Chi ha amato De André sin da piccolo ha una sorta di eterna diffidenza verso cover, rivisitazioni e citazioni. Specialmente in un’era sincretica come questa, dove tutto può essere sminuzzato, frullato, ripensato. Eppure quando Michele Ascolese fa scorrere le mani sulle corde della chitarra per La domenica delle salme o quando le accarezza appena per La guerra di Piero tutto l’ostracismo cessa immediatamente. Michele è stato chitarrista di De André dal tour de Le Nuvole (1991) a quello di Anime Salve (1997-98), in otto dei 23 anni di attività dal vivo del cantautore. Domenica 13 aprile si esibirà alla Villetta di Roma in una festa tributo alla poesia di Faber insieme a molti altri collaboratori storici. Lo incontro durante un suo “giro di perlustrazione” del palco e cerco di farmi spiegare perché, oggi, vale ancora la pena suonare De André.
Che concerto sarà?
Una festa. Abbiamo deciso di seguire il canovaccio solo per metà, il resto sarà improvvisazione. Anzi ci piacerebbe che sia il pubblico a chiederci quali canzoni di Fabrizio suonare.
Un po’ come succedeva con lui quando cantava tra i tavoli delle osterie sarde.
Esattamente. Il clima è proprio quello. Fabrizio amava la musica, amava esibirsi. Eppure generalmente lo si ricorda in maniera piuttosto istituzionale. Ma per lui la musica era principalmente gioia.
Com’era il De André del dopo concerto, del dietro le quinte, della stanchezza accumulata delle prove?
Non andava via prima di aver salutato ogni persona che voleva parlargli. Delle volte, dopo un concerto, trascorreva ore e ore ad ascoltare fino a 300 persone che in fila aspettavano il proprio turno per ringraziarlo, salutarlo o raccontargli qualcosa.
E con i musicisti?
Era fantastico. Esigente e fantastico.
Un perfezionista.
Sì, ma non era difficile lavorare con lui. Ci ha insegnato a essere perfezionisti a nostra volta. In primis lo era con se stesso, quindi il resto era una normale conseguenza.
Nei suoi concerti era sempre molto evidente l’idea di gruppo. Come riusciva creare così tanto amalgama artistico tra i suoi collaboratori?
Cercava sempre le stesse persone. Credeva fermamente nelle persone, amava le persone. Cercava quindi di circondarsi di persone con cui si trovava bene. I suoi sono stati sempre musicisti eccezionali, ma prima di tutto cercava di investire nel lato umano dei collaboratori. Ed è giusto ricordare la sua grande umiltà.
La musica di De André riesce a lasciare il segno ad un pubblico variegato. Anche a 16 anni dalla morte la sua poesia continua ad essere cercata, studiata e vissuta anche da giovanissimi. Come spieghi questo attaccamento trasversale nei confronti di un cantautore la cui poetica non ha una facile lettura?
Oltre a Le Nuvole, che ebbe uno strepitoso successo commerciale, gli album di Fabrizio hanno tutti avuto successo nel tempo, mai immediatamente. Perché le sue sono verità universali, sempre attuali. Un po’ come quelle dell’Odissea o dell’Illiade. L’ascoltatore percepisce il suo animo da osservatore, da indagatore della realtà. Del resto lui lo diceva sempre, verso la sua opera si sentiva un semplice artigiano. E questo spirito è apprezzato dal suo pubblico.
Nell’album Creuza de ma Fabrizio ha raccontato la terra, le tradizioni che rischiano di essere smussate, le lingue regionali e le loro ricchezze. Come racconterebbe il monto interculturale di oggi?
Fabrizio è stato oltremodo in anticipo. Anime Salve finisce con Smisurata preghiera, che è il suo testamento spirituale. Lì capiamo la sua urgenza nel difendere le minoranze, nel preservarle dal rischio di essere fagocitate dalla maggioranza. Una necessità. L’attualità di quella canzone è impressionante.
Che cosa provi nel suonare le sue canzoni senza averlo con te sul palco?
È certamente molto emozionante. Ma è soprattutto un modo per incontrare vecchi amici. È un meraviglioso pretesto per incontrare persone. La sua musica è incontro. Dori Ghezzi disse che quella di Fabrizio è “una musica pubblica”. E aveva ragione.
Cos’è la musica italiana dopo De André?
Ci sono alcuni nuovi artisti interessanti. La vita cambia. Cambia il modo di raccontare la realtà, lo sguardo diventa più veloce, cambiano i contenuti. Di oggi mi piacciono artisti come Capossela, senza dimenticare i nuovi lavori degli “storici” tipo Francesco De Gregori. C’è una nuova velocità in tutto, anche nell’esecuzione. Non potrà esserci un nuovo De André, ma va bene così.
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