Lorenzo Possanza, un attore migrante alla conquista del teatro newyorchese

di Joshua Evangelista

C’erano una volta giovani italiani aspiranti attori che partivano per New York, attratti dalle luci e dall’energia dei palchi della Grande Mela. E ci sono ancora. Cambiano i tempi, le connessioni e la tecnologia ma non la voglia di confrontarsi con il grande palcoscenico. Anche in un’epoca di migrazioni generalizzate e di svalutazione – in Italia – del ruolo dell’attore, in nome di talent show e successo a portata di tutti.

Così Lorenzo Possanza, un romano del ’93 di belle speranze e determinazione e da più di dieci anni alle prese con copioni e pubblico, ha deciso di provarci. Dopo il Teatro Le Maschere di Trastevere e lo Stabile del Giallo (una delle realtà teatrali più interessanti e sottovalutate del panorama capitolino) ecco il triplo salto verso l’America. Prima un corso al Circle in the Square, dove per la prima volta recita in inglese.

Quindi decide di studiare il metodo Stanislavskij allo Stella Adler Studio of Acting, un’istitituzione del teatro a stelle e strisce, che ha forgiato attori come Robert De Niro, Martin SheenDolores del Rio, Christoph Waltz, Benicio del Toro e Marlon Brando.

Carlo Possanza
Lorenzo Possanza

La New York che conosce Lorenzo è viva, pulsante. Ti ingloba e ti rigetta, in un ritmo che non tutti possono sostenere. “Pensavo che la città fosse meno cara, prima di tutto”, spiega Lorenzo. “All’inizio cercare un appartamento è stato difficile. Si crede che basti mettere un annuncio su Craiglist ed è fatta. Le cose sono più complicate, per fortuna ho conosciuto un ragazzo a una festa e con lui abbiamo preso casa”. Dopo cinque tentativi, quindi, trova casa nel Queens, il quartiere multietnico per eccellenza.

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Complicazioni, diffidenze, ma anche un panorama culturale sterminato. “A New York ci sono tantissimi teatri, e non solo a Broadway, si potrebbe vedere spettacoli di qualità ogni sera spendendo appena 15 dollari”. In questo clima, di sfida e di arricchimento, Lorenzo ha trovato la sua dimensione, come artista e come persona.

Alla fine di questa velocità riesci ad apprezzarne i suoi lati divertenti. Certo, per me l’idea di città era legata a Roma, alle passeggiate in centro, all’incontrarsi per spendere del tempo con le persone a cui tieni. Qui non esiste un centro, si sta sempre al chiuso”.

Ma se “le persone sembrano tutte catturate dai propri problemi, ci sono 8,5 milioni di persone così prese da loro che non hanno tempo per vedersi”, incontrare culture così diverse crea il sostrato perfetto per diventare attori. “Sono incantato da tutte queste culture diverse, dall’apertura, delle connessioni e dalle energie, c’è tanta voglia di fare”.

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Ma basta la voglia di fare per sopravvivere in un sistema così competitivo e fagocitante come quello del teatro newyorchese? “I primi mesi nella scuola sono stati molto impegnativi. Prima di tutto per la lingua”. Via l’accento italiano, alla ricerca di un inglese americano neo-standard che possa consentire all’attore di recitare qualsiasi personaggio senza ricadute “macchiettistiche”.

Passa il primo anno di scuola e Lorenzo prende sempre più confidenza con il palco e con gli insegnamenti. Esordisce nello spettacolo Dog sees God, di Bert V. Royal. Un testo impegnativo e paradossale, in cui l’autore immerge i protagonisti dei Peanuts di Schultz in un contesto di droga, violenze e abusi sessuali. Tanta emozione e nervosismo alla prima ma la convinzione di andare verso la direzione giusta, con gli insegnanti della scuola che a fine spettacolo corrono a complimentarsi con Lorenzo.

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Del resto il rapporto studenti-insegnanti è la vera forza della Stella Adler, con i primi che vengono spesso coinvolti nei lavori dei secondi, andando oltre il distacco accademico che troppo spesso contraddistingue le scuole italiane di recitazione. Ma non c’è tempo per adagiarsi, il secondo anno di corso presenta nuove sfide, se vogliamo ancora più impegnative.

In primis l’incontro con Shakespeare e l’inglese del Cinquecento, poi Il Gabbiano di Checov, in cui Lorenzo veste i panni di Semyon Semyonovich Medvedenko.

Finiti i due anni di scuola, Lorenzo decide di giocarsi le sue carte e di rimanere negli Usa. È pronto a mettersi in discussione anche con cinema e tv, ma senza perdere lo sguardo di chi ha deciso di calcare i parquet dei teatri per sempre.

Ottenere il visto è un’impresa, anche per chi sta già conoscendo appagamento e integrazione. Così Lorenzo, come milioni di altri stranieri in terra americana, continua a lottare per i documenti. Del resto qui nessuno regala niente e le soddisfazioni accademiche vanno riconfermate giorno dopo giorno, tra provini e annunci.

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Meritocrazia, certo, ma anche un mercato chiuso e un “sindacato degli attori autoreferenziale nel quale è duro accedervi”.

Ma Lorenzo non demorde e si iscrive al sito Backstage, un must per ogni giovane attore americano. Partecipa a diverse selezioni e ottiene una parte in Cherish Every Precious Moment, on stage al Producers Club Theatre. Qui è John, un ragazzo alle prese con una moglie tossicodipendente. Interpreta ragazzo che cerca di far smettere una ragazza. Il Producers è una realtà teatrale interessante, in una zona pulsante, tra la 44esima e la Nona.

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Dalla droga di Cherish Every Precious Moment a The Godson della compagnia Love Creek, in cui si confronta con un’opera tragicomica. Quindi Lorenzo diventa un criminale in A little analysis e un reduce della Grande Guerra in Johnny Got His Gun, dal capolavoro del 1938 di Dalton Trumbo.

Ma il rapporto con l’Italia è forte e chissà se è stato anche questo a convincere la Kairos Italy Theater a investire su di lui per Characters in search of a country, dove la pirandelliana ricerca dell’identità si intreccia nelle storie di migrazione di oggi. Sono passati quasi 150 anni, eppure New York per gli italiani con la valigia è ancora, un grande, imperdibile palcoscenico.


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