L’informazione mainstream italiana, spesso ancorata a rigide lenti ideologiche, tende a interpretare le proteste negli USA in modo partigiano e semplificato. Ecco quattro riflessioni fondamentali su cui dovrebbe poggiare la narrazione del fermento sociale che sta investendo gli States.
di Pina Piccolo
L’esigenza di scrivere queste riflessioni su quanto si muove negli USA nasce per me da un profondo senso di frustrazione rispetto alle varie narrazioni che se ne fanno in Italia, e non solo nei canali dei media mainstream. Una mia prima strategia per affrontare il problema è stata quella di diffondere tramite Facebook una gran quantità di articoli e riflessioni provenienti da fonti statunitensi, ma ho trovato che pure queste sono soggette a una lettura attraverso una lente ideologica prettamente italiana.
Riflettendo sul fatto che nelle prossime settimane e nei prossimi mesi è molto probabile che la situazione si evolva verso fasi diverse e di difficile interpretazione che sgorgano da questa prima scintilla e che, quindi, si presteranno a ulteriori travisamenti, credo che potrebbe essere utile da parte mia delineare certi aspetti che mancano nelle analisi messe in campo in Italia. Naturalmente non pretendo di essere esaustiva o di non prendere abbagli, ma penso che la mia lunga permanenza in quel paese e il mio contatto ininterrotto negli anni possa essere utile. Per facilitare un po’ le cose ho pensato di dividere queste riflessioni in quattro nuclei e di offrire nel testo i link a fonti statunitensi da cui prendo spunto.
1. La specificità delle “proteste per George Floyd”
Le proteste e le rivolte legate al linciaggio pubblico di George Floyd da parte della polizia di Minneapolis sono ormai in corso ininterrottamente da oltre due settimane su tutto il territorio statunitense, e hanno dato luogo a molte proteste di solidarietà su scala internazionale. Esse non sono l’ennesima reazione, forse un po’ più forte, alle uccisioni impunite di neri da parte della polizia, piuttosto segnalano un salto qualitativo nella lotta e nel livello di scontro negli USA. Segnano il punto di ebollizione non solo rispetto al razzismo e all’afrofobia, alla violenza e all’impunità che si manifesta in forma di brutalità poliziesca all’interno di un sistema altamente razzializzato, ma sono anche il risultato della confluenza di un certo numero di altri nodi che ne determinano la sua particolare forma rispetto a episodi di resistenza precedenti. Tra i fattori che confluiscono in questa lotta, i più importanti direi che sono:
a) la crisi del Covid-19, con la mancata risposta da parte del governo e il fatto che a pagarne le conseguenze in termini di più di 100,000 morti sono stati gli strati più vulnerabili della società (tra la popolazione nera vi è stato un decesso ogni 2000 persone, per un totale di circa 23-24,000 persone su 100,000 morti complessivi, mentre la popolazione nera si attesta sul 13,4% della popolazione statunitense);
b) la disoccupazione e le difficoltà economiche che sono conseguite al lockdown, con 40 milioni di nuovi disoccupati (il tasso più alto di disoccupazione dalla Grande Depressione) e sacrifici sempre a carico delle fasce già precarie e a fronte della maniera spudorata in cui ne hanno tratto guadagno le banche e le mega aziende, proseguendo così la tendenza ad allargare ulteriormente la forbice tra le classi;
c) la disaffezione di larghe fasce della popolazione nei confronti delle classi egemoniche che dagli anni ’70 del Novecento hanno perseguito politiche neoliberiste, a prescindere dalla loro appartenenza al partito democratico o repubblicano. Quella che Cornel West identifica come la delegittimazione di politici, professionisti, università e media. Le politiche neoliberiste hanno avuto come conseguenza la distruzione degli ammortizzatori sociali, delle infrastrutture, di qualsiasi istituzione ereditata dagli anni del New Deal o sorta come concessione delle lotte degli anni ’60 e ’70 del Novecento che potesse proteggere le diverse classi di lavoratori. Al posto di queste pur tenui protezioni, a partire da Reagan, seguito da Clinton senza soluzioni di continuità, si è proceduto alla criminalizzazione di larghe fasce della popolazione, particolarmente neri, nativi americani, ispanici, seguito poi negli ultimi anni dalla criminalizzazione degli immigrati e dei richiedenti asilo. Mentre il Paese si deindustrializzava e la produzione si spostava verso l’Asia, negli USA si costruiva, in varie fasi, una sorta di nuova economia, un impianto di criminalizzazione e militarizzazione, cospicuamente razzializzato, quello che viene definito the prison industrial complex, che comprende la militarizzazione della polizia che si è vista dispiegata in queste ultime rivolte. Il tutto naturalmente si staglia anche contro il quadro della situazione internazionale in cui l’impero americano perde quota, pur proseguendo le sue politiche predatorie e di devastazione a livello internazionale e militarizzando lo stesso paese al suo interno, come messo in evidenza da Cornel West nella tavola rotonda di cui sotto.
