A poche centinaia di chilometri da Marrakech incontriamo i nomadi della tribù imazighen degli Ait Atta. Isolati dal resto del mondo, dimenticati dal governo di Rabat, vivono in territori non raggiungibili dalle auto, dormendo in tende realizzate con lana di cammello e pelo di capra. Un’associazione ha creato una scuola mobile per insegnare ai loro figli, muovendosi insieme a loro. Ma la battaglia più grande è contro i cambiamenti climatici.
Oggi il Marocco appare come un paese proiettato verso il futuro, che punta sull’innovazione agroalimentare, le energie rinnovabili, le infrastrutture e il settore automobilistico. In questo nuovo modello di sviluppo, fortemente voluto dal re Muhammad VI e sostenuto dal nuovo Governo guidato dal premier Aziz Akhannouch, il paese mira soprattutto a promuovere l’impiego dei giovani in settori chiave come agricoltura e turismo, oltre che a dare sostegno alle fasce più deboli della società.
Al di là delle ambizioni di questo piano di modernizzazione, la pandemia da Covid-19 ha evidenziato le sfide socioeconomiche che il Marocco non è stato ancora in grado di affrontare e in particolare le disuguaglianze sociali, le carenze del sistema scolastico e sanitario, il forte divario tra le zone urbane e rurali del paese e la povertà (secondo un rapporto pubblicato dall’HCP – Haut Commissariat au Plan, l’Alto Commissariato per la pianificazione – dalle Nazioni Unite e dalla Banca Mondiale, il tasso di povertà è passato dal 17,1% del 2019 al 19,87% nel 2020, con 1,058 milioni di nuovi poveri).
Sul piano economico il paese sta, infatti, vivendo la sua prima recessione dal 1995, causata dalla contrazione non solo della produzione, ma anche delle esportazioni; dal collasso del settore turistico (che rappresenta il 12% del PIL) e dalla siccità che ha duramente colpito il settore agricolo (che impiega circa il 40% della forza lavoro marocchina e rappresenta circa il 15% del PIL). Secondo la Banca Mondiale, nel 2020 si è registrata una contrazione della crescita del 6,3%. La riapertura dei confini, la diffusione della campagna di vaccinazione nella seconda metà del 2021 e le condizioni meteorologiche più favorevoli hanno dato un nuovo impulso all’economia ed hanno permesso al paese di chiudere il 2021 con crescita economica del 3,2%, ma con un prodotto interno lordo ancora con segno negativo al 5,9%. Ed è proprio in questi mesi di pandemia che è diventato evidente come il Marocco sia un paese a due velocità; se le grandi città continuano la loro corsa verso la modernizzazione, le zone rurali e montagnose restano dimenticate dalle politiche economiche del governo.
Una diversità in pericolo
Il Marocco è un paese che continua a fare i conti con la sua identità plurale – in particolare con la popolazione berbera, che costituisce la maggioranza della popolazione marocchina, fortemente ancorata alle proprie tradizioni e alla sua lingua. Sarebbe però più opportuno parlare di imazighen – “uomini liberi” in lingua tamazight –, termine con il quale si fa riferimento a quell’insieme di popoli di lingua tamazight che abitano i territori del Nord Africa e del Sahara conosciuti con la denominazione di Maghreb. Dopo secoli di arabizzazione, a partire dal 2001 si è assistito ai primi riconoscimenti della cultura amazigh e della sua lingua, tra cui la creazione dell’Istituto Reale della Cultura Amazigh in Marocco (IRCAM), l’avviamento del progetto pilota di insegnamento nelle scuole primarie pubbliche del tamazight, il riconoscimento – nel 2011, dopo gli avvenimenti della cosiddetta “Primavera araba” – da parte della Costituzione marocchina dell’esistenza della comunità amazigh e della sua lingua ed infine il riconoscimento nel 2019, da parte della Camera dei rappresentanti di Rabat, dello status ufficiale alla lingua tamazigh, accanto all’arabo.
Nonostante ciò, continuano i contrasti tra gli imazighen e il governo centrale. Del resto, re Mohamed VI appartiene alla dinastia alawide, una delle poche famiglie interamente di origine araba.
