Perdere un anno (e un dito) per la propria dignità

La mia cella era alta un metro e larga un metro. Era tutto chiuso, un buco di cemento. Non sapevo se fosse giorno o notte. Il posto era sporchissimo e puzzava. A causa di queste condizioni sentivo le mie ferite bruciare. Sentivo nelle vicinanze i latrati di un cane, sembrava triste. Non potevo né vederlo né toccarlo ma, in qualche modo, i suoi lamenti erano la mia unica compagnia. Una volta al giorno mi davano una scodella di zuppa di fave e un bicchiere d’acqua.

Ottobre 2000: faccia a faccia tra un soldato israeliano e un palestinese nella città vecchia di Gerusalemme (Amit Shabi/Reuters)

Preferisco non presentarmi con nome e cognome. In realtà non importa neanche la mia nazionalità o religione. Quello che veramente importa è mantenere vivo il fuoco della speranza, perché ho imparato che dopo ogni notte, per quanto buia, il sole sorgerà di nuovo.

 Guardo il mio passato come da una piccola finestra, vedo dolore e una vita dura e rischiosa. Cercavo di creare il mio futuro facendo cose apparentemente “normali”: una vita fatta di studio e lavoro. Ma in questa routine c’era un elemento imprescendibile: l’amore per la libertà, così cara e cosi preziosa, molto più di quanto potreste mai pensare o immaginare. Ora ho 31 anni ma io ne conto solo 30. Ho perso un anno senza poter vedere il sole sorgere ogni mattina, un anno dove il mio sogno di terminare gli studi si è allungato a tal punto da diventare sempre più sfocato e intangibile. Un anno di dolore.

 Ma proseguiamo con ordine. Erano le 6 del mattino, in una giornata fredda e nebbiosa. Stavo andando a sostenere un esame estremamente importante per la mia carriera. La strada – l’unica percorribile per raggiungere la mia università – era interrotta da un check-point. Prima che potessimo raggiungerlo, i soldati di occupazione ci fecero scendere dall’autobus ordinandoci di seguirli a piedi fino al checkpoint stesso. Un ragazzino di origine africana, con la divisa e armato fino ai denti, mi stava fissando. Puntò il dito verso di me e mi disse: “Seguimi”. Timidamente lo seguii.

 “Buongiorno”, mi disse. “Buongiorno”, risposi. Il suo sguardo era fisso su di me. “Salta cento volte su te stesso, e ti farò passare”. La sua voce mostrava sicurezza e svogliatezza allo stesso momento. “Cosa?”.

“Salta. Cento. Volte.”

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“Sei impazzito? Ti vuoi divertire? Non lo farò, ho una dignità”. In quel momento si avvicinò ancora di più verso di me picchiandomi alla schiena con il calcio del fucile. Il colpo ricevuto fu atroce e mi lasciò senza fiato, ma rilasciò immediatamente una scarica di adrenalina che confluì direttamente al braccio destro. Quasi senza rendermene conto strinsi le dita e tirai un pugno al soldato. Gli ruppi il naso. Ero in attesa di ricevere una scarica di mitra che mi avrebbe “punito”, ma non venni ucciso. No. Altri quattro soldati mi circondarono e iniziarono a picchiarmi con tutta la loro forza. Avevo dolore alla testa, alla schiena, sulle gambe… un soldato mi aprì la mano destra e premette il grilletto. Avevo la mano piena di sangue. Poi chiusi gli occhi. Il buio.

 Mi risvegliai, non so quanto tempo dopo. Sentivo un forte odore di ospedale, di medicine. Provai a muovere le dita, ma non mi fu possibile. Ero legato al letto, mi sentivo come un leone dopo una battuta di caccia. C’erano soldati intorno a me. Ero stato arrestato, avevo la schiena a pezzi e il sangue usciva abbondante dalla testa.

 Dopo due giorni mi trasferirono in una prigione. La mia cella era alta un metro e larga un metro. Era tutto chiuso, un buco di cemento. Non sapevo se fosse giorno o notte. Il posto era sporchissimo e puzzava. A causa di queste condizioni sentivo le mie ferite bruciare. Sentivo nelle vicinanze i latrati di un cane, sembrava triste. Non potevo né vederlo né toccarlo ma, in qualche modo, i suoi lamenti erano la mia unica compagnia. Una volta al giorno mi davano una scodella di zuppa di fave e un bicchiere d’acqua.

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 Il tredicesimo giorno mi hanno trasferito in un altro carcere, in cui ho potuto conoscere diversi prigionieri. Alcuni avrebbero dovuto scontare 700 anni, altri invece 5 ergastoli. “E tu, per quanto tempo devi stare qui?” Una domanda a cui non ero in grado di rispondere. Mi dissero di rivolgermi a un ufficio dentro la prigione per conoscere il mio profilo. Qui diedi il mio nome e chiesi informazioni: “Tra 6 mesi saprai tutto”, mi rispose la funzionaria.

I giorni passavano lentamente, tutti uguali. Il sabato era come la domenica, la domenica era come il venerdi. Passarono i giorni, poi le settimane e i mesi. Allo scadere del sesto mese un soldato venne da me, chiamandomi per nome.

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“Dimmi caro”, risposi io.
“Ti piace stare qui?”
“Eh, è una vera gioia”
“Allora ho una buona notizia per te: devi stare qui altri 6 mesi”.

 Ero disperato. Pensavo a mia madre, agli esami persi. A volte mi sono pentito di aver agito da essere umano; “avrei potuto saltare 300 volte, sarebbe stato meglio che subire questo”. Altre volte, invece, ero convinto che difendere la mia dignità era stata un’azione giusta.

 Dopo altri sei mesi di sigarette, uova soda e riso in bianco, uscii. Libero, finalmente. Abbracciai mia madre e mio padre, giurando loro di non tornare mai più dentro. Ero disturbato. Ancora adesso, se penso a quell’anno, provo dolore. Un dolore fisico e mentale. Ho perso l’università, ho un dito che non potrò mai più muovere, ho buttato via un anno della mia vita. Eppure, nonostante tutto, posso dire di essere felice. Che tu viva in Palestina, o che sia la Palestina a vivere dentro di te, mantieni alta la tua dignità di uomo. Il sole della giustizia sorgerà.


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