L’importanza della confluenza di tutti questi fattori per quanto riguarda le ultime rivolte viene sottolineata nella tavola rotonda organizzata da Amy Goodman il primo giugno 2020 per il programma radio Democracy Now, con interventi di Cornel West, Keeanga Yamahtta-Taylor e Bakari Sellers, attualmente tra i più importanti intellettuali, studiosi ed attivisti neri nel contesto statunitense.
2. La leadership delle rivolte e il ruolo della Generation Z
Un aspetto rilevante che è forse difficile decifrare per chi segue le vicende statunitensi da lontano è legato alla composizione, leadership e rivendicazioni delle rivolte. Seppure molte delle proteste siano spontanee, vi è un orientamento, un’organizzazione interna che si manifesta chiaramente nelle parole d’ordine, i bersagli e le modalità di resistenza, anche se poi vengono agite in una varietà di modi. Al momento, a dare continuità è lo spirito della leadership nera formatasi particolarmente dopo le ribellioni di Ferguson e la nascita di Black Lives Matter in piena epoca Obama, una leadership che evidenzia il protagonismo di giovani donne in gran parte formate dallo spirito di intersezionalità, considerato che a fondarla nel 2013 sono state tre giovani donne nere nate agli inizi degli anni ’80 (Alicia Garza, Patrisse Cullors e Opal Tometi). In queste ultime manifestazioni si è evidenziato anche il protagonismo delle più giovani, con manifestazioni di migliaia di persone organizzate da diciasettenni – per esempio a San Francisco (nel quartiere Mission e sul Golden Gate), a Nashville, a Chicago e anche in piccoli centri in tutti gli Stati Uniti.
Questo non dovrebbe stupirci visto anche come in anni recenti sono stati i giovanissimi a muoversi e a prendere iniziativa su questioni di violenza e sparatorie nelle scuole perfino a livello di scuole elementari (ad esempio Naomi Wadler). Sempre all’interno dell’idea di militanza giovanile non possiamo dimenticare il protagonismo in tutto il mondo di ragazzi molto giovani su questioni ambientali e di cambiamento climatico, il tutto con una partecipazione multirazziale negli USA.
A proposito della leadership femminile, un altro fattore non trascurabile è l’aumento di accesso all’istruzione di grado superiore delle donne nere che nel 2020 ha sorpassato quello di altri raggruppamenti demografici pur non garantendo grandi miglioramenti a livello di lavoro e retribuzione.
In una esercitazione militare di qualche anno fa, Il Pentagono aveva previsto per il 2025 l’entrata in scena di questa categoria, la Generation Z (che comprende i nati tra metà anni 1990 e metà anni 2010), e aveva quindi programmato vari scenari e cosa fare per domare le proteste che questo gruppo avrebbe senz’altro messo in campo. È interessante leggere le qualità che gli analisti del Pentagono attribuiscono a questa generazione, specialmente in relazione a quelle precedenti. Smentendo però le previsioni, questo indocile gruppo di giovani è arrivato sulle scene con ben cinque anni di anticipo, spiazzando un po’ chi di dovere.
Molti di loro provengono sia da esperienze di attivismo contro il razzismo che da iniziative per l’ambiente, contro le sparatorie nelle scuole, etc., e sono rodati in proteste caratterizzate da una partecipazione multirazziale e molto aperta su questioni di genere, cosa che le distingue da movimenti di resistenza precedenti. La Generation Z ha grande dimestichezza con la tecnologia (basti pensare alle manifestazioni descritte negli articoli in cui le organizzatrici si sono conosciute tramite Twitter e hanno usato quello strumento per organizzare), sono sicuri di essere tecnologicamente più preparati dei genitori e dei nonni (“OK, Boomer”). Per quanto riguarda i giovani neri, molti dei ragazzi e delle ragazze sono cresciuti all’epoca degli otto anni della presidenza Obama, per cui a livello di aspirazioni sembrava ci fosse maggiore spazio e legittimità identitaria. Sennonché già in quegli anni, e sicuramente in quelli successivi, la base materiale si è tutt’altro che adeguata alle loro aspettative, cioè, come prospettiva si sono trovati davanti da un lato hanno il prison industrial complex, un ulteriore deterioramento delle condizioni economiche, delle politiche degli alloggi che li vede sempre più marginalizzati a causa della gentrificazione, costretti a vivere in aree di grande inquinamento (basti pensare all’acqua avvelenata di piombo di Flint).
