di Joshua Evangelista
Jeremy Scahill non si è mai fatto intimorire dall’effige salvifica del premio Nobel per la pace. Se c’è qualcuno che è riuscito a raccontare la continuità strategica delle campagne militari di Bill Clinton, Bush jr e dell’ex senatore dell’Illinois, quello è sicuramente lui.
Nelle 642 pagine di Dirty Wars, the World is a battlefield (2013, incredibilmente mai tradotto in italiano) Scahill racconta con la precisione dello storico e il piglio del giornalista investigativo tutte le guerre segrete condotte dagli Stati Uniti dopo l’11 settembre. Il libro è diventato anche un film candidato agli Oscar come miglior documentario (spettacolare e coinvolgente ma decisamente meno accurato).
Inviato di guerra di lungo corso e, insieme a Glenn Greenwald, anima dell’Intercept, Scahill sceglie il punto di vista delle vittime per dimostrare, numeri alla mano, che i targeted killings di Obama hanno di fatto cementato le politiche della precedente amministrazione. Quella che aveva dichiarato che il mondo intero fosse “un campo di battaglia”. Stessa linea nonostante una narrazione completamente differente, che permetterà a Barack Obama di accomiatarsi dai suoi elettori serenamente.
Bilanciando uno studio dettagliato degli ultimi decenni di politica estera americana con storie raccolte personalmente in Afghanistan, Pakistan, Somalia e Yemen (oltre a interviste con soldati e ufficiali della National Security Agency), Scahill sviscera il concetto di America come iper-potenza attraverso l’incredibile evoluzione del Comando congiunto per le operazioni speciali (JSOC). Quello che, per intenderci, ha ucciso Osama Bin Laden ad Abbottabad.
Proprio in seguito all’uccisione del numero uno di Al Qaeda l’élite del JSOC, fino ad allora sconosciuta ai più, è diventata famosa in tutto il mondo. Di lista in lista, i suoi membri si sono impegnati nell’uccidere “nemici della libertà” in giro per il globo.
AMERICANI NEMICI DELL’AMERICA
Tra questi ci sono anche due cittadini americani: Anwar al-Awlaki e il figlio sedicenne Abdulrahman. Nato a Las Cruces, New Mexico, da una coppia di migranti yemeniti, Anwar è diventato target primario del governo. Creando un precedente non di poco conto: per la prima volta un presidente americano ha ordinato l’uccisione di un connazionale senza passare per una richiesta ufficiale di estradizione e un regolare processo davanti a una corte.
I droni USA dispiegati in Yemen riescono ad ucciderlo il 30 settembre 2011, in seguito a diversi tentativi fallimentari. Due settimane dopo, è il turno del figlioletto Abdulrahman, colpito misteriosamente a Shabwa, dove si era recato tempo prima in cerca del padre.
11 Settembre e islam moderato
L’11 settembre 2001 al-Awlaki era imam della moschea Dar al-Hijrah, nella Virginia del Nord. Fu una delle prime autorità musulmane americane a condannare gli attacchi terroristici, diventando ben presto icona progressista, addirittura colui che avrebbe potuto “colmare il divario tra gli Stati Uniti e la comunità mondiale dei musulmani “.
Per capire il grado di autorevolezza che stava raggiungendo -proprio nel periodo peggiore per i musulmani americani – basti pensare che fu invitato al Pentagono dal Ministero della Difesa per tenere delle conferenze sul dialogo inter-religioso, finendo sulle copertine dei principali giornali americani.
RAdicalizzazione
Con l’esplosione delle “guerre al terrorismo” in Afghanistan e in Iraq, Anwar al-Awlaki diventò sempre più duro e radicale contro la politica di Bush, si trasferì nello Yemen e pubblicò su Internet video-sermoni che inneggiavano al jihad contro l’America.
La domanda alla base delle indagini di Scahill è: “Cosa serve affinché un cittadino statunitense venga inserito nella lista della Cia delle persone da uccidere?”
CONDANNA SENZA PROVE
Per trovare delle risposte è necessario andare oltre la “cartoonizzazione” del personaggio al-Awlaki, “un tizio in giacca mimetica che in qualche modo è diventato un estremista che vuole praticare il jihad armato contro gli Stati Uniti”. Il giornalista americano ha indagato sull’evoluzione sia della sfera privata che di quella pubblica dell’imam, supponendo che sia stata “il prodotto della politica estera americana”.
