A più di venti anni dalla sua conclusione, il genocidio ruandese rimane una delle pagine più terribili della storia africana recente. Per offrire nuovi spunti di riflessione su questo tragico evento, oggi intervistiamo Giuseppe Carrieri, regista del documentario “Love songs for a genocide”, prodotto dalla Natia Docufilm. Il dott. Carrieri è documentarista e docente. Tra i suoi lavori più noti ricordiamo il pluripremiato “In utero Srebrenica”, vincitore di categoria al Bellaria Film Festival, e il recente docufilm “Questa terra sarà bellissima”.
Qual è stata la motivazione principale a girare questo documentario?
Un documentario, così come un film, si gira non tanto per capire, quanto per sentire. Sentire la presenza di ciò che non ci appartiene, sentire la vita che non saremo mai, sentire il mondo nella sua forma più diretta e concreta. Il tema del perdono, ancora prima di quello del genocidio, è un argomento evidentemente universale ma quello che volevo sentire era la sua dimensione più assoluta e plenaria: perdonare chi ti ha ucciso tutti, lasciarlo entrare a casa tua, sfiorargli le mani e ancora guardarsi. Come è possibile arrivare a tanto, dopo tutto? Come è realisticamente fattibile che chi ti ha disgraziatamente distrutto la vita possa avere ancora l’occasione di avere la tua attenzione? Volevo sentire la materia di un amore incomprensibile. Ed è per questo che sono partito verso il Ruanda.
Quali sono state le sfide principali nella realizzazione del documentario, sia di carattere tecnico che umano?
Fortunatamente non ho avuto grosse difficoltà tecniche nella realizzazione, anche perché la mia unità di produzione è essenziale, e quando si è essenziali, si è discreti. E con la discrezione si giunge dappertutto, anche muniti di videocamere. Da un punto di vista umano, la grande sfida riguarda sempre la qualità della comunicazione che tu allacci con i tuoi protagonisti: il nostro dialogo si è costruito attraverso le armi buone dei silenzi e degli sguardi. Probabilmente queste hanno fatto ancora meglio dell’interprete che era a nostra disposizione durante le riprese.
Il genocidio suscita ancora lo stesso effetto mediatico di anni fa? Col passare del tempo si è accresciuta la presa di coscienza verso questo (e simili drammi), oppure si è manifestato l’effetto contrario?
Non si acquisisce mai del tutto la consapevolezza dell’orrore commesso, dell’errore fatto; c’è una sorta di ripristino dei valori e delle relazioni, ma la malattia dell’odio è sempre in agguato, e come tale non si cura con trattati e belle parole. Sicuramente ora, in Ruanda, c’è una volontà di pace che copre tutto e che ha spinto la sua forza in nuovi termini di benessere e (apparente) serenità. Ma non posso pronunciarmi sul vero processo compiuto in tal senso da parte dei media. A me basta sapere che oggi nelle campagne i carnefici si inginocchiano dinanzi ai cadaveri che hanno fatto. Questa mi sembra già un’immagine eloquente per dirsi come stanno andando le cose negli ultimi anni di questo nuovo secolo.
Come giudica il ruolo della religione nella gestione del post-conflitto?
La religione istiga e, poi, seda. Ma non si commetta l’errore di ritenere tutto questo un “conflitto”, una “guerra”. Il genocidio è qualcosa che travalica queste espressioni, perché è parte di una strategia diversa, è una tattica del male che va scorporata da risvolti bellici. Il Ruanda è qualcosa d’oltre, di moderno, di ulteriore (rispetto a quello che può essere stata Srebrenica). Un conflitto si intende, ma nessuno stava capendo niente di quello che accadeva. La religione, oggi, è come un calmante che si assume senza prescrizione, una dose letale di speranza estrema e di indulgenza morbosa che va oltre l’amore consentito; è una sorta di isteria sana dove si ama tutti, sapendo che Dio è grande, ma in fondo senza comprendere fino in fondo quello a cui si crede. È un atto di integralismo inverso dove si offre solo bene, ma è un bene amaro, ingannevole, altrettanto malato. La religione istiga e seda, ma non per sempre.
Come mai, nel contesto ruandese, è stato così facile manipolare le etnie verso il conflitto?
La manipolazione avviene attraverso la superstizione che è diretta discendenza dell’ignoranza. Si estrapolano schegge da vetri spezzati e con quelle si affilano gli animi. Come in Bosnia-Erzegovina chi ti è vicino ti diventa d’un tratto nemico perché la differenza diventa minaccia. È la legge della follia umana che ha un solo inizio: l’inquieta infelicità dell’uomo che si aggrappa a tutto, a un cognome diverso come un naso storto, per esercitare anche solo per un attimo l’irresistibile fascino del predominio.
Intervista a cura di Giuliano Luongo (Direttore del Programma di ricerca “Africa” dell’IsAG; Docente di Politica Internazionale di Africa e MO, Univ. di Roma “Niccolò Cusano”; Cultore di Storia e Istituzioni dei Paesi Afro-asiatici, Univ. degli studi di Napoli “Federico II”)
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[…] L’intervista ha affrontato principalmente il tema della riconciliazione post-conflitto e del ruolo della religione in relazione alla tragedia. Il testo integrale è disponibile cliccando qui. […]