La ricarica artificiale degli acquiferi come soluzione per conservare l’acqua nei paesi aridi e a rischio desertificazione, rendendola così disponibile per l’agricoltura e gli altri settori. La tecnica è stata sviluppata grazie a Wadis-Mar (Water harvesting and Agricultural techniques in Dry lands: an Integrated and Sustainable model in MAghreb Regions), un progetto che negli ultimi quattro anni e mezzo ha visto lavorare insieme il Nucleo di ricerca sulla desertificazione (NRD, capofila) dell’Università di Sassari, la Universitat de Barcelona (UB), l’Observatoire du Sahara et du Sahel (OSS) di Tunisi, l’Institut des Régions Arides (IRA) di Médenine, in Tunisia, e l’Agence Nationale des Ressources Hydrauliques (ANRH) di Algeri.
Finanziato dall’Unione Europa, Wadis-Mar è stato portato avanti con l’obiettivo di arrivare a un modello integrato, sostenibile e partecipato di raccolta dell’acqua e della sua gestione in agricoltura nelle due regioni magrebine di Oued Biskra, in Algeria, e di Oum Zessar, in Tunisia, caratterizzate da scarsità della risorsa idrica, sovrasfruttamento delle acque sotterranee e un’elevata vulnerabilità ai rischi legati ai cambiamenti climatici.
Il progetto è nato da un’intuizione di Giuseppe Enne, presidente del comitato scientifico dell’NRD: sottrarre al deserto e all’evaporazione i milioni di metri cubi di acqua piovana che ogni anno, nel giro di due o tre settimane, alimenta in maniera tumultuosa, violenta e repentina i wadi, corsi d’acqua periodici ed effimeri, tipici delle zone aride. In che modo questo è possibile? Una soluzione è stata suggerita da Giorgio Ghiglieri, professore di Idrogeologia dell’Università di Cagliari e coordinatore del progetto, che ha proposto la ricarica artificiale degli acquiferi, serbatoi d’acqua naturali. Nelle due aree in cui è stato realizzato, Wadis-Mar, tenendo conto delle esperienze maturate dalla tradizione locale, dopo aver studiato la composizione idrogeologica del territorio, è passato all’analisi del possibile utilizzo di alcune acque sotterranee per i diversi usi, quindi non solo irriguo ma anche potabile, ad esempio. Attraverso un grande sforzo di ricerca multidisciplinare (geologia, idrogeologia, idrochimica, agronomia etc.) sono inoltre state individuati due acquiferi in cui realizzare degli interventi di ricarica artificiale. Questi interventi hanno visto l’utilizzo di sistemi MAR (Managed Aquifer Recharge), progettati per catturare le acque superficiali dei wadi e conservarle nel sottosuolo, così da aumentare la disponibilità delle risorse idriche sotterranee e ridurre l’evaporazione. Ancora: sono stati realizzati investimenti per la diffusione di informazioni agrometeorologiche e di bollettini meteo (l’agricoltura non può prescinderne) e per la formazione del personale addetto. Non è tutto: sono stati mesi a punto dei sistemi colturali, riguardanti l’irrigazione o l’uso appropriato di acque saline, capaci di rendere il terreno produttivo anche in zone un cui la mancanza d’acqua ha un’influenza negativa sulla crescita delle colture arboree ed erbacee. Infine, investimenti sono stati fatti per organizzare 17 workshop di formazione per 220 persone, di cui il 50% donne, mirati a trasferire conoscenze sulla gestione sostenibile e integrata delle risorse idriche in agricoltura.
“Nelle zone aride, anche se poca, l’acqua c’è ma bisogna imparare a gestirla nel modo appropriato”, spiega Giorgio Ghiglieri. Per farlo serve un ampio spettro di azioni mirato a cambiare non solo le modalità di gestione, ma anche la conoscenza di questo prezioso bene, che è limitato. “Si può fare evitando gli sprechi- prosegue Ghiglieri– insegnando alla popolazione che in agricoltura si può risparmiare l’acqua utilizzando tecniche studiate per questo”. Non solo: per evitare i pericoli legati alla siccità è importante prepararsi prima, evitando di agire nell’emergenza: “La prevenzione si fa a tutti i livelli- aggiunge Ghiglieri– Formando la popolazione, gli agricoltori, i tecnici, sino ai decisori politici. Esiste un costo per tutto questo, ma il prezzo da pagare per agire a calamità avvenuta sarebbe molto più alto”.
