Una, nessuna, centomila: la lingua nei paesi dell’ex Jugoslavia

“La risposta alla domanda se la stessa lingua viene parlata in Bosnia-Erzegovina, Montenegro, Croazia e Serbia è affermativa”. Precisamente tale conclusione, più di tutte le altre contenute nella piuttosto breve Dichiarazione su un linguaggio comune, pubblicata alla fine del mese di marzo, ha scatenato una valanga di reazioni in molti dei paesi della ex-Jugoslavia.

La Dichiarazione è stata resa pubblica nel corso di una serie di conferenze tenute nell’ambito del progetto “Lingue e nazionalismi”, gestito e sponsorizzato congiuntamente da Krokodil, associazione organizzatrice di eventi culturali e letterari con sede a Belgrado, e dal ramo balcanico del tedesco Forum Civil Peace Service, che sponsorizza progetti di pace e riconciliazione in tutta la regione.

Poco dopo la sua pubblicazione, la Dichiarazione ha ricevuto il sostegno di più di 8.000 persone provenienti dai quattro paesi in questione; per lo più accademici, studiosi, giornalisti e operatori culturali. Coloro che promuovono la Dichiarazione e l’idea che la anima, ritengono che essa rappresenti il primo serio tentativo sulla strada verso la comprensione e la cooperazione tra i paesi che sono emersi dalla scissione della Jugoslavia.

Tuttavia il testo non ha ricevuto il sostegno né dei media mainstream né tanto meno dai politici nella regione e ha piuttosto scatenato un’ondata di reazioni nazionaliste da parte di coloro i quali sostengono il diritto dei popoli dei suddetti stati ad avere proprie lingue. Diritto che la Dichiarazione metterebbe quindi in discussione.

Dal 1954 in poi, la lingua usata in tutta la Jugoslavia era conosciuta come “serbo-croato” o “croato-serbo”. In seguito alla disgregazione della Federazione socialista, la nozione di linguaggio è diventata uno strumento politico ed ha continuato a giocare tale ruolo per anni.

I nazionalisti insistono sulla constatazione che i cittadini dei paesi di nuova costituzione parlano lingue diverse, e che hanno anche bisogno di interpreti, almeno nelle comunicazioni ufficiali; in passato sono stati fatti anche alcuni tentativi per tradurre libri e film. In alcuni casi, gli interpreti, il cui compito principale è quello di tradurre da una lingua all’altra, sono anche stati introdotti nelle istituzioni pubbliche. Ciò è accaduto in particolar modo in Bosnia-Erzegovina, lo stato più multietnico nella ex-Jugoslavia, dove le istituzioni ufficiali sono costrette ad avere tutto tradotto in bosniaco, serbo e croato.

Intervenendo nel corso del convegno “Lingue e nazionalismi” a Podgorica, Hanka Vajzovic, professoressa presso l’Università di Sarajevo, ha dipinto un quadro ironico delle differenze tra le lingue, che, secondo la sua visione, vengono spesso assurdamente tradotte tramite il ricorso a sinonimi che appaiono inutili, in quanto la versione originale è già di immediata comprensione per tutti gli interlocutori: “Per esempio, in conseguenza del riconoscimento di queste tre varianti, o lingue, la versione serba del testo nella “Gazzetta ufficiale” usa la parola “esecuzione (sprovođenje)”, la parola croata che viene utilizzata è “emanazione (provedba)”, e al fine di averne una terza, la versione bosniaca, che deve necessariamente quindi differire dalle precedenti, la bella e autoctona parola bosniaca che viene adotatta è “implementazione (implementacija)”.

Dopo che la dichiarazione è stata resa pubblica, un interprete in Bosnia-Erzegovina ha scritto sul suo profilo Facebook: “Sono molto felice quando il mio compito è quello di tradurre in bosniaco, serbo e croato, consentendomi di essere pagato il triplo per lo stesso lavoro”.

La politica del linguaggio

Nel caso in cui i politici hanno espresso il loro parere, sono stati altisonanti nella condanna della Dichiarazione, soprattutto in Croazia, che sta strenuamente cercando di dimostrare la sua estraneità da tutti nella regione. La presidente di questo paese, Kolinda Grabar-Kitarović, ha liquidato il dibattito sulle lingue, sostenendo che si tratta di “una cosa del tutto marginale che non dovrebbe nemmeno essere discussa. Quello di una sorta di linguaggio comune rappresentava un progetto politico morto insieme all’ex Jugoslavia, e non potrà mai risorgere”.

I politici serbi si sono astenuti dal rilasciare dichiarazioni, ma una serie di osservazioni sono apparse nei media mainstream in gran parte controllati dal partito al potere.

