di Irenäus Eibl-Eibesfeldt
I bambini sordi e ciechi sin dalla nascita crescono con gravi carenze di stimoli esterni, e ciò ostacola le loro capacità di apprendimento. Essi non possono verificare le espressioni acustiche e gestuali dei loro simili; e, dato che i comportamenti espressivi vengono appresi nel corso dell’età evolutiva, si potrebbe supporre che i nati sordi e ciechi si differenzino nettamente da quanti non hanno handicap del genere. Ma l’aspetto più interessante è che questo in realtà non avviene. Infatti anche sordi e ciechi dalla nascita ridono, sorridono, piangono, corrugano la fronte se di cattivo umore, stringono i denti per la rabbia o scalciano con i piedi. In breve il loro linguaggio espressivo denota gli stessi significati che per esempio il pianto e il riso hanno per i bambini che sentono e vedono. I medesimi movimenti espressivi sono riscontrabili nelle stesse situazioni, nei soggetti sani. Vi è però una limitazione: in presenza di questi handicap la comunicazione a distanza è preclusa ed espressioni normalmente risolte ed espressi in un batter d’occhio, in questo caso, non possono aver luogo.
Il sorriso non può, ovviamente, essere percepito a distanza, ma quando la madre si intrattiene fisicamente e con il suo bambino e ci gioca, e gli sorride. E, al contrario, piange quando si infortuna, e si rabbuia quando si interrompe il contatto con lei.
Le persone in condizioni fisiche normali indicano, con determinati comportamenti espressivi, il rifiuto e la paura degli altri (voltandosi indietro, accoccolandosi e aggrappandosi, gettando indietro la testa, corrugando la fronte, contraendo spasmodicamente le palpebre con un leggero arricciamento del naso, rimuovendo l’ostacolo con la mano). I sordi e i ciechi, nel comunicare attraverso l’olfatto e il tatto con i propri simili, manifestano anch’essi queste forme di rifiuto, al contrario di quanto ci si potrebbe aspettare da individui cresciuti in un ambiente più povero di esperienze esterne. Si può quindi considerare questo atteggiamento di diffidenza e paura come una predisposizione ereditaria.
Ho avuto modo di osservare queste caratteristiche, non soltanto nella nostra cultura, ma anche presso alcuni gruppi che vivono nelle foreste (indiani yamomami, himba, diversi gruppi papuasi, balinesi, ecc.) fra bambini che non avevano mai dovuto temere nulla da un estraneo. Sono quindi giunto alla conclusione che la xenofobia così diffusa nella nostra specie è innata: il che è è la causa della nostra tendenza a isolarci in piccoli gruppi e a contrapporsi agli altri con un sentimento di diffidenza.
In generale ci poniamo la domanda se nella storia sociale dell’uomo si abbia a che fare con determinati innatismi, e se le strategie interattive siano predeterminate da un bagaglio ereditario del gruppo. A questo proposito un’analisi comparativa può esserci di grande aiuto. Si possono, per esempio, confrontare individui di diverse culture per definirne le somiglianze di comportamento: la presenza di tali somiglianze rende plausibile l’ipotesi che popoli diversi abbiano una stessa origine bio-sociale. Ciò che balza agli occhi, in modo quanto mai evidente, è che gli uomini possono manifestare, ovunque si trovino, le medesime forme di comportamento.
La gestualità, per il modo così diffuso in cui si manifesta, è un campo privilegiato di verifica: certe situazioni analoghe possono determinare un comportamento-risposta adeguato che tende a stabilizzarsi.
È il caso, per esempio, delle reazioni infantili a situazioni specifiche come l’allattamento. Tutti i bambini del mondo si allontanano dal seno quando sono sazi e lo rifiutano. L’universalità di una stessa situazione, più volte ripetuta, può forse aver generato la stabilizzazione del gesto, che esprime la volontà di allontanamento e il diniego, tramite un movimento della testa.
Qualcosa di analogo avviene nelle varie lingue. Dal fatto che diverse culture esprimono con parole differenti (quali “mater”, “mutter”, “madre”, “mother”, ecc.) un medesimo concetto, si può dedurre che tale concetto costituisce un legame culturale tra di esse, in quanto esso risale a una forma arcaica e comune di linguaggio. Si tratta, come affermò Wickler, di una omologia di tradizioni. […]
Ai fini del confronto tra culture diverse ho realizzato 15 anni fa, con il mio amico Hans Mass, alcuni filmati sulle modalità del comportamento umano. Documenti del genere non erano mai stati utilizzati sistematicamente prima di allora. Nelle riprese di questi filmati sono stati utilizzati degli obiettivi-specchio. Sono così riuscito a filmare i comportamenti spontanei in un contesto culturale specifico, verificando come alcuni di essi fossero ricorrenti nelle più svariate culture: dai cacciatori-raccoglitori delle foreste del Kalahari, ai coltivatori-raccoglitori yanomami, dagli ultimi uomini dell’età della pietra in Papuasia, agli agricoltori di Bali.
Dovunque si svolgesse l’indagine, veniva opportunamente individuata e favorita una certa situazione ottimale per l’osservazione delle reazioni omologhe. Nell’intento di superare le distanze culturali abbiamo perciò impiegato test comportamentali tali da individuare gli elementi-chiave capaci di definire una determinata situazione (spavento, sorpresa, disgusto, ecc.).
Durante l’osservazione annotavamo su una scheda in quale contesto si riscontrava un certo comportamento e quale significato gli fosse attribuito. Tutto ciò serviva come base per la successiva correlazione analitica. I filmati furono anche analizzati con una velocità di proiezione diversa dalla normale, allo scopo di mettere in evidenza col rallentatore le singole fasi di un comportamento, e con l’acceleratore il movimento d’insieme risultante dalle singole fasi. L’uso dei filmati permette infatti di fissare, tramite le immagini delle sequenze, quei dettagli che la percezione visiva non coglie.
L’analisi comparativa, unitamente ai principi più avanzati dell’etologia, hanno dimostrato l’esistenza nelle più svariate culture di comportamenti umani universali, verificabili nei minimi particolari.
Così ad esempio esiste un particolare saluto a distanza, riscontrato il numerosissime culture (come quelle degli indiani yanomami, dei popoli delle foreste, dei papuasi e di molti altri). Questa forma di saluto consiste, purché la distanza sia sufficiente a percepirla, in una breve alzata di capo di colui che saluta. Quasi nello stesso istante si inarcano le sopracciglia e la bocca si allarga in un sorriso. Successivamente chi ha rivolto il saluto non emette altri segnali sino al momento della risposta. L’unica differenza sembra essere nella spontaneità dell’azione. I polinesiani e alcuni papuasi, ad esempio, si esprimono con molta spontaneità e salutano anche gli stranieri con un cenno delle sopracciglia. I samoani, invece, usano inarcare le sopracciglia nel saluto amichevole e nella risposta affermativa. Questa forma di linguaggio gestuale è così eloquente da rendere a volte è superfluo l’uso della parola. Da noi, nella cosiddetta Mitteleuropa, si accoglie così un buon amico, e la spontaneità con cui si nastro le sopracciglia indica in che misura è gradita la persona che si saluta.
(Da Prometeo n.3, settembre 1983, Mondadori, tr. di S.Martuscelli)
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