Giornalista, scrittrice, autrice di teatro, poetessa: Valentina Acava Mmaka, nata a Roma, cresciuta in Sudafrica durante l’apartheid, vive oggi tra l’Italia e l’Africa. I suoi testi, pluripremiati, sono un felice amalgama di arte e denuncia sociale. Le abbiamo chiesto di The cut/Lo strappo, lo spettacolo che porta sul palco il delicato tema delle mutilazioni genitali femminili (MGF). Nel 2014 il testo teatrale ha ricevuto il patrocinio di Amnesty International e sarà al centro di innumerevoli iniziative in Italia e all’estero.
The cut/Lo strappo nasce dal lavoro del collettivo di donne Gugu Women Lab, di cui hai curato la nascita e lo sviluppo in Sudafrica. Com’è nata l’idea?
Nel 2011 ho dato vita al collettivo composto principalmente da donne sudafricane ma anche migranti da altri paesi africani come l’Etiopia, la Somalia, il Congo, l’Angola, la Nigeria e il Mozambico. Negli anni Novanta avevo già condotto due esperienze simili in Sudafrica e in Kenya. Volevo ripetere l’esperienza cercando di realizzare un progetto laboratoriale interattivo di scrittura che mettesse a fuoco il rapporto tra gli spazi urbani e la percezione individuale degli stessi in funzione di rapporti di scambio, conoscenza, interazione, potenzialità, limitazione. Il Sudafrica post-apartheid si presentava come un ottimo teatro per riflettere su nozioni come cultura, identità, potere, cambiamento, contraddizione, ingiustizia. Gli incontri si sono susseguiti per un lungo periodo di tempo, circa un anno in cui abbiamo lavorato a diverse tematiche. Dovendo lavorare pensando agli spazi urbani, non è difficile immaginare il carattere itinerante del laboratorio.
L’obiettivo dello spettacolo è rompere il silenzio sulle mutilazioni genitali femminili (MGF), fenomeno che affligge 140 milioni di donne nel mondo, di cui 180mila in Europa e 3500 in Italia, stando alle più recenti stime dell’Oms. Guardando oltre le statistiche, quali sono le conseguenze psico-fisiche delle MGF nella vita di una donna?
Date le scarse condizioni igienico-sanitarie in cui le mutilazioni vengono praticate, sia che si tratti dell’escissione, dell’infibulazione e della clitoridectomia, le conseguenze fisiche immediate sono numerose: il tetano, la setticemia, l’impossibilità a urinare; quelle a lungo termine riguardano infertilità, calo del desiderio sessuale, complicazioni al momento del parto, ricorso al parto cesareo, emorragie post partum. Inoltre va detto c’è una mortalità natale superiore nelle madri che hanno subito le MGF. Le implicazioni di carattere psicologico non sono meno gravi. Una donna mutilata è una donna invalida a vita. Ogni momento della sua vita è scandito dal dolore: dal momento in cui urina, a quello del ciclo mestruale, dal rapporto sessuale, al parto. Il lavoro fatto con le donne del collettivo Gugu Women Lab è stato proprio quello di raccontare il percorso dal dolore psico-fisico verso la rinascita che è possibile solo attraverso la presa di coscienza dell’esperienza subita. Il primo passo è il riconoscimento della mutilazione come errore culturale, poi c’è la condivisione con chi ha subito un’esperienza analoga e infine con tutti gli altri. La consapevolezza e la condivisione cono le due cifre che permettono di lavorare sul dolore e trasformarlo, in questo caso attraverso l’arte, in un impegno collettivo volto a superare questa pratica su scala globale.
Se qualcuno obiettasse che le MGF sono un’inestirpabile tradizione culturale e religiosa, sulla quale è impossibile intervenire, cosa risponderesti?
