Così le lingue native resistono nel mondo di oggi

In una stanza dalle pareti bianche, un proiettore riflette due immagini: la prima raffigura una donna, immobilizzata da una corda, sotto una tenda; la seconda immortala la tenda vista dall’esterno. È il 2009, siamo al Western Front di Vancouver e stiamo guardando “mocikihtatan e-nehiyawiyak”, una performance e video installazione dell’artista cree e métis Cheryl L’Hirondelle, nata nella riserva indiana di Edmonton (Alberta, Canada). All’inizio la donna dondola lentamente al suono di un canto in lingua cree, e il dondolio appare come l’unica resistenza possibile. Dopo un po’, il corpo riacquista libertà. La voce della performer si unisce e si sovrappone alla registrazione, fino a sovrastarla, e i movimenti diventano più fluidi. Man mano che il tono si fa più intenso, le parole si trasformano in un grido di guerra, le mani si liberano della costrizione della fune. Prima una, poi l’altra. La cerimonia continua per altri cinque minuti e alla fine la donna sconfigge la violenza che la immobilizzava, ma, proprio mentre gode della fluidità riacquistata, un’altra corda, lanciata al lazo dal di fuori dell’inquadratura, torna a paralizzarle il collo. Mentre lei si contorce nel tentativo di liberarsi del giogo, la tenda crolla, rivelando l’impalcatura che la sorreggeva.

La lingua è una delle chiavi di lettura di questa performance che, non a caso, fa parte dell’esposizione virtuale “A small gathering for the Healing of our Aboriginal Languages”, un’ensemble di produzioni artistiche che manifestano un forte interesse verso la questione delle lingue indigene nel Nord America. La presenza del suono, così come l’elemento della voce che irrompe nello spazio della costrizione e sottende la cerimonia di liberazione, sono tracce che possono essere lette in quest’ottica: il giogo della fune ricalca la violenza dell’imperialismo linguistico e dell’appropriazione culturale a cui si contrappone la forza della memoria cree e la ricerca di una lingua in cui cantarla, in una dinamica di oppressione e resistenza.

Oppressione esercitata dagli stereotipi e dalle storie dette sugli indiani da etnografi ed esploratori; resistenza alla deportazione nell’inglese o nel francese, le lingue dell’altra fatte ingoiare nelle residential school, gli istituti dove gli indiani, fin da piccoli, venivano detribalizzati e occidentalizzati. Così, la subalterna, per riprendere una celebre espressione di Gayatri Spivak, si riappropria di uno spazio espressivo all’interno dei discorsi egemonici, interrompendo la sopraffazione con la contronarrazione del proprio corpo fluido e di un grido di resistenza: mentre i movimenti contrappuntistici lottano contro la repressione, la voce riacquistata la reinscrive nello spazio della narrazione.

Stavolta, però, le prospettive sono rovesciate. Lei non è più oggetto di una storia raccontata da altri. Lei è la sua stessa storia, che racconta attraverso il proprio canto e la performatività del corpo, affermando il diritto a ‘dire’ la sua memoria. Non a caso, rompere il silenzio, come rompere il giogo delle funi, è un’espressione utilizzata più volte dalle scrittrici indigene del Canada per parlare della necessità di sovvertire il regime di rappresentazione riappropriandosi del diritto a raccontare sé stesse e le proprie storie.

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Ma facciamo un passo indietro. Fin dai primi incontri con gli esploratori europei, inizialmente francesi, poi inglesi, le nazioni indigene in Nord America (e altrove) sono state oggetto dello sguardo antropologico occidentale, che ha preteso di osservarle con oggettività scientifica e di raccontare l’esotico col linguaggio della ‘trasparenza’. Al contrario, l’occhio ‘bianco’ ha finito per sovrapporre le proprie rappresentazioni alla realtà, e ha prodotto immagini stereotipate e narrazioni degli ‘indiani’ funzionali al consolidamento della propria egemonia.

