di Giulia Sabella e Caterina Villa
Il portone è sempre aperto. Salendo le scale si vedono le fotografie delle donne che sono passate qui prima di noi che sorridono con i loro occhi profondi. Della musica riecheggia per il corridoio, al piano di sopra oggi c’è lezione di coro. Le ospiti siedono intorno a un tavolo e si sforzano di cantare in greco; alcune di loro stanno iniziando a impararlo adesso, grazie al supporto di Melissa Network, l’organizzazione che gestisce questo centro diurno nel cuore di Atene.
Dal 2015 il centro garantisce a donne e ragazze rifugiate un posto sicuro dove potersi prendere cura di sé dopo i traumi subiti e le difficoltà affrontate. Non ci sono distinzioni etniche e religiose: tutte quelle che vogliono aiuto e un sostegno pratico per integrarsi nella società sono le benvenute.
«“Melissa” in greco significa ape – spiega Nadina Christopoulou, antropologa e co-fondatrice di Melissa Network – ed è una metafora per indicare tutte le donne migranti che arrivano qui portando con sé le proprie conoscenze, idee, ma anche i propri sogni e le proprie ambizioni, oltre che loro storie di dolore e separazione».
Niente di questa scelta è scontato, neanche il posto in cui aprire il centro. La sede infatti si trova non lontana dal piazza Vittoria, punto di arrivo per tanti profughi diretti verso l’Europa, ma anche nel centro di un quartiere che per anni è stato una delle roccaforti del partito di estrema destra Alba Dorata.
«Reclamare questo posto per noi era molto importante, se abbandoniamo il cuore delle nostre città alla negatività e al razzismo, allora abbiamo perso la battaglia – dice Nadina, che aggiunge come – questo influsso di persone che stiamo ricevendo sia una forza di cambiamento anche e soprattutto per noi».
Tra le ragazze che frequentano il centro c’è Jasmin. Lei ha solo 24 anni ed è arrivata dall’Iran un anno fa, passando per la Turchia per poi salire a bordo di una barca per l’ultimo tratto del viaggio. Ha lasciato il suo paese insieme al marito, con il quale si era convertita al cristianesimo. Non può e non vuole tornare indietro e spera di riuscire a costruirsi una vita in Grecia. Per ora vive in un campo profughi e divide un container con un’altra famiglia. Sta imparando il greco e frequenta delle lezioni di inglese all’università.
«Vengo qui ogni giorno. Sono arrivata per la prima volta due mesi fa – racconta – Ora sto molto bene, ma prima ero molto depressa, stavo sempre nella mia stanza e non uscivo mai perché non conoscevo nessuno. Qui invece ho conosciuto tante persone».
Anche Marzie si sta impegnando per migliorare il suo inglese. Ha 28 anni ed è arrivata dall’Afghanistan insieme al marito e alla figlia, che ora ha sette anni. «Arrivare qua è stato molto difficile, – dice – una volta in Turchia abbiamo preso una barca. C’erano 70 persone a bordo, era molto pesante e molto pericolosa. Abbiamo pregato tanto».
Le fondatrici dell’associazione conoscono bene le sensazioni di cui parlano Jasmine e Marzie. Infatti, Melissa Network è nata dalla collaborazione di una rete di 24 associazioni che riuniscono donne migranti arrivate in Grecia nei decenni passati. Oggi conta 260 membri, provenienti da 45 paesi diversi. Esponenti delle comunità ucraine, nigeriane, filippine, si dividono i compiti, dalla gestione della cucina alle attività per i figli delle ospiti.
«Sappiamo da cosa scappano le donne che arrivano adesso, molte di noi ci sono passate, capiamo bene la situazione in cui si trovano» spiega Debbie Valencia, co-fondatrice di Melissa e coordinatrice di Kasapi Hellas, comunità delle donne filippine in Grecia. Lei è arrivata ad Atene nella seconda metà degli anni ottanta. «Abbiamo pensato che fosse un nostro dovere civico rispondere ai bisogni di altre donne migranti» dice.
Molte delle donne e ragazze accolte dalle volontarie di Melissa sono arrivate in Grecia con la speranza di raggiungere i propri familiari in altri paesi europei, come la Germania o la Svezia, ma con la chiusura dei confini si sono ritrovate bloccate. Solo poche hanno diritto al ricongiungimento familiare e alla ricollocazione. Negli ultimi sei mesi del 2016, il centro ne ha accolte più di 300, provenienti da paesi come Siria, Iran, Afghanistan, Iraq e Congo.
Tranne alcune minorenni che hanno trovato delle famiglie disposte a ospitarle in casa propria, la maggior parte di queste donne vive nei campi profughi allestiti intorno alla città o negli immobili occupati da attivisti anarchici o di sinistra in vari quartieri della capitale greca.
Ad esempio c’è chi vive anche in stadi riconvertiti in campi profughi, come una giovane afghana incinta che non vuole dire il suo nome ma che ci mostra le foto dei lavori ai ferri che sta preparando per la sua bambina. Alcuni li ha appesi a una barriera di fil di ferro, altri li ha disposti per terra. Ha imparato a lavorare a maglia qui al centro e passa gran parte del tempo seduta a chiacchierare con alcune amiche, le mani che si muovono veloci.
Il fatto di vivere in luoghi in cui le condizioni sono tutt’altro che ottimali esercita una forte pressione su queste donne che hanno alle spalle duri viaggi, racconta Andrea, una delle psicologhe del centro. «In aggiunta, molte di loro si sono sposate presto e hanno più di un figlio piccolo – continua Andrea – e questo è un ulteriore stress nel momento in cui si rendono conto che non possono rispondere ai bisogni dei loro bambini, dar loro da mangiare o iscriverli a scuola».
Anche Hiba, siriana di diciannove anni, ha un figlio di due anni e mezzo di cui prendersi cura, e punta molto sulla possibilità di ottenere il ricongiungimento familiare con il marito, che al momento si trova in Germania, dove ha ottenuto lo status di rifugiato. Sono partiti insieme nel gennaio 2013, per poi fermarsi in Egitto per un paio di anni prima di riprendere il viaggio verso la Grecia.
Fa fatica a parlare della sua famiglia rimasta in Siria. Ha le spalle esili che tremano un poco mentre piange piano. In questo appartamento pieno di vita e di donne come lei riesce almeno a sentirsi al sicuro. «Per me qui è come una seconda casa», sussurra.
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