Le MGF non hanno a che vedere con la religione, sono una convenzione culturale e essendo la violenza un fatto culturale, essa va considerata in questi termini. Il dibattito che ruota attorno alle MGF e al presunto Diritto Culturale delle società che le praticano è oggetto di una controversia che rientra in quel dialogo pubblico che purtroppo manca. La Dichiarazione di Friburgo del 2007 dice, all’ articolo 5 che «la stessa Dichiarazione stabilisce con il termine “cultura”, i valori, le credenze, le convinzioni, le tradizioni, i modi di vita…», occorre puntualizzare che la Dichiarazione risulta incompleta, o meglio, è poco esaustiva in quanto solo all’articolo 6 si stabilisce che ogni persona ha diritto alla conoscenza e all’apprendimento dei diritti umani. Quindi è chiaro che il concetto di diritti umani non è il medesimo ovunque e che per cultura si intende una vasta gamma di pratiche tra cui le MGF. Senza fare appello al diritto culturale di ciascun popolo o comunità, le MGF violano un diritto universalmente riconosciuto: quello alla salute di donne e bambine, è per questa ragione che le MGF vanno ostacolate .
Tra norme di diritto internazionale e leggi nazionali, sono molti i tentativi di condanna alle MGF. Un esempio è la risoluzione Onu del 3 febbraio 2013. Le norme giuridiche sono sufficienti?
Assolutamente no. L’esistenza di una legislazione a livello di UE, ONU e dei singoli stati nazionali può ridurre l’incidenza delle MGF, ma non è efficace da sola ai fini di un abbandono della pratica. Questo perché essa è radicata all’interno della struttura politica, sociale ed economica delle società che le sostengono. Inoltre è quasi impossibile abbandonarla senza il consenso, non solo della famiglia ma della comunità intera. Del resto anche in Europa sono recenti alcuni episodi di condanne penali di padri che hanno sottoposto le proprie figlie alle MGF. In aggiunta a questo ci tengo a ricordare che vi sono alcuni paesi africani dove non è stata ratificata la legge contro le MGF e che, in questo modo diventano meta ambita di coloro che intendono continuare a praticarla ovviando alla legge. I rimedi punitivi sono speso inefficaci, occorre la conoscenza per pensare ad un cambiamento.
Quale può essere la vera strada verso l’eliminazione totale del fenomeno delle mutilazioni genitali femminili?
Innanzi tutto occorre creare un dialogo pubblico, senza il quale le MGF resteranno un tabù. Parlarne pubblicamente a diversi livelli e senza distinzione sociale, incentiva di rimando una riflessione più intima e privata all’interno delle diverse realtà sociali. Non basta che se ne occupino le associazioni e le ong, che spesso promuovono un lavoro molto specifico e mirato a un target limitato di persone (operatori socio sanitari, perlopiù), occorre che diventi una materia all’attenzione di tutti, indistintamente, soprattutto dei giovani. Penso che di MGF se ne debba parlare a scuola, considerando anche che l’età delle bambine mutilate è compresa tra i pochi anni di vita fino ai 15 anni in media. Nessuno nella Scuola possiede strumenti adeguati né un linguaggio aperto e condiviso per parlare di MGF, nessuna ragazzina mutilata o a rischio di mutilazione ha la possibilità di condividere la sua esperienza con i propri coetanei, né questi ultimi saprebbero come relazionarsi con chi ne è vittima. Usare il termine eliminazione ispira un’idea di coercizione, parlerei di superamento e abbandono della pratica, una terminologia che suggerisce meglio il percorso di consapevolezza necessario a chi ancora crede che le MGF siano una necessità culturale e sociale. In questo processo di consapevolezza credo che il ruolo fondamentale verso l’abbandono delle MGF sia affidato alle comunità migranti che diventano inevitabilmente l’anello di collegamento tra i paesi della diaspora (immigrazione) e quelli originari. Il contatto con realtà diverse, una maggiore indipendenza economica e l’accesso all’istruzione superiore sono elementi che facilitano il dialogo tra culture e quindi anche modifiche nel tessuto sociale di origine. Secondo questi parametri, laddove sono stati raggiunti, vi è una minore incidenza di MGF, esse vengono più facilmente messe in discussione e portate all’attenzione della comunità d’origine. Guardare ai migranti come a dei mediatori capaci di costituire l’inizio di una svolta è il primo passo verso un cambiamento radicale in tal senso. Il dialogo pubblico è fondamentale in quanto afferma il valore della donna all’interno della comunità mettendola nella condizione di prendere decisioni anche a titolo collettivo. E’ un cambiamento per il quale occorrerà un periodo di tempo lungo, forse una generazione…ma è possibile.