Anche in questo caso, le tensioni sono riconducibili alla forte la disuguaglianza economica causata da una distribuzione sbilanciata delle ricchezze, che ha provocato un aumento della povertà e della disoccupazione tra la popolazione amazigh. A poche centinaia di chilometri da Marrakech, tra l’Alto Atlante e lo Jbel Saghro, la catena montuosa con le sue caratteristiche vette di roccia basaltica, vive la tribù imazighen degli Ait Atta, alcuni dei quali conducono ancora una vita nomade. Solo una piccolissima parte della popolazione amazigh del Marocco conduce ancora oggi una vita nomade, poco più del 7 per diecimila secondo i dati dell’ultimo censimento (nel 2014 la popolazione nomade ammontava a 25.274, con un calo del 63% rispetto al precedente censimento del 2004).
Tradizionalmente gli Ait Atta vivevano in tenda, utilizzando ciò che la natura offriva loro, ed ogni anno con le loro mandrie compivano la transumanza. Fino a qualche decennio fa, la regione dell’Alto Atlante era abitata da centinaia di famiglie che, fedeli alle loro tradizioni secolari, ogni primavera si spostavano a dorso di muli e di cammelli dal loro territorio ancestrale – lo Jbel Saghro –, verso l’Alto Atlante, verso l’agdal, i pascoli d’altura.
Nell’ultimo ventennio, a causa della siccità e dell’aumento della desertificazione, il cibo per allevare gli animali è diventato più scarso e sempre più famiglie Ait Atta hanno rinunciato allo stile di vita nomade per spostarsi verso i centri abitati alla ricerca di un lavoro. Se da un lato ciò ha permesso agli Ait Atta di accedere più facilmente a servizi, come quello scolastico e sanitario, dall’altro sta portando alla perdita del loro patrimonio culturale e di tradizioni ancestrali. Questo stile di vita nomade rischia di scomparire in pochi anni, se il governo marocchino non metterà in atto progetti di sviluppo per affrontare gli impatti negativi del cambiamento climatico che minacciano la biodiversità ambientale e animale di questa regione (si sta già assistendo, infatti, ad una massiccia diminuzione del numero delle gazzelle e dei mufloni ed anche il numero degli sciacalli e delle volpi è sempre più limitato, minando l’equilibrio naturale di questo ecosistema).
Oggi, tra molte difficoltà, alcune famiglie di Ait Atta continuano a condurre il loro stile di vita nomade, perpetuando il loro patrimonio culturale e storico, specchio di una piena, seppur problematica, interazione fra uomo e natura. L’Association Nomade Saghro pour le développement, una ONG formata da imazighen Ait Atta che mira a migliorare le condizioni di vita delle famiglie nomadi e dei loro figli nelle montagne del Saghro, alla luce delle sfide poste dalla modernità e dal cambiamento climatico.
Per conoscere i progetti dell’associazione abbiamo contattato Mohamed Rachyd, giovane amazigh Ait Atta che vive tra Nkob, sua città natale, e Marrakech, dove lavora come guida turistica.
“Sebbene non conduco più una vita nomade – spiega Mohamed – e la mia famiglia ha una casa, continuiamo ad allevare molti animali: capre, pecore, conigli, polli. Il mio stile di vita continua ad essere quello di un nomade, profondamente legato alle tradizioni del mio popolo e al mio territorio, lo Jbel Saghro, dove torno ogni volta che posso. Con il mio tour operator, inoltre, propongo itinerari di turismo responsabile, nei quali coinvolgo anche le famiglie nomadi Ait Atta, la fine di far conoscere ai viaggiatori un Marocco autentico e di preservare lo stile di vita degli imazighen”.
