Molti dei valori che ispirano il cosiddetto “sogno americano” risalgono a molto prima dello sbarco dei Padri Pellegrini nel 1620. Quei valori sono propri dei popoli nativi del continente nordamericano, che spesso hanno costruito le loro società su condivisione e partecipazione.
Quando il presidente Barack Obama creò il DACA (Deferred Action for Childhood Arrivals) – il programma del 2012 che offriva un percorso di integrazione ai giovani senza documenti arrivati negli States da bambini – sembravano realizzarsi, almeno per questo gruppo, gli ideali del sogno americano.
Questi bambini (molti dei quali adesso diventati adulti) sono stati chiamati “Dreamers”, perché inseguono il sogno americano: l’aspirazione nazionale ad una crescente mobilità economica costruita sulla mobilità fisica. Realizzare i propri sogni significa spesso inseguirli dovunque possano condurre, persino in un altro paese.
La decisione dell’amministrazione Trump di cancellare il DACA e costruire un muro lungo il confine tra USA e Messico ha messo in pericolo questi sogni, portando 800mila giovani ad affrontare la deportazione.
Alla base della revoca del programma DACA e del progetto di costruzione del muro c’è una nozione che lascia trasparire un profondo fraintendimento della storia americana: l’idea che gli immigrati “illegali”, la maggior parte dei quali sono dal Messico, stiano rubando i lavori agli americani e dunque danneggiando la società.
Vale la pena sottolineare qualcosa che molti archeologi conoscono bene: molti dei valori che ispirano il sogno americano – libertà, uguaglianza e ricerca della felicità – risalgono a molto prima della creazione della frontiera tra USA e Messico e persino dell’arrivo dei Padri Pellegrini, gli immigrati in cerca di libertà giunti a Plymouth Rock nel 1620. Quei valori sono propri dei popoli nativi del continente nordamericano.
UN SOGNO NATIVO AMERICANO
La versione moderna del sogno americano risale al 1774, quando il governatore della Virginia, John Murray, il quarto conte di Dunmore, ha scritto che anche se gli americani dovessero “raggiungere il Paradiso, continuerebbero il proprio viaggio se sentissero parlare di un posto migliore ancora più ad ovest”.
Il termine “American Dream” è stato diffuso nel 1931 dall’uomo d’affari e storico James Truslow Adams. Per lui, la sua realizzazione dipendeva non solo dall’essere in grado di migliorare se stessi, ma anche, attraverso il movimento delle persone e la loro interazione, dal vedere anche il prossimo in una condizione migliore
Anche i primi popoli che arrivarono nelle Americhe erano alla ricerca di una vita migliore. E quanto accadde 14.000 anni fa, nell’ultima era glaciale, quando i pionieri nomadi, antenati dei moderni nativi americani e delle Prime Nazioni, arrivarono dal continente asiatico vagando liberamente in tutto ciò che ora comprende il Canada, gli Stati Uniti e il Messico. A caccia di mammut, bisonti e del proboscidato conosciuto come gonfoterio, si spostavano continuamente per garantire il benessere delle loro comunità.
Un esempio più recente del potere della migrazione è riapparso circa 5.000 anni fa, quando un grande gruppo di persone da quello che oggi è il Messico centrale si è diffuso nel sud-ovest americano ed anche più a nord, stabilendosi fino al Nord America occidentale. Hanno portato con sé il mais, che ora traina una parte significativa dell’economia americana, e un linguaggio che ha generato oltre 30 delle 169 lingue indigene contemporanee parlate ancora oggi negli Stati Uniti.
GLI Hohokam
Questa visione globalizzata del mondo era presente e diffusa anche 700 anni fa, quando individui provenienti da quello che è ora il nord dell’Arizona fuggirono da una siccità decennale e dal crescente autoritarismo dei capi religiosi. Molti migrarono a sud per centinaia di chilometri, fino all’Arizona meridionale, unendosi agli Hohokam (antenati delle moderne nazioni O’odham). Questi ultimi erano riusciti da molto tempo a impiantarsi nel duro deserto del Sonoran, rendendolo florido grazie all’irrigazione di ampi campi di agave, mais, squash, fagioli e cotone.
Quando i migranti settentrionali arrivarono in questa zona calda nei pressi della frontiera tra Usa e Messico, allora inesistente, la vita religiosa e politica degli Hohokam era controllata da un’élite ristretta. I meccanismi sociali per limitare l’accentramento del potere nelle mani di pochi individui erano lentamente giunti al collasso.
Per decenni dopo il loro arrivo, i migranti interagirono con le persone. Quello scambio ha portato una rivoluzione culturale degli Hohokam. Insieme, le due comunità hanno saputo creare un movimento sociale religioso composto da cittadini – che gli archeologi chiamano Salado – che prevedeva una festività a cui erano invitati tutti i membri del villaggio.
Dato che sempre più comunità avevano adottato questa tradizione ispirata all’equità, il potere politico – che allora era incorporato nel potere religioso – poté essere diffuso più equamente nella società. Le élite persero il loro controllo e, alla fine, abbandonarono i templi.