Quali sono i nuovi progetti legati a The Cut-Lo Strappo?
Innanzi tutto la performance ha ottenuto il patrocinio di Amnesty International e questo mi fa piacere perché riconosce quanto l’arte sia in grado di sensibilizzare e scuotere le coscienze verso forme di oppressione come lo sono le MGF. A questo si aggiunge il fatto che ho iniziato una collaborazione con una regista keniota, che ha realizzato un documentario sulle MGF in Kenya. Metteremo a confronto le nostre rispettive esperienze: il film e il teatro, la sceneggiatura e la poesia, diversi media per raccontare la stessa esperienza da punti di vista diversi ma con lo stesso obiettivo: sensibilizzare l’opinione pubblica sull’argomento. Tra l’altro si tratta di un documentario che include tutte le parti sociali coinvolte nella pratica delle MGF, che da spazio a opinioni diverse ritraendo i sogni e i desideri delle generazioni di giovani donne (ma non solo) che vogliono contribuire a cambiare le cose. Proiettare il documentario e proporre la performance è una grande occasione per amplificare il senso del nostro impegno-attivismo. Abbiamo intenzione di portare questa esperienza combinata anche nelle scuole, non solo in Italia ma in giro per l’Europa. I ragazzi rispondono positivamente al linguaggio artistico, si sentono a loro agio e facilitati nell’incontro con un tema che la maggior parte ignora. Sto lavorando anche alla realizzazione di diversi workshop in Europa aperti anche a migranti in cui utilizzerò diverse forme di espressione artistiche per arrivare a lavorare sulle MGF. Infine c’è il desiderio di pubblicare il testo in una versione multilingue, so che è una tematica difficile ma in quasi un anno ho ricevuto una quantità innumerevole di richieste dal pubblico, dagli studenti, dai loro insegnanti di poter disporre del testo in lettura. Spero che un editore si faccia avanti e veda il potenziale di questo lavoro che dispone anche di una guida per insegnanti e studenti affinché possano lavorare sul tema approfondendone i vari aspetti e realizzando nuovi progetti originali.
Non solo MGF. Sono tanti gli argomenti che hai affrontato nel tuo lavoro, intrecciando l’amore per la scrittura alla denuncia sociale. Quali i tuoi modelli di riferimento, o fonti di ispirazione?
Non parlerei di modelli di riferimento né di ispirazione, direi piuttosto che il mio percorso esistenziale mi ha portato a vivere esperienze così eterogenee in diversi angoli del mondo da aver sviluppato in me un senso di giustizia che dedico alla promozione dei diritti di chi viene escluso in quanto diverso. Mi piace molto citare il filosofo Jean Grenier che dice che “nella vita esiste un attimo, soprattutto nell’infanzia di ciascuno, che determina tutto”: ecco se dovessi identificare quell’ “attimo”, lo identificherei con la mia vita in Sudafrica. Sono cresciuta in un paese diviso da barriere razziali, dove l’essere bianca mi confinava in un ghetto di privilegi che non avevo scelto né riconoscevo come parametro di confronto. Da quella primissima esperienza è seguito un lungo e intenso percorso scandito da continue partenze e proiezioni in contesti sociali e culturali diversi tra loro dove ho incontrato persone straordinarie che hanno ampliato di volta in volta la mia nozione di eterogeneità e molteplicità, qualità che esploro e con cui mi confronto nel mio lavoro.
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