In tutto questo però non sono l’unico gruppo a risentire della morsa e degli effetti del neoliberismo, tutta la generazione, a prescindere dal colore della pelle, ha aspettative di vita minori di quelle della generazione dei genitori. In questi anni, sia per questioni domestiche che internazionali, gli USA si sono rivelati essere, come dice Cornel West nella tavola rotonda, “a failed social experiment” che è arrivato però adesso all a sua ora della verità. Sempre in relazione alle condizioni di vita, la studiosa Keeanga Yamahtta-Taylorparla della condizione di “death by despair” che affligge una grande fetta della popolazione e si esprime in suicidi, dipendenza da oppioidi (the opioid epidemic) e alcolismo.
3. Vari gradi di cooptazione esterna
Sebbene queste proteste segnino un punto di ebollizione, esiste anche la continuità con movimenti e fasi precedenti che tendevano a manifestarsi attorno ad argomenti singoli. Ad esempio, nelle ribellioni contro Trump organizzate subito dopo la sua elezione è stata messa in campo la questione di Antifa, che ora il governo cerca di manipolare per dividere i moderati e i manifestanti meno collaudati dai gruppi con una prospettiva più radicale, e seminare divisioni tra i partecipanti neri alle proteste e quelli bianchi insinuando che questi ultimi siano infiltrati, quindi attribuendo a loro i saccheggi di cui verranno sicuramente incolpati i neri e insistendo che le manifestazioni debbano limitarsi a cortei che non minaccino in alcun modo la proprietà privata. A questo proposito è esemplare un intervento di Tamika Mallory, tra le coordinatrici della Women’s March del 2017 e del 2019, che contestualizza in un sistema più ampio di capitalismo ed imperialismo le responsabilità del concetto di saccheggio e il fatto che focalizzarsi su di essi distoglie l’attenzione dal razzismo sistemico e dal suprematismo bianco che sono alla radice delle rivolte. Queste riprese realizzate la notte del 30 maggio a Minneapolis danno il senso della situazione e dei diversi punti di vista all’interno del movimento.
L’altro elemento che si fatica a inquadrare è l’attività dei gruppi di estremisti di destra e suprematisti bianchi in relazione alle manifestazioni. In questi quindici giorni, la loro presenza si è manifestata con una gamma di interventi che vanno dall’aggressione diretta a opera di singoli terroristi che cercano di investire e uccidere i manifestanti (per esempio a Seattle, come è già successo a Charlotsville in Virginia nel 2017 in una manifestazione contro i suprematisti bianchi di “Unite the Right”) o di ferirli perfino con archi e frecce, a interventi più subdoli mirati a minare la legittimità delle manifestazioni mettendo in atto saccheggi e distruzioni da far ricadere sui manifestanti. Si è notato una certa riluttanza da parte di commentatori di sinistra a voler riconoscere l’impatto di queste attività per timore che vadano a delegittimare i saccheggi come espressione lecita di rabbia dei manifestanti. Comunque la questione promette di assumere una certa importanza anche perché diventa sempre più esplicita da parte delle milizie e dei suprematisti bianchi la volontà di accelerare lo scontro per arrivare a una seconda guerra civile americana o ‘Boogaloo’, come viene definita da alcuni di essi.
Un altro elemento da tenere in considerazione è la vicinanza ai tempi delle elezioni presidenziali che potrebbe in un certo senso trascinare le istanze del movimento dentro il calderone. Appare abbastanza chiaro a questo punto che la vicepresidenza democratica dovrà andare a una donna nera e c’è chi caldeggia perfino Condoleezza Rice come la più adatta, nonostante la sua appartenenza allo schieramento repubblicano. Se si verificherà una congiuntura di questo tipo sarà davvero messa alla prova la connessione tra politica interna e politica estera, cosa che negli anni ’60 del Novecento aveva radicalizzato Martin Luther King nei suoi ultimi anni e che potrebbe provocare un ulteriore balzo di qualità del movimento in relazione al suo atteggiamento verso l’imperialismo americano.