Una transumanza succube dei cambiamenti climatici
Oggi sempre meno famiglie Ait Atta conducono una vita nomade, “solo 30-40 – precisa Mohamed – compiono la transumanza”. Vivono in totale isolamento, in tende realizzate in lana di cammello e pelo di capra, in territori non raggiungibili dalle auto in quanto privi di piste battute, senza elettricità, acqua corrente e rete telefonica. “Si muovono due volte all’anno. In inverno si spostano verso l’Atlante inferiore, mentre d’estate, quando l’area è molto secca a causa del surriscaldamento ambientale, e non vi è acqua nelle fonti ed erba per gli animali, salgono fino all’Alto Atlante”.
Un viaggio che inizia il 15 maggio e “dura circa due settimane, durante il quale si spostano a piedi, attraversando un terreno accidentato con salite e discese ripide, contando solo sull’aiuto dei muli e dei cammelli per raggiungere i pascoli d’altura”, dove vi resteranno circa quattro mesi, per poi tornare a Saghro, insieme ai loro greggi, prima del freddo dell’inverno. Si spostano verso quello che è conosciuto come agdal, i pascoli d’altura, il cui accesso è periodicamente e temporaneamente riconosciuto alle diverse tribù amazigh che li gestiscono in comune.
“Il diritto di accesso a questi pascoli viene riconosciuto, da centinaia di anni, agli Ait Atta. Un diritto riconosciuto anche dal governo, anche se spesso viene contestato da altre tribù o da coloro che abitano nei dintorni”.
I problemi più grandi che devono affrontare gli Ait Atta nomadi “sono legati soprattutto alla mancanza d’acqua, provocata da una sempre più diffusa siccità, a cui si aggiunge la difficoltà di accesso all’istruzione per i bambini e alle cure mediche, quando si ammalano o quando una donna è incinta. Le famiglie nomadi non hanno un’assicurazione sanitaria e devono pagare con i loro soldi le cure mediche”. Solo i dipendenti del settore pubblico e privato possono beneficiare della copertura medica, perciò milioni di persone, tra cui gli Ait Atta nomadi, non hanno copertura sanitaria.
Mohamed ci fa da tramite con il presidente dell’associazione, Ichou Ben Youssef, uno degli ultimi Ait Atta a praticare ancora la transumanza. Ichou, classe 1973, racconta di essere “in giro tutto il giorno per badare ai cammelli, dalle prime luci dell’alba fino al tramonto, quando li riporto al campo, prima che faccia buio. Sono stanco di muovermi sempre da un posto all’altro alla ricerca di cibo ed acqua; nonostante la mia sia una vita un po’ difficile, le mie giornate tra le montagne sono divertenti”.
Nuove generazioni e scuole mobili
“Spesso lascio il mio campo, sulle montagne del Saghro, per seguire i progetti dell’associazione a favore degli altri nomadi: li aiuto ad affrontare le difficoltà legate alla ricerca dell’acqua e della legna o alla gestione degli animali. Forse – aggiunge Ichou, che da sempre conduce una vita nomade – verrà un giorno in cui avrò una casa con accanto un posto per gli animali, dove poterli allevare e da cui ricavare un reddito. Ho cinque figli, il più grande ha ventisei anni e il più piccolo ha otto anni, tutti hanno frequentato le scuole. Vorrei, però, dare loro una possibilità per studiare, per avere una buona istruzione.”
In Marocco l’accesso all’istruzione tra i bambini nomadi, infatti, è ancora molto limitato, pari al 31,3% tra i bambini dai 7 ai 12 anni del 31,3% (rispetto al 94,5% a livello nazionale). Addirittura, secondo i dati del censimento del 2014 solo il 23,5% delle donne riesce a studiare. E in generale solo 2,7% della popolazione nomade frequenta l’università.
Uno dei progetti più importanti che sta portando avanti l’Association Nomade Saghro pour le développement, mi spiega Mohamed, è “la realizzazione di una scuola nomade, che rispetti la cultura nomade e che permetta ai bambini nomadi di avere le conoscenze per migliorare la loro vita e, in futuro, cambiare positivamente la comunità. Siamo ancora all’inizio del progetto, abbiamo dovuto superare diverse difficoltà, non è stato facile ottenere l’autorizzazione del Governo”. Una scuola mobile che permetta ai bambini nomadi di frequentare la scuola vicino alle loro famiglie, senza essere costretti a lasciare i genitori per recarsi nei centri abitati.