I mound-builders, gli egalitari d’america
La storia degli Hohokam evoca un altro ideale americano che ha origini nella storia indigena: l’uguaglianza. Molto prima che venisse codificato nella Dichiarazione di Indipendenza, il concetto di uguaglianza fu applicato attraverso la costruzione di grossi tumuli.
Strutture gigantesche in terracotta come queste, spesso sono realizzate da società altamente gerarchiche: pensate alle piramidi degli antichi egizi, tombe dei potenti faraoni costruite da masse di lavoratori, o a quelle degli inflessibili e imperialisti aztechi.
Ma il potere non sempre viene espresso dall’alto verso il basso. Poverty Point, nella valle bassa del Mississippi in quella che ora è la Louisiana, ne è un buon esempio. Questo imponente sito, costituito da cinque monti, sei creste semi-ellittiche concentriche e uno spiazzo centrale, fu costruito circa 4.000 anni fa da cacciatori-pescatori-raccoglitori con una gerarchia intrinseca pressoché inesistente.
Originariamente gli archeologi ritenevano che società del genere – in cui non c’era la disuguaglianza e l’autoritarismo che definivano gli antichi imperi egiziani, romani e aztechi – non avrebbero potuto costruire qualcosa di così significativo – e, nel caso, solo nel corso di decenni o secoli.
Ma gli scavi degli ultimi 20 anni hanno rivelato che grandi sezioni di Poverty Point in realtà sono state costruite in soli pochi mesi. Questi nativi americani si sono organizzati in gruppi per portare avanti progetti mastodontici lavorando come una vera e propria cooperativa, lasciando nel panorama americano una solida eredità di uguaglianza.
GLI Irochesi
Gli Haudenosaunee, o Irochesi, offrono un esempio più moderno di tali pratiche decisionali basate sul consenso.
Questi popoli – che hanno vissuto per centinaia di anni, se non migliaia, su entrambi i lati del fiume S. Lorenzo nell’odierna Ontario e nei Grandi Laghi – hanno costruito la loro società su accordi collettivi di lavoro.
Ostracizzavano le persone che mostravano un comportamento “egoistico”, e spesso donne e uomini lavoravano in grandi gruppi. Vivevano tutti insieme in casette condivise. Anche il potere veniva spostato continuamente, per evitare la formazione di gerarchie, e le decisioni venivano prese da coalizioni di gruppi familiari e comunità. Molte di queste pratiche politiche partecipative continuano fino ad oggi.
Gli Haudenosaunee erano alleati degli inglesi durante la rivoluzione americana del 1776, e dopo la guerra sono stati in gran parte cacciati dalla loro terra. Come molti altri popoli nativi, il sogno degli Haudenosaunee si è trasformato in un incubo fatto di invasione, malattie e genocidio perché i migranti europei seguivano il loro “sogno americano” basato sull’altrui esclusione.
I Nativi Americani a Standing Rock
La lunga storia indigena di rifiuto dell’autoritarismo continua ancora oggi. Basti pensare anche alla battaglia per la giustizia ambientale portata avanti nel 2016 a Standing Rock, in Sud Dakota.
Lì, un movimento di resistenza si è unito a un gruppo giovanile organizzato orizzontalmente che ha respinto il condotto petrolifero Dakota Access Pipeline.
Il movimento si è concentrato su una causa ambientale. In parte perché la natura è sacra ai Lakota (e a molte altre comunità indigene), ma anche perché spesso sono queste comunità a dover sopportare il peso delle decisioni sullo sviluppo economico e urbano. Questa è stata la lotta indigena del XXI secolo contro la repressione e a favore del vero “sogno americano”.
RIDEFINIRE IL SOGNO NORDAMERICANO
Gli antropologi e gli storici non hanno sempre riconosciuto gli ideali fondamentalmente appartenenti ai nativi americani presenti nel sogno americano.
All’inizio del XIX secolo l’illustre filosofo ed etnologo Lewis Henry Morgan aveva definito “selvaggi” i nativi americani che aveva studiato. Per secoli, i nativi americani hanno visto il loro patrimonio culturale essere attribuito praticamente a tutti, tranne che ai loro antenati – persino ad un mai esistito antenato “estinto” di razza bianca.
Il passato indigeno dell’America non è stato tutto rose e fiori. Ci sono state scaramucce secondarie, ma anche sanguinosi conflitti tra comunità e persino schiavitù (lungo la costa nordoccidentale e nel sud-est americano).
Ma gli ideali di libertà e uguaglianza – e il diritto che gli americani hanno di vagare in questo vasto continente per rivendicarli – sopravvivono nei millenni. Qui sono prosperate le società basate su questi valori.
Così la prossima volta che un politico invoca i valori americani per promuovere una politica di confini chiusi o un individualismo egoista, ricordiamoci chi ha originariamente abbracciato il sogno americano e per primo ha cercato di viverlo.
Profilo dell'autore
- Lewis Borck è archeologo presso la Leiden University e antropologo. D. Shane Miller è paletnologo presso la Mississippi State University, specializzato nella proto-colonizzazione del continente americano.