L’altra faccia della medaglia naturalmente sono i tentativi di cooptazione del movimento a cui ambiscono i politici sia a livello nazionale che locale, specialmente quelli democratici ma anche repubblicani (basti pensare al distanziamento da Trump attuato da George W. Bush, Mitt Romney e Colin Powell con riconoscimento del valore delle manifestazioni) e che si esprimono in tentativi di ingraziarsi il movimento a livello simbolico. Basti pensare all’ostentazione dei pezzi di tessuto kente da parte dei politici democratici (mossa curiosamente suggerita dal Black Caucus del Congresso americano) e inginocchiamenti vari (scopiazzati perfino dai politici italiani), tutte manovre che finora hanno sortito l’effetto di fare scattare dall’altra parte la denuncia di ipocrisia.
4. I possibili sviluppi della crisi
In primo luogo, queste rivolte promettono di essere più di una fiammata ma a questo punto della crisi è difficile capire le prossime mosse, specialmente se si limiteranno ad azioni simboliche (ad esempio l’abbattimento di statue come abbiamo visto in questi ultimi giorni); se saranno condizionate dagli scontri e i confronti con la polizia che continuano a esserci su basi giornaliere per esempio anche adesso a Seattle, o se andranno ad intaccare la struttura profonda del razzismo strutturale e del neoliberismo in maniera più incisiva (qualche giorno fa Tamika Mallory accennava al fatto che le prossime azioni dovranno essere di accompagnamento al percorso giudiziario seguito dai vari casi, specialmente quello dell’omicidio di Breonna Taylor che è quello che ha ricevuto meno attenzione e simboleggia anche la posizione secondaria a cui sono stati relegati i casi di brutalità poliziesca relativi a donne). Tra le misure pratiche accampate come rivendicazioni vi è quella più moderata di riforma della polizia per eliminare l’impunità e garantire una maggiore trasparenza nelle assunzioni (si è chiarito nel corso degli anni che molti poliziotti appartengono a gruppi di estrema destra o di supremazia bianca). Ma per adesso prevalgono nel movimento le istanze più radicali che oscillano tra tagli ingenti alla polizia (defunding) e la sua abolizione completa a favore di politiche di controllo diretto da parte delle comunità. In tal caso i fondi allocati alla polizia (nelle grandi città un terzo del budget è destinato alla polizia con conseguente tagli ai servizi di prima necessità comprese scuole, sanità, infrastrutture) dovrebbero essere ridistribuiti in programmi volti a soddisfare le esigenze di base delle comunità che più ne necessitano.
Un altro possibile aggancio per l’evoluzione del movimento potrebbe essere la proposta lanciata da Al Sharpton, esponente molto noto della comunità nera e fondatore della National Action Network. Alla fine della cerimonia commemorativa di Minneapolis per George Floyd, Al Sharpton ha indetto una manifestazione nazionale contro il razzismo sistemico e per la giustizia sociale, davanti al Lincoln Memorial di Washinton il 28 agosto, data che riporta alla grande Marcia su Washington per il lavoro e la libertà indetta da Martin Luther King nel 1963, data incisa nella memoria storica del movimento contro il razzismo negli USA. È una proposta che richiama un modo più antico di fare politica rispetto alle nuove forze che abbiamo visto in campo, ma sarà interessante vedere se vi sarà una confluenza tra questi diversi filoni.
Profilo dell'autore
- Pina Piccolo è una traduttrice e insegnante italo-americana. Nata in California da immigrati calabresi, cresciuta in Italia, ritornata negli USA e vissuta lì per trentanni per riapprodare nuovamente in Italia, si considera bilingue e “multicultural”. Formatasi come italianista all’Università di Berkeley, ha svolto attività di promozione culturale in entrambi i paesi scrivendo saggi (negli Stati Uniti su Fo, Rame, Celati, di Ruscio) e organizzando iniziative (qui in Italia promuove l’opera della poetessa Shailja Patel). Negli ultimi anni ha pubblicato poesie e racconti che affrontano, tra altre cose, il tema del razzismo e della xenofobia, purtroppo di grande attualità a livello mondiale.