di Joshua Evangelista
Nell’aprile del 2015, l’Huffington Post aveva pubblicato un’inchiesta sui progetti di sviluppo della Banca mondiale nei paesi poveri e su come questi “lasciassero una scia di miseria nel mondo”. Condotta intersecando infografiche, video e foto, l’inchiesta si concentrava sull’impatto dei progetti della Banca mondiale sulle popolazioni di cinque paesi: Etiopia, India, Perù, Kosovo e Honduras.
Il progetto era parte di un’ampia indagine dell’International Consortium for Investigative Journalism (ICIJ) dal nome assai evocativo: Evicted and Abandoned. La tesi alla base del lavoro del team investigativo era che negli ultimi dieci anni i progetti finanziati dalla Banca mondiale avessero “fisicamente o economicamente costretto 3,4 milioni di persone ad abbandonare le proprie case, a perdere le proprie terre e a subire un danneggiamento dei propri mezzi di sussistenza”.
Coinvolgendo più di 50 giornalisti da 21 paesi, il progetto mirava a intersecare un network di reporter locali che fisicamente si erano recati tra le comunità colpite dagli effetti collaterali delle grandi opere, intervistando centinaia di persone; contemporaneamente un team di data journalists analizzava oltre seimila documenti di proprietà della Banca mondiale.
Attraverso la computazione di una mole così grande di documenti, tutti disponibili sul sito della Banca, l’ICIJ ha prodotto un database che finalmente è riuscito a misurare l’ampiezza del fenomeno dei dislocamenti forzati a causa dei progetti sponsorizzati dalla BM. Per elaborare il database, i giornalisti hanno dovuto esaminare manualmente più di 4000 file relativi a oltre 1,500 progetti.
In un’intervista rilasciata alla Columbia Journalism Review, Micheal Hudson, team manager per Evicted and Abandoned, ha spiegato che la Banca mondiale aveva sì “messo online molta informazione”, ma questi dati spesso “non hanno avuto un’archiviazione standardizzata, specialmente per quanto riguarda i nomi e i riferimenti delle persone colpite da questi progetti. Ci siamo dovuti leggere attentamente migliaia di report per carpire queste informazioni”.
Il risultato è un’indagine incredibile, in cui i lettori sono sfidati a vivere in prima persona l’inchiesta e a scovarne le potenziali storie nascoste non ancora analizzate dai giornalisti. Oltre ad apprezzare le eccezionali foto scattate in Kenya da Tony Karumba o i grafici interattivi che spiegano in che modo l’acqua di alcune riserve naturali del Perù sono state totalmente inquinate dall’industria mineraria finanziata dalla Banca mondiale, i lettori hanno la possibilità di vedere gli ingranaggi dell’inchiesta, capire cioè in che modo i numeri hanno preso vita e sono diventati una grande storia giornalistica. E quindi continuare a “interrogarli” anche quando il lavoro dei giornalisti è concluso.
Rendere i lettori protagonisti del processo di elaborazione delle informazioni (e non limitarsi a eccitarli con grafici interattivi, come è di tendenza oggi nella gran parte dei progetti in long form) è un requisito fondamentale per il data journalism contemporaneo. Secondo Alexander Howard della Columbia University, “due pratiche importanti meritano di diventare uno standard nel data journalism: spiegare la metodologia dietro le analisi, includendo i rimandi alle fonte e (se possibile) pubblicare i dati che hanno costituito l’inchiesta” [Howard, The Art and Science of Data Driven Journalism, 2014, Columbia Journalism School].
Quindi, per stabilire un rapporto onesto e coerente con i lettori finali, i giornalisti che si occupano di dati dovrebbero diventare “empowering intermediaries” [Stefan Baak, Datafication and empowerment: How the open data movement re-articulates notions of democracy, participation, and journalism in Big Data & Society, July–December 2015], intesi come analisti di dati in grado interpretarli (dovrebbero essere in grado di “maneggiare banche dati grandi e complesse e renderle accessibili agli altri”), renderli disponibili (“dovrebbero dare la possibilità al proprio pubblico di consultare i dati che hanno generato l’articolo”) e coinvolgenti (“dovrebbero coinvolgere attivamente i cittadini nelle questioni di rilevanza per la società”), in modo da avere “un rapporto di cooperazione con i propri pubblici” [Baak, 2015].
L’idea che i dati usati dai giornalisti debbano essere resi disponibili ai cittadini è stata sposata anche dalla responsabile dell’elaborazione del database di Evicted and Abandoned, Mar Cabra, nota ai più per aver coordinato il team mondiale che ha lavorato ai Panama Papers. Intervistata da Natalia Mazotte per Journalism in the Americas, Cabra ha spiegato in che modo l’ICIJ intende la relazione tra questi “empowering intermediaries” e i lettori: “Abbiamo analizzato i dati, ne abbiamo tratto storie giornalistiche e infine li abbiamo esposti al pubblico. Ora le persone possono cercare le loro proprie storie, che esse siano adatte per i media o meno. È iniziata una nuova stagione dei Panama Papers, in cui i cittadini sono diventati investigatori”.
Come ha detto il fondatore del World wide web Tim Barnes Lee, il futuro del giornalista sarà “mettere insieme i dati e possedere gli strumenti per analizzarli e capire cosa c’è di rilevante. E, in prospettiva, permettere alle persone di riuscire a vedere per davvero come si intersecano le questioni e cosa succede nel paese”.
Quest’importanza crescente che l’analisi dei dati sta avendo nei media non si limita a potenziare la consapevolezza dei cittadini. Sta anche spingendo verso una nuova concezione del rapporto tra i providers dei big data (governi, agenzie internazionali, etc.), i reporter e i cittadini. Quando l’ICIJ ha chiesto alla Banca mondiale di commentare l’indagine, questa “ha riconosciuto che i suoi registri sulle persone colpite negativamente dai progetti finanziati sono fortemente carenti” e il presidente Jim Yong Kim è stato costretto a dire pubblicamente “di aver incontrato enormi problemi nel modo in cui la banca gestisce i casi di dislocamento”.
Una nuova era di consapevolezza sull’importanza dei dati può nascere, ma non bisogna abbassare la guardia. Del resto nei progetti finanziati dalla Banca mondiale, e più in generale dalle grandi organizzazioni internazionali, la trasparenza è ben lontana dall’aver raggiunto un livello accettabile. Ne sa qualcosa il giornalista ivoriano Joseph Titi, che nel 2015 è stato arrestato in seguito alla pubblicazione di un articolo in cui parlava di riciclaggio e appropriazione indebita di denaro proveniente da un progetto congiunto di Fmi e Banca mondiale chiamato Heavily Indebted Poor Countries initiative.
La guerra per la democratizzazione dei dati è lunga e piena di intoppi, ma anche di piccole speranze. Ad esempio, nel 2015 la Banca mondiale ha finanziato nelle Filippine un corso per giornalisti e mediattivisti interessati a “produrre informazione di alta qualità fondata sull’analisi dei dati”.
Ma qui si apre un altro dibattito, parallelo ma non meno importante, su come giornalismo investigativo e organizzazioni internazionali o governative debbano interagire. In Svezia, ad esempio, ha fatto discutere l’ultimo progetto lanciato dalla Journalism Robotics Stockholm: alcuni giornalisti lavoreranno alla standardizzazione dei dati statali presenti sui siti delle varie autorità. Ufficialmente per facilitare il lavoro dei colleghi, ma di fatto lo stato ringrazia i giornalisti perché stanno “mettendo a posto” gli archivi nazionali. È questo il futuro del giornalismo investigativo?
Profilo dell'autore
- Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali
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