Nel 1986 Paolo Caruso intervistava per la terza rete Rai Claude Levi Strauss, padre dell’etnologia moderna e “astronomo delle scienze sociali”, come amava definire l’antropologo che partendo da una strenua ricerca sul campo riusciva a dare una dimensione teorica di quanto studiato. Nell’intervista di Caruso, che riproponiamo ai lettori di Frontiere News, Lévi Strauss racconta alcuni aneddoti della sua infanzia fondamentali per la sua formazione intellettuale, analizza il concetto di “vocazione” e ripercorre l’avventura della ricerca etnografica sul campo, “ben più fantastica di quella degli uomini che sono andati sulla luna”.
Monsieur Lévi-Strauss, quando era bambino cosa desiderava fare da grande?
Ho un ricordo molto sfocato della mia infanzia, perché man mano che passa il tempo dimentico il mio passato. Credo di ricordare, tuttavia, di aver desiderato di fare un po’ di tutto. Volevo diventare pittore, compositore di musica, scrittore: decisamente ho oscillato molto tra vocazioni diverse. Nella mia famiglia poi c’era una grande tradizione musicale, soprattutto fra i miei antenati paterni: il mio bisnonno era stato direttore d’orchestra nei balli di corte sotto Luigi Filippo e Napoleone III, aveva lavorato con Berlioz e aveva contribuito a introdurre in Francia Beethoven e Mendelssohn; la musica ha avuto insomma una notevole importanza nella mia famiglia.
È vero che anche lei avrebbe voluto diventare direttore d’orchestra?
Mi sarebbe piaciuto; è certamente la strada che avrei scelto se avessi potuto, se ad esempio una fata buona mi avesse permesso di scegliere la mia vocazione. Suppongo che, per diventare musicista, mi mancasse probabilmente qualcosa dal punto di vista genetico.
Lei quindi ritiene che la vocazione si trasmetta con i cromosomi?
Non so se la vocazione sia ereditaria, ma sono sicuro che non si possa decidere prima.
Per quanto riguarda invece la sua vocazione etnologica, c’è qualche ricordo d’infanzia che le consente di ricostruire come è nata?
Sì. Innanzitutto avevo una grande curiosità per gli oggetti esotici, per le anticaglie; ho iniziato fin da piccolo a collezionare, almeno fin dove arrivavo con le mie modeste finanze di bambino. Inoltre, da ragazzo, ho provato una forte attrazione per la natura, per il campeggio, in un periodo in cui campeggiare non era assolutamente di moda; l’unione di questi piaceri così diversi tra loro, intellettuali ed estetici da un lato, quasi fisici dall’altro, mi ha orientato verso l’etnografia, senza che me ne rendessi conto.
A proposito del suo amore per le lunghe passeggiate, non è stato forse proprio camminando che lei ha avuto le sue prime intuizioni geologiche, quella specie di rivelazione della natura strutturata che ha descritto in Tristi Tropici?
Credo che fin da piccolo, da piccolissimo anzi, io abbia avuto il bisogno di capire il perché di fenomeni o di cose apparentemente anormali, incoerenti, assurde. Un paesaggio fa nascere immediatamente questi interrogativi, in quanto è il prodotto di una storia molto lunga, di migliaia, di milioni o di miliardi di anni; guardando questa specie di disordine chiamato paesaggio, io mi chiedo che cosa sia, perché si è strutturato in questo modo, quale è la sua ragion d’essere. Ed è così che, fin dall’infanzia, ho sviluppato un interesse molto profondo per la geologia. Però l’invito a trovare un ordine sotto l’apparente disordine, non l’ho avuto solo dalla geologia, ma anche, in altro senso, da Marx e, in un altro senso ancora, da Freud.
Può indicarci il peso che hanno avuto sul suo pensiero questi punti di riferimento, questi maestri?
Il problema è sempre identico: di fronte a fenomeni apparentemente misteriosi, cercare di raggiungere una loro razionalità nascosta. Parlavamo poco fa del mio interesse per il paesaggio: io non potevo concepire le grandi passeggiate in montagna o i soggiorni in campeggio senza tentare di comprendere l’ambiente nel quale mi muovevo: di qui il mio interesse per la geologia. Quando studiavo filosofia, mi è capitato in vacanza di incontrare un giovane socialista belga, che poi ha fatto una brillante carriera nel partito. Marx io lo conoscevo solo di nome, a scuola non se ne parlava.
Ho cercato di saperne di più da lui; ebbene, facendomi leggere Marx, quel giovane socialista mi ha fatto conoscere un pensiero che cercava appunto una razionalità nascosta dietro le apparenze ingannevoli della coscienza. Sempre al liceo, in classe di filosofia, avevo un compagno il cui padre era psichiatra – uno tra i primi a introdurre Freud in Francia – che mi ha fatto leggere Freud. Diciamo che quello che ho trovato in Marx dal punto di vista del pensiero collettivo, l’ho ritrovato in Freud sul piano del pensiero individuale. Ma un filo collegava tutto ciò: che si trattasse di uno spettacolo della natura, della vita delle società, della storia degli individui, per me era sempre la stessa cosa, e cioè il mio desiderio di capire, di cogliere la segreta intelligibilità di manifestazioni che ne erano apparentemente sprovviste.