Esiste, infatti, un nesso strategico che lega il potere, la rappresentazione e la lingua, che sia Michel Foucault (1977) che Stuart Hall (1997) hanno teorizzato nelle loro analisi e riflessioni sui regimi di verità e di rappresentazione. La costruzione orientalistica dell’Altro, come direbbe Edward Said (1978), vale a dire la rappresentazione dell’alterità forgiata dall’Europa, si consolidò in Canada nel corso del diciannovesimo secolo. Già a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, vale a dire poco prima del 1867, anno in cui il paese ottenne l’indipendenza e divenne un Dominion, la corona britannica aveva tentato di esercitare controllo sugli indiani al fine di consolidare il proprio potere coloniale attraverso leggi che stabilivano parametri di autenticità e costruivano legalmente il concetto di ‘indianità’. Nel 1850, ad esempio, l’Act for the Better Protection of the Lands and Property of Indians in Lower Canada per primo stabiliva che l’indianità, ovvero il grado di autenticità degli indiani, dovesse essere calcolata sulla base dei legami di sangue, mentre nel 1869, subito dopo l’indipendenza, il Lands and Enfranchisement Act sancì che “an Indian was no person of less than one-fourth Indian blood”.

L’importanza data al fattore “blood-quantum” rivela quanto il governo si preoccupasse di consolidare il proprio controllo sulle terre rendendo l’indianità un parametro rigido e difficile da dimostrare: chi infatti non riusciva a dimostrare la propria ‘autenticità’ non aveva diritto ad occupare i territori reclamati dalla propria nazione. Le politiche di governo hanno, dunque, agito come pratiche restrittive, creando il mito della purezza.

Nel 1876 il governo federale approvò l’Indian Act, il principale documento giuridico a ‘tutela’ degli indiani. Esso stabiliva che la discendenza sanguigna non fosse più sufficiente a decretare l’indianità: vi si aggiunsero, quindi, fattori relazionali quali, ad esempio, l’appartenenza a bande tribali. Lo status di indiani veniva riservato, per via diretta, solo agli uomini, mentre le donne potevano essere dichiarate indiane solo se mogli di uomini appartenenti a bande tribali. Restavano esclusi dalla possibilità di riconoscimento i cosiddetti eschimesi (inuit) e gli “half-breed” (poi riconosciuti come métis) vale a dire coloro che discendevano da matrimoni misti tra colonizzatori per lo più francesi e donne della nazione cree.

È stato solo nel 1982 con il Constitution Act che il governo federale ha modificato significativamente la regolamentazione dell’indianità, annoverando tra gli indiani presenti sul territorio anche gli inuit e i métis, mentre nel 1986 il Bill C-31, anche noto come An Act to Amend the Indian Act, è stato approvato dal parlamento, e ha abrogato le restrizioni imposte per il riconoscimento dello status. La questione è tuttavia ancora aperta e dibattuta, specialmente per quel che riguarda la sovranità sulle terre indigene.

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Se la macchina imperialistica ha ignorato la complessità delle culture e delle identità indigene del Canada, rimpiazzando tale complessità con rappresentazioni semplicistiche e stereotipate, quelle culture e quelle identità, colpite attraverso lunghi e articolati processi di assimilazione, hanno recentemente sviluppato strategie contro-discorsive volte a decostruire quelle stesse pratiche di subordinazione. Ne derivano autorappresentazioni che potrebbero essere definite ‘alterNative’, un termine inventato dallo scrittore e drammaturgo ojibwa Drew Hayden Taylor (2000), poiché interrogano il concetto di autenticità e mandano in cortocircuito i sistemi di rappresentazione, e postindiane, un concetto teorizzato dallo studioso Gerald Vizenor (1994). Per Vizenor, postindiane sono le autorappresentazioni che sfidano le pratiche discorsive e i sistemi di rappresentazione ‘antimoderni’, ovvero i simulacri eretti dal regime di potere.

Le narrazioni sono quindi lo spazio discorsivo in cui scrittrici e scrittori delle nazioni indigene sperimentano i linguaggi della postindianità nel tentativo di decostruire le rappresentazioni etnografiche e le invenzioni occidentali. Le scritture contro-discorsive delle scrittrici che seguono questo intervento ne costituiscono un esempio. Le loro narrazioni sono infatti funzionali al consolidamento di presenze indigene attive e indipendenti dalle varie simulazioni dell’indianità, poiché rimappano corpi e identità dalle loro prospettive indigene.