Recentemente i risultati di Wadis- Mar sono stati illustrati in un convegno internazionale organizzato a Sassari dall’NRD: l’appuntamento ha richiamato nella città del nord Sardegna eminenti personalità del mondo scientifico e delle istituzioni internazionali da anni impegnate su temi come la crescente desertificazione e la scarsità d’acqua.
Il consesso è stata anche l’occasione per vedere personalità rappresentative delle organizzazioni mondiali lavorare fianco a fianco con studiosi ed esperti all’elaborazione di raccomandazioni, rivolte alle istituzioni e al mondo dell’istruzione. Tra queste: la necessità di migliorare il coinvolgimento dei soggetti interessati, a partire dagli agricoltori. L’importanza di dare valore alle ricerche interdisciplinari svolte da partnership miste, composte cioè da esperti di diverse materie e di diversa provenienza geografica. Il riconoscimento della ricerca scientifica come un importante supporto agli investimenti volti a ottimizzare la qualità e la disponibilità delle acque.
A rischio desertificazione più di un quarto del Pianeta. “Le terre aride ricoprono il 39,7 % della superficie terrestre, in cui vive più del 34% della popolazione del Pianeta” ha ricordato durante il convegno Daniel Tsegai. Un problema a cui si somma quello della degradazione del suolo, ha aggiunto Tsegai, e su cui cambiamenti climatici e azione dell’uomo incidono parecchio. Un esempio di quel che accade arriva dal bacino del Mediterraneo dove, ha spiegato Giovanni Barrocu, docente di Geologia applicata all’Università di Cagliari, “dati recenti mostrano l’esistenza di un fenomeno di sovrastruttamento degli acquiferi costieri, con conseguente salinizzazione delle acque sotterranee dell’area del Mediterraneo, che contribuisce ad accelerare i fenomeni di desertificazione”. Come fare a garantire un futuro alle generazioni che verranno? Tra le soluzioni proposte c’è anche quella illustrata da Dirk Raes, professore nell’Università di Lueven, in Belgio, che per la FAO, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, ha contribuito a sviluppare un sistema sperimentato con successo in Etiopia e Bolivia: inserendo in un modello matematico dati sul terreno, sulle colture, sul clima, è possibile valutare in anticipo il consumo idrico e la produttività per unità di superficie di suolo consumato. Nella pratica questo, insieme ad alcuni accorgimenti come anticipare l’epoca di semina o irrigare solo in alcuni momenti del ciclo colturale, si traduce nella possibilità di raddoppiare il raccolto (e quindi avere più cibo) utilizzando meno acqua.
Wadis-Mar esempio di buona prassi. “L’esperienza di Wadis-Mar ha insegnato che disporre di riserve idriche è una condizione necessaria ma non sufficiente per garantire un buon uso dell’acqua- dice Pier Paolo Roggero, direttore del Centro NRD– E’ stato anche constatato che una buona governance dell’acqua è spesso ostacolata da regole e istituzioni inadeguate e competenze non chiare o sovrapposte tra le varie agenzie e istituzioni che dovrebbero occuparsene”.
Problematiche, quelle espresse dal direttore dell’NRD, sentite anche dai partecipanti al convegno che hanno così deciso di elaborare delle raccomandazioni rivolte alle istituzioni. Oltre a quelle già citate, ci sono: l’istruzione, la collaborazione (e la connessione) tra istituzioni e organizzazioni, la multidisciplinarietà della ricerca e dell’istruzione, la valorizzazione delle esperienze eredità culturale delle popolazioni, il coinvolgimento delle parti interessate nella ricerca e nella definizione delle politiche, lo sviluppo di reti di agricoltori a scala di bacino, lo sviluppo di network di ricerca, un approfondito dibattito sul valore economico dell’acqua prima ancora di deciderne il prezzo, l’aumento della consapevolezza attraverso azioni locali e l’intervento dei mass media.
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