune immagini da parte delle testate giornalistiche. Esemplare il The Kronen Zeitung, quotidiano letto da circa tre milioni di persone, che nel luglio 2012 pubblicò, alterando vistosamente lo sfondo per rendere la scena più “disperata”, una foto dell’European Pressphoto Agency in cui era ritratta una famiglia in fuga ad Aleppo.

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“ANONIMO ATTIVISTA” – La BBC non fu altrettanto machiavellica quando nel 2003 utilizzò una foto scattata da Marco di Lauro in Iraq per accompagnare un reportage sul massacro di Houla, spacciandola per la foto inviata da un anonimo attivista.

SOCIAL FAKES Apparentemente simile, ma in realtà costitutivamente differente, la manipolazione di una fotografia rimbalzata recentemente sui social network, che ritrae un bambino, dichiarato siriano, disteso tra i cumuli di pietre delle sepolture dei suoi genitori. In realtà non siamo in Siria, le tombe sono fasulle, e il bambino è il nipote del giovane saudita Abdul Aziz al Otaibi, il fotografo che ha pubblicato la foto su facebook ai primi di gennaio come parte di un suo progetto più vasto, rendendo chiare le modalità di costruzione dell’immagine. Eppure la foto è stata pubblicata su Twitter da un americano emigrato in Arabia Saudita, seguito da oltre 187 mila contatti, che l’ha presentata come una fotografia scattata in Siria, affermando che i genitori morti del ragazzo sono stati uccisi dal regime di Assad, avviando quel processo di retweet e condividi spasmodico e incontrollato che macera nel gran calderone dei social network livellandole in una massa indistinta verità, mezze verità, menzogne, rendendo spesso indistinguibile il confine tra le differenti qualità di informazioni e di immagini. La foto di Abdul Aziz al Otaibi non intrattiene alcun tipo di parentela né con la documentazione presentata dalla CNN né con l’accurato reportage di Contreras. Rientra però in quella guerra nella guerra in cui noi, spettatori, ed insieme potenziali vittime di una manipolazione subdola e costante, possiamo pure rivendicare un ruolo, una capacità di azione, politica come è politica l’importanza di queste immagini, riappropriandoci della nostra capacità di guardare, non rinunciando ad affidare la nostra credibilità al documento fotografico, ma essendo sempre coscienti che l’immagine può essere sottoposta in qualsiasi momento, in qualsiasi fase della sua vita, ad un processo di manipolazione che risulta stratificato, strutturato, consolidato, e talvolta incontrollato.

I GATTINI E I SIRIANI. E a volte anche quando non interviene alcuna manipolazione, scelte editoriali difficilmente argomentabili optano per un uso parziale, pittoresco, fuorviante e riduttivo della fotografia, come nel caso dell’illuminante photogallery pubblicata da nostrano quotidiano nazionale, “Augusta: sbarcano 823 migranti, a bordo anche un gatto”. Quella nella foto è una bambina siriana con in braccio il suo gatto, ma a fronte del travaglio che stanno vivendo i profughi siriani, Repubblica non ritiene interessante nessun altro tipo di informazione che pure dovrebbe fornire a corredo della foto. Cosa che invece fa nel caso delle illuminanti quattro righe in calce alla commovente fotografia del bambino in bicicletta a Deir Ezzor.