Riallacciandomi all’istallazione di L’Hirondelle, la lingua è il punto di partenza di queste narrazioni. Come si può raccontare la memoria culturale dopo il trauma in una lingua che per secoli è stata imposta come lingua del potere e nella quale quelle stesse culture, quelle stesse narrazioni sono state tradotte con violenza, fino all’asservimento e, talvolta, alla cancellazione? In Reinventing the Enemy’s Language (1997) Joy Harjo (muskogee) e Gloria Bird (spokane) affrontano la questione: se negli anni Settanta e Ottanta, assieme ai movimenti per l’affermazione dei diritti sociali e politici delle First Peoples del Nord America, sono nate campagne di sensibilizzazione al recupero delle lingue indigene (finanziate, poi, anche da alcuni fondi governativi), alcune scrittrici indigene contemporanee si stanno liberando del giogo dell’imperialismo linguistico sperimentando variazioni, ad esempio, del canadese ibridato con le loro lingue d’origine.

In questo modo, alle mappe che registrano le lingue indigene parlate in Canada, così come compaiono sulle pagine del sito web ufficiale del governo canadese dedicate alle First Nations, si sovrappongono altre mappe, non ancora cartografate; queste mappe sono sintomatiche di un processo di ricerca di lingue che non siano né quelle dei colonizzatori, né quelle parlate prima della colonizzazione, ma che conservino la memoria del trauma e del contatto linguistico e culturale, veicolando, al contempo, identità alterNative in transito, ancora in fase di negoziazione tra il passato e il futuro. La lingua materna, sulla soglia linguistica, è una pelle che si allarga e ingloba nuovi ambiti (Thüne 2006). Guardando indietro alla storia dell’imperialismo linguistico nel Canada anglofono, si intuisce che la ‘pelle linguistica’ è stata una pelle martoriata e lacerata, e che dunque il ritorno alle lingue tribali potrebbe non essere un ritorno semplice all’intimità idealizzata di una lingua immobile nel tempo.

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Al contrario, l’inglese e il canadese, da lingue di deportazione e di violenza nominativa, possono diventare strumenti di resistenza e di autotraduzione. Rifacendomi a una nota dichiarazione dello scrittore anglo-indiano Salman Rushdie, si parla spesso della condizione di vivere in traduzione tra due o più lingue e culture in termini di perdite e di mancanze, ma, sostiene lo scrittore, “I cling, obstinately, to the notion that something can also be gained” (1991:17); il guadagno, nel caso delle scrittrici indigene, è l’invenzione di altre variazioni, di codici nei quali riaffiorano, come tracce, le lingue indigene. Le nuove lingue sono gli emblemi delle culture indigene e delle memorie culturali di ciascuna nazione in lotta con il discorso egemonico occidentale linguistico e culturale di ieri e di oggi: le sperimentazioni linguistiche nella scrittura creativa trasformano la lingua dell’oggettivazione in una molteplicità di codici che sappiano rappresentare le culture della differenza. Proprio nella scrittura creativa la lingua del colonizzatore viene appropriata e trasformata per veicolare l’esperienza e la memoria delle culture a cui è stata imposta.

In questo senso, “reinventing can occur to undo some of the damage that colonization has brought” (Harjo 1997:24), tra cui il trauma della perdita delle lingue, dell’appropriazione della memoria culturale, e della violenza della nominazione. Le scrittrici delle nazioni indigene si spingono oltre il gap linguistico scavato dalla molteplicità delle lingue indigene, e strumentalizzano l’inglese o il canadese trasformandoli in veicoli per comunicare la propria unicità culturale e la comune esperienza del vivere in transito. Ne sono un esempio il “village English” della scrittrice métis Maria Campbell (1995), un codice inventato nello spazio dell’enunciazione attraverso un procedimento di traduzione dal michif (la lingua tradizionale dei métis), e che a livello grammaticale e lessicale, oltre ad incursioni del cree, non prevede la declinazione dei verbi e la distinzione tra pronomi personali maschili e femminili; o ancora il “Rez English” della scrittrice okanagan Jeannette Armstrong (1991), che allarga le trame della lingua imposta, creando uno spazio per accogliere la sua cultura. Nel nuovo codice le strutture grammaticali della prima lingua si sovrascrivono a quelle del canadese, mentre il ritmo dell’oralità okanagan scandisce l’andamento della narrazione.


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Profilo dell'autore

Anna Mongibello
Phd, è titolare di un assegno di ricerca presso l’Universitá di Napoli “L’Orientale”. I suoi interessi includono la lingua inglese e la variazione linguistica, la traduzione e la rappresentazione nei linguaggi delle news in Canada.
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