La realizzazione del campo scuola nomade, organizzato in tre tende, ha comportato il superamento di diversi ostacoli: serviva innanzitutto reperire delle tende impermeabili che potessero essere smontate facilmente e caricate sui muli o altri mezzi di trasporto per trasportarle in un altro luogo o durante la transumanza assieme alle famiglie. Bisognava, poi, trasportare ed installare i pannelli solari ed il serbatoio d’acqua che avrebbero fornito rispettivamente l’elettricità e l’acqua per la scuola. Infine, era necessario scegliere un luogo che fosse accessibile a tutte le famiglie nomadi, visto che alcune vivono separate dalle altre anche di decine di chilometri, perché vi sono poche fonti d’acqua e di cibo sufficienti al fabbisogno di più famiglie.
I primi di dicembre 2021, a bordo di fuoristrada, con la collaborazione di diverse associazioni e partner marocchini ed europei, sono stati trasportati da Nkob le sedie e i tavoli necessari per allestire la scuola nomade, fino al villaggio di Ddawaabid, punto di partenza per un fuoripista, percorribile solo a piedi e con i muli, e da qui a dorso dei muli è partita la carovana che ha trasportato i materiali fino alla località isolata di Tagragra, il luogo scelto per allestire la scuola nomade. Il progetto della scuola nomade ha dovuto superare anche un’ulteriore battuta d’arresto: trovare un’insegnante. Infatti, nonostante il Ministero abbia concesso l’autorizzazione alla realizzazione della scuola, si è riservato di verificare la fattibilità del progetto prima di inviare un insegnante pagato con fondi ministeriali. Nel dicembre 2021 un’insegnante donna, Mina, ha dato la sua disponibilità ad insegnare presso la scuola nomade, a 2300 metri d’altitudine, e a condurre una vita nomade, senza acqua, né elettricità. Il suo stipendio verrà pagato con fondi provenienti da donazioni, fino a quando il Ministero dell’Istruzione non deciderà di coprire i costi di gestione della scuola.
Mina, insegnante nel progetto di scuola nomade
La speranza dell’associazione è, che un domani, i bambini nomadi che studiano presso la scuola nomade possano anche loro ricevere aiuti finanziari al pari dei bambini che frequentano le scuole primarie nelle aree urbane. “L’associazione – racconta Mohamed – è composta da quattro membri giovani e tre anziani. Oltre ad Ichou che è il presidente, vi è un vicepresidente (Yidir, un giovane insegnante, che si occupa di tenere aggiornata la pagina Facebook dell’associazione), un cassiere (responsabile della gestione dei fondi) e Hamou, che lavora come guida turistica. Io all’interno dell’associazione non ho un ruolo di rilievo, sono piuttosto un consigliere, fornisco la mia opinione ed ho collaborato attivamente all’allestimento del campo scuola”. Grazie al suo tour operator a Marrakech, il Morocco Sahara Adventures, Mohamed ha avuto la possibilità incontrare diverse persone europee che vivono a Marrakech, tra cui Marie, di origine francese, e Shyam, che si occupa di turismo, oltre a partner stranieri ed associazioni che hanno contribuito attivamente alla realizzazione della scuola nomade.
“L’acqua è vita”
Il governo marocchino, infatti, non ha avviato progetti a sostegno delle famiglie nomadi Ait Atta: “Gli aiuti economici – precisa Mohamed – provengono quasi tutti dall’Europa, dall’Italia, dalla Francia, dalla Germania; così come i vestiti donati per superare il clima rigido, provengono dall’estero e da associazioni o persone residenti a Marrakech. Abbiamo, però, ricevuto degli aiuti da parte della Provincia [Zagora, ndr], per fronteggiare la carenza dell’acqua: ci hanno fornito quattro tonnellate di cemento, fondamentali per riparare le diverse fonti d’acqua nel Djbel Saghro”.