Al-Awlaki non è mai stato accusato di alcun crimine e nessuna prova è stata presentata ufficialmente contro di lui: perché la Casa Bianca ha preferito ucciderlo invece di incriminarlo e, quindi, chiedere al governo dello Yemen la sua estradizione? È sufficiente odiare l’America per essere uccisi? E, in ultima analisi, perché è stato ucciso anche il figlio Abdulrahman? Su quest’ultimo punto Scahill azzarda delle ipotesi: “Per il suo cognome? Per quello che potrebbe diventare un giorno?”
Una storia americana
Nasser, il padre di Anwar, si era trasferito da Sana’a a Lawrence, Kansas, dove aveva conseguito un dottorato di ricerca. Tornato nello Yemen, era diventato Ministro dell’agricoltura sotto Ali Abdullah Saleh.
A Sana’a, Scahill ha incontrato Nasser al-Awlaki prima e dopo l’uccisione del nipote Abdulrahman. Allo stesso tempo, ha intervistato numerosi ufficiali e analisti, come Phil Giraldi e Joshua Foust (che ha lavorato per la Defence Intelligence Agency durante la prima amministrazione Obama), a proposito delle indagini effettuate sull’imam da FBI e CIA dal 2001, ben prima della radicalizzazione.
Ha anche condotto un’attenta esegesi del blog di al-Awlaki e del modo in cui il tono della sua scrittura cambiava di post in post, fino a quando gli Stati Uniti avevano oscurato il sito e lui aveva cancellato ogni traccia digitale che avrebbe potuto condurre gli americani ai suoi nascondigli.
CARCERE E ISOLAMENTO
Nel 2002 Al-Awlaki aveva lasciato gli Stati Uniti (solo due anni prima aveva invitato i musulmani americani a votare Bush perché ideologicamente più vicino al conservatorismo islamico rispetto ad Al Gore) per trasferirsi in Gran Bretagna e infine nelloYemen, dove era stato arrestato dalle autorità locali su ordine di Washington.
Un anno e mezzo rinchiuso senza alcuna accusa, di cui 17 mesi in isolamento. “Una volta rilasciato, al-Awlaki era un uomo cambiato. E quando ha scoperto che il JSOC lo cercava per ucciderlo, la trasformazione era ormai completa”.
LE guerre sporche
Il caso al-Awlaki ha cambiato radicalmente l’approccio di Scahill all’indagine che stava conducendo sui target del JSOC, “la più grande storia su cui io abbia mai indagato”. Anwar al-Awlaki e il figlio adolescente nato a Denver diventano due figure centrali per allacciare tra loro le morti intelligenti ordinate da Obama e, più in generale, per avere un’immagine d’insieme delle guerre segrete americane gestite dal Joint Special Operations Command. Un programma altamente strutturato di omicidi non regolamentati che ha portato a operazioni in Afghanistan, Yemen, Somalia, Perù, Filippine, Pakistan, Georgia, Algeria, Indonesia, Thailandia e Giordania.
Il caso Awlaki è centrale per diversi motivi. Prima di tutto, in America è ancora dibattuto il modo in cui media e politici hanno determinato che l’imam fosse un rischio effettivo per la sicurezza nazionale e, senza aver alcuna prova, che fosse uno dei leader dell’AQAP, Al-Qaeda in the Arabian Peninsula.
E se l’uccisione del giovane Abdulrahman ha colpito personalmente Scahill (“Mi ha sventrato”, ha detto in un’intervista rilasciata Huffington Post), l’indagine ha permesso all’autore di raccontare a un pubblico ampio la dittatura dell’alleato Abd Allah Saleh (a cui dedica un intero capitolo) e di come il suo rapporto personale con George W. Bush prima e Barack Obama dopo sia stato determinante per portare a termine per le uccisioni mirate nello Yemen.
Attraverso la storia di Awlaki emerge l’arresto di un personaggio meno noto: il giornalista investigativo Abdulelah Haider Shaye, un’eccellenza dell’informazione yemenita, che aveva raccontato la strage del 17 dicembre 2009, quando missili da crociera BGM-109 Tomahawk erano stati lanciati dagli americani nei pressi del villaggio di al-Majalah, nel sud dello Yemen, uccidendo 41 civili (di cui 14 donne e 21 bambini). Famoso anche per aver intervistato vari leader di Al-Qaeda (così come lo stesso Awlaki), fu accusato di terrorismo e condannato a cinque anni di carcere. Curiosamente, il caso fu seguito personalmente da Barack Obama, che telefonò ad Ali Abdullah Saleh ponendo di fatto il veto per un eventuale rilascio.
Le uccisioni “intelligenti” sono continuate senza intoppi anche dopo la morte di Anwar al-Awlaki, nonostante l’irrobustimento del dibattito nazionale sull’uso dei droni e dei targeted killings. Del resto, spiega Scahill, “oltre confine non esiste più alcuna empatia”.
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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