Lei inizia il suo più celebre libro, Tristi tropici, con la seguente affermazione: “Odio i viaggi, odio gli esploratori…” – eppure anche poco fa lei ha confessato il suo amore per i viaggi e il bisogno di evasione. Come è possibile questo?
Credo che la prima frase di Tristi tropici sia una frase un po’ polemica, provocatoria, scritta in un periodo in cui le organizzazioni di grandi viaggi incontravano un grandissimo favore. Io ritornavo stremato, fisicamente e moralmente, da una spedizione durante la quale mi ero convinto che il viaggio non è un obiettivo di per sé, ma il mezzo per raggiungere certi risultati, un mezzo che comportava molte difficoltà e sofferenze. Noi etnologi siamo costretti ad andare a cercare i nostri laboratori a migliaia di chilometri di distanza: non possiamo confezionarci società umane a domicilio, e osservare, a domicilio, il modo in cui reagiscono nelle più diverse condizioni. Ma questo nostro viaggiare, che il pubblico ritiene fine a se stesso, essendo attratto il più delle volte da ciò che è pittoresco, era per noi solo un mezzo.
In che modo ricorda il suo lavoro sul campo e, in generale, quel periodo della sua vita, quell’esperienza vissuta in prima persona?
Direi che sono stati gli anni più belli della mia vita. In primo luogo perché ho avuto la possibilità di entrare in contatto con una natura prevalentemente vergine, un’esperienza questa che considero tutt’ora di enorme valore, proprio perché oggi è sempre più difficile trovare le condizioni per ripeterla. Direi poi che per un intellettuale questa esperienza rappresenta una costante sfida che impone responsabilità ben diverse da quelle che si possono assumere normalmente. Dopo tutto, preparare punto per punto una spedizione, reclutare gli uomini che si occupino dei cavalli e dei buoi, scegliere gli animali, risolvere i problemi quotidiani dell’approvvigionamento, del guado di fiumi dove non esistono né ponti né passerelle, rappresentava una straordinaria opportunità per una persona che, come me, intendeva dedicarsi solo all’attività scientifica.
E poi c’è il lato dell’avventura umana…
C’è il lato dell’avventura umana, e anche l’occasione unica di condividere l’esistenza di società che sono rimaste più o meno al riparo dall’influenza del mondo occidentale e delle società industriali; tutto ciò consente quasi di rivivere, nei limiti del possibile, le fantastiche avventure dei navigatori e dei viaggiatori del XVI secolo, anche se non voglio esagerare nel paragone, perché le differenze sono enormi. Ma bisogna pur dire che il lavoro etnografico sul campo è un’esperienza ben più fantastica di quella vissuta dagli uomini che sono andati sulla luna, perché quando si va sulla luna si trova un mondo vuoto, morto, disabitato, mentre nelle nostre spedizioni abbiamo trovato civiltà di una ricchezza prodigiosa, che potevano appartenere, per la loro diversità, anche a un altro pianeta.
Lei mi ha detto una volta che la stessa precarietà di questi popoli, la loro prossima scomparsa, pone problemi di urgenza nello studiarli. Un po’ come se fossimo avvicinati da un pianeta sconosciuto e fossimo nella necessità di mobilitarci prima che si allontani di nuovo…
È una cosa che si diceva già nel XVIII secolo. Quando sono state fondate le prime società per lo studio dell’uomo, le antenate cioè dell’etnologia, si diceva: “rimangono solo alcuni anni, dobbiamo fare in fretta”. Nell’anno in cui sono nato, nel 1908, Frazer tenne a Liverpool il discorso inaugurale della prima cattedra al mondo di “antropologia sociale”. Egli disse in quell’occasione: “abbiamo solo alcuni anni davanti a noi”. Questo tema è una specie di leit-motiv del pensiero etnologico. Certo, oggi è molto più reale di quanto non lo fosse in passato. D’altro canto, bisogna ammettere che i nostri metodi di lavoro sono andati via via affinandosi, tanto che oggi possiamo addentrarci in dettagli molto più sottili di quanto non fosse possibile cinquanta o cento anni fa: quindi, pur scoprendo sempre meno dati, in un certo senso, possiamo approfondirli di più.
Ma ci sono ancora popolazioni che debbono essere studiate da vicino?
Non dobbiamo farci illusioni. Non credo che siano state scoperte di recente, e tanto meno che rimangano ancora da scoprire popolazioni del tutto sconosciute. Quelle che consideriamo popolazioni sconosciute sono probabilmente, nella maggior parte dei casi, popolazioni con cui avevamo già qualche contatto, magari indiretto, cinquanta o cento anni fa, e che poi si sono ripiegate in se stesse, fuggendo la civiltà e sopravvivendo in qualche foresta o savana. Ma non si tratta di popolazioni totalmente vergini, non ne esistono più.
Intervista a cura di Paolo Caruso (RAI-TV, III rete,
Il cammino delle idee 1986, a cura di G.Berardelli e E.Chelli)
(Da Prometeo n. 18, giugno 1987)
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