A story about our collective humanities migration out of Africa to where we each live today – John Stanmeyer
Abbiamo ancora impressa nella mente la foto vincitrice del World Press Photo 2013 (e, ancora di più, le polemiche che ha scatenato). L’anno scorso venne premiato lo scatto di Paul Hansen del Dagens Nyheter, un corteo funebre a Gaza di padri con in braccio piccole vite spezzate dai bombardamenti. Quest’anno la World Press Photo of the Year è stata aggiudicata da John Stanmeyer, del collettivo VII Photo.
Sulla costa di Gibuti è una notte di luna piena. Una decina di persone, migranti africani diretti verso l’Europa, cerca il segnale per contattare parenti o amici lasciati alle spalle. Signal è, appunto, il nome della fotografia. “È una foto che è collegata a tante altre storie; apre discussioni sulla tecnologia, la globalizzazione, la migrazione, la povertà, la disperazione, l’alienazione, l’umanità. Si tratta di un’immagine sofisticato, fortemente sfumata. È stata fatta sottilmente, in modo poetico, ma le è stata instillata un significato, trasmette questioni di grande gravità e preoccupazione nel mondo di oggi”, ha detto Jillian Edelstein, uno dei giudici.
Ma cosa c’è dietro questa foto ipnotica ed evocativa? “È una storia sulla nostra migrazione, collettiva e umana, da quell’Africa dove ognuno di noi vive oggi. Ho intenzione di perdermi completamente, zigzagando in tutte le direzioni, per realizzare un foto-reportage sulla società, sulla cultura, sui paesaggi e su tutto ciò che incontro sulla mia strada che possa illustrare ciò che questa parte del mondo, e la sua gente, stanno facendo oggi”, descriveva lo stesso John Stanmeyer nel diario di viaggio sul suo sito.
“Il mio amico Yonas Abiye – collega giornalista (per The Reporter) e guida per il progetto Out of Eden per National Geographic – mi mostra il percorso che prenderemo lunedi a nord-est dell’Etiopia… con alimentatori, telecamere, MacBook Pro, HD e attrezzatura da campeggio zigzagheremo con una Landcruiser verso ovest fino al confine con lo Gibuti… Si tratta della nostra umanità collettiva, di quando 60.000 anni fa i nostri fratelli e sorelle hanno – letteralmente – camminato su questo punto esatto in Etiopia, per popolare il pianeta come lo troviamo oggi”, ha poi aggiunto il fotografo.
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