Un gruppo che ha esternato la propria reazione è stato il Comitato per la lingua serba, parte della Cooperativa Letteraria Serba (SLC), un’associazione il cui compito è quello della promozione e conservazione della cultura serba. Il Comitato ha deciso di non sostenere la dichiarazione, poichè, dal loro punto di vista, “il suo obiettivo è quello di negare scientificamente i fondamenti storici e lo stato attuale della lingua serba”.

Le reazioni alla Dichiarazione sulla lingua comune da parte dei linguisti della regione sono state di registro diverso, oscillando dalla totale disapprovazione al pieno sostegno. Milos Kovacevic, professore presso la Facoltà di Filologia di Belgrado e membro del Comitato per lingua serba della SLC, ha definito incompetenti coloro i quali hanno fornito il loro contributo per la sua stesura, e, pertanto, il loro lavoro dovrebbe essere ignorato dai linguisti.

In una dichiarazione rilasciata ai media, Kovacevic ha accusato gli autori della Dichiarazione di aver “scoperto l’acqua calda” su questioni in merito alle quali esiste unanime accordo. Il Comitato concorda sul fatto che tutti i popoli della regione parlano la stessa lingua, suggerendo che, “storicamente e scientificamente”, la lingua dei serbi è chiamata Serbo, mentre la lingua letteraria dei croati, bosniaci e montenegrini dovrebbe essere chiamata Croato-serbo, Bosniaco-serbo, o Serbo-Montenegrino. “Dal momento che solo la lingua serba ha fondamenta linguisticamente giustificate, le sue varianti rappresentano linguaggi politici”, ha spiegato Kovacevic.

Il professor Enver Kazaz, della Facoltà di Filosofia di Sarajevo, è uno degli autori e firmatari della Dichiarazione. Kazaz fa notare che, contrariamente alle preoccupazioni espresse da Kovacevic e dal Comitato serbo, gli autori della Dichiarazione non avevano alcuna intenzione di minare il valore simbolico della lingua standard, piuttosto l’esatto contrario: “La dichiarazione sottolinea che le differenze vengono costruite sulla base degli standard esistenti attraverso termini ideologici rigidi, e cerca la liberalizzazione delle norme ortografiche”.

“Questo implica l’abolizione di ogni possibilità di illusioni egemoniche della lingua serbo-croata, o di quelle illusioni che vogliono affermare il dominio di uno standard rispetto ad un altro. Le variazioni nella cornice di una lingua comune e policentrica, con il diritto di conferire loro un nome in conformità con i valori dei loro utilizzatori, non dovrebbero fungere quali rigidi confini ideologici tra identità collettive”.

Tuttavia Dzevad Jahic, professore di lingua bosniaca presso la Facoltà di Filosofia di Sarajevo, respinge totalmente l’idea di una lingua comune, sostenendo che è esistita, nel corso della storia, una lingua bosniaca distinta. Dopo l’ultima guerra, quando la lingua bosniaca è stata ufficialmente introdotta in Bosnia-Erzegovina, Jahic è stato autore del primo dizionario di lingua, un volume ritenuto molto controverso da alcuni linguisti e settori del pubblico, i quali ritengono che egli abbia incluso un certo numero di parole arcaiche esclusivamente per provare le sue convinzioni.

Jahic definisce la Dichiarazione sul linguaggio comune un esperimento che potrebbe avere luogo solo in Bosnia-Erzegovina. “L’accettazione dell’esistenza di un unico linguaggio andrebbe, ancora una volta, a scapito dello spazio statuale della Bosnia, a scapito di tutto ciò che è autentico in questo spazio”, dichiara Jahic, riferendosi al recente passato, quando, ai tempi della Jugoslavia, la lingua ufficiale veniva chiamata “serbo-croato”. “Se un popolo esiste, di certo ha la propria lingua, non la prende in prestito da nessuno. Su una base comune, le nostre lingue consentono la comprensione normale, ma un giusto diritto non può essere sottratto a quelle persone”.

Al contrario, il linguista di fama mondiale, Ranko Bugarski, nato a Sarajevo, ma residente a Belgrado, ha sostenuto che la Dichiarazione non rappresenta una minaccia per nessun gruppo o lingua nazionale. In un’intervista rilasciata alla rivista Vreme di Belgrado, Bugarski ha suggerito che gli unici ad essere potenzialmente minacciati dalla Dichiarazione sono “quei circoli politici e individui che hanno costruito il loro potere, la loro influenza, e le proprie carriere, a volte accademiche, su tali differenze”, e che quindi sono stati i primi a reagire.

Traduzione a cura di M.C.


Originariamente pubblicato su kosovotwopointzero.com


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