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A prescindere dal suo essere di per sé atto intenzionale di interpretazione e focalizzazione su una parte della realtà da uno specifico angolo visuale in cui la soggettività dell’autore e le condizioni ambientali e del contesto giocano un ruolo determinante, lo statuto documentario di una fotografia può essere ulteriormente influenzato dalla manipolazione attraverso strategie differenti. E si tratta di comprendere a che livello di profondità agiscono su ciò che vediamo queste strategie, nei diversi passaggi che caratterizzano la vita di un’immagine: a partire dal contesto di produzione (professionale e non), dalle scelte editoriali che selezionano le immagini in base alle aspettative del pubblico, quindi alle richieste del mercato, ma che pure in egual misura tendono a creare le condizioni per l’affermazione di quel mercato stesso, lo alimentano e ci prosperano, per giungere infine al contesto di fruizione e diffusione. Ogni passaggio è quindi informato da una logica che tende a considerare sempre di più le immagini come un prodotto commercializzabile, da piegare a logiche estranee alla cruda e sincera testimonianza di realtà- La professione del foto-reporter ed il suo lavoro vengono coinvolte in una serie di dinamiche influenzate anche dalla diffusione della pratica fotografica amatoriale o comunque non professionale associata alla documentazione giornalistica. Il trend generale (ma, fortunatamente, non esclusivo), è quindi quello di liberi professionisti che vendono il loro lavoro spesso a prezzi davvero ribassati ad agenzie di distribuzione che smerciano il materiale stabilendo accordi convenienti con gli editori. La qualità del lavoro, nei termini di attendibilità e approfondimento, non è sempre quindi il requisito fondamentale. L’immagine fotografica, così depotenziata, non di rado è coinvolta nel generale processo di manipolazione delle notizie e dei mezzi di comunicazione di massa: la maggiore immediatezza, la facilità di diffusione in contesti differenti e la polisemia che contraddistinguono il linguaggio fotografico possono però tramutarsi in superficialità e ambiguità, dando spazio alla decontestualizzazione, allo svuotamento di senso, al travisamento.

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SHOCK E ANESTESIE Il bombardamento di immagini poi, e di immagini provenienti da contesti di guerra, può indurre a shock temporanei ma alla lunga anestetizzanti. Di questo, e dalla crescente concorrenza del mercato delle immagini, la necessità di creare immagini che possano attirare l’attenzione, spettacolarizzando, esibendo aspetti bizzarri o cruenti, o di contro levigando, addolcendo, ricreando panorami e situazioni cinematografiche o ispirandosi a criteri estetici tipici della comunicazione pubblicitaria, con il conseguente risultato però di esorcizzare, di allontanare e sganciare la rappresentazione dalla realtà, dall’informazione, ridotta a mero condimento. Il delicato equilibrio dialettico tra estetica dell’immagine, la sua costruzione “artistica” a fini commerciali e l’informazione che l’immagine veicola viene così spesso ad essere sbilanciato a favore dei primi aspetti: un esempio lampante sul quale riflettere è quello della produzione di Paul Hansen, vincitore del World Press Photo 2013, aspramente criticato da più parti per aver conferito in post-produzione un tono eccessivamente drammatico, decisamente irreale, alla sua fotografia.

Le polemiche hanno indotto la giuria del WPF ad adottare a partire dal 2014 regole più restrittive sul foto-ritocco, mentre le polemiche su quanto l’utilizzo di Phostoshop intacchi l’etica professionale non si placano. Ma a farci comprendere come il problema non riguardi la semplice manipolazione estetica è sempre lo stesso Hansen che nel 2011 si aggiudicò lo Swedish Picture of the Year Award grazie alla foto della quattordicenne haitiana Fabienne freddata dalla polizia dopo essere stata sorpresa a rubare in conseguenza del terremoto. Recentemente una foto pubblicata da Nathan Weber ha mostrato il backstage, agghiacciante, del “capolavoro” di Hansen, mettendo a nudo, e in discussione, le implicazioni etiche legate al fotogiornalismo

Ma è ancora rivendicando il ruolo di chi osserva che forse si può tentare di ristabilire un giusto equilibrio: se una fotografia pretende di testimoniare un frammento di realtà della vita di persone che affrontano un qualsiasi tipo di percorso, il più delle volte a noi lontano ed estraneo, traendo proprio dal suo essere testimonianza, documento, la legittimità ad occupare una porzione del nostro spazio visivo, influenzando in qualche modo la percezione che abbiamo di quella realtà, non assorbiamola passivamente. Non fermiamoci alla sensazionalità dei suoi contrasti, non accontentiamoci di un’occhiata veloce, di una commozione aleatoria che ci alleggerisce la coscienza ma non costruisce alcuna consapevolezza, chiediamo di più al nostro sguardo, poniamoci delle domande.


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