L’accesso all’acqua è infatti uno dei più grandi problemi che si trovano a fronteggiare le famiglie nomadi. Un proverbio amazigh recita “Aman Iman”, che letteralmente significa “l’acqua è vita”. “Se piove molto è un anno buono”, spiega Mohamed. “Se c’è acqua nelle fonti ed erba per gli animali possiamo rimanere più a lungo tra le montagne del Saghro, senza essere costretti a spostarci in continuazione alla ricerca di nuove zone dove far pascolare i greggi”. Quando l’acqua nei bacini dei pozzi si esaurisce, a causa della siccità, legata principalmente ai cambiamenti climatici, l’associazione si organizza con camion d’acqua e cisterne flessibili per portare l’acqua ai nomadi e i loro greggi.
Uno dei prossimi progetti è quello di “realizzare sei o sette fonti nelle montagne del Saghro per rendere più facile l’accesso all’acqua agli animali, oltre a fornire alle famiglie nomadi un piccolo serbatoio per raccogliere l’acqua necessaria per bere e cucinare.” Inoltre, l’associazione si sta impegnando anche a sensibilizzare ed educare gli abitanti di Nkob alla cura del loro ambiente, per preservarlo dall’inquinamento che minaccia gli alberi e le fonti d’acqua. “L’associazione ha partecipato ad una campagna contro l’abbandono dell’immondizia tra le strade di Nkob, che ha coinvolto anche i bambini nella raccolta di bottiglie e sacchetti di plastica”. Un’esperienza per rafforzare il loro legame con il proprio territorio e sviluppare il senso di appartenenza al proprio ambiente che, aggiunge Mohamed, “si è conclusa con un pranzo presso la mia guest house, la Berber Nomads Kasbah”.
Covid-19, una sfida nella sfida
In Marocco, grazie alla tempestiva chiusura delle frontiere nel 2020 e alla rapida campagna vaccinale lanciata a fine gennaio 2021, si è assistito ad un significativo contenimento dei contagi da Covid-19 rispetto ai vicini paesi europei. Secondo l’università americana John Hopkins, ad oggi i contagi sono circa 1.078.000 e oltre 15.000 i morti; inoltre, più del 63% della popolazione del Marocco (oltre 23 milioni di persone) ha già completato il ciclo vaccinale. Mohamed spiega che “come associazione, nei primi mesi della pandemia, abbiamo avuto il permesso, da parte del governo di andare direttamente tra le montagne del Saghro per informare i nomadi circa la pericolosità del virus. Insieme a noi sono venute anche delle donne per parlare con le donne nomadi e spiegare loro quello ciò che stava accadendo. Abbiamo anche fornito mascherine e gel disinfettante per le mani”. Le recenti chiusure dei confini, decise a fine novembre 2021 e tutt’ora in vigore, hanno comportato un azzeramento del turismo, che continua ad essere il settore più penalizzato. Secondo il Dipartimento degli studi e delle previsioni finanziarie (DEPF), le entrate del turismo nel solo mese di gennaio 2021 sono diminuite di 4,5 miliardi di dirham. Mohamed mi spiega che il turismo “è una fonte di reddito importante anche per le famiglie nomadi, che spesso vengono coinvolte direttamente negli itinerari di trekking. Zaid, ad esempio, è uno dei pochi nomadi Ait Atta che non si esprime esclusivamente in berbero, ma ha imparato molte espressioni in francese, e ciò gli permette di far conoscere ai viaggiatori le tradizioni secolari degli imazighen”. Ichou aggiunge che la chiusura dei confini ha portato ad una crisi diffusa: “I prezzi dei cibi sono sempre più alti. Inoltre, quando si vendono le pecore o le capre, queste non vengono pagate bene, non si riesce a ricavare un buon prezzo. A ciò si aggiunge anche la difficoltà di trasporto. Tutto sta diventando molto costoso”.
Dalle parole di Ichou traspaiono, nonostante il profondo amore per le sue tradizioni, anche i sacrifici di una vita divisa tra usanze secolari e modernità, alla ricerca di un equilibrio che permetta, a lui e alla sua famiglia, di preservare il ricco patrimonio socioculturale degli Ait Atta, gli ultimi imazighen nomadi del Marocco, senza che questo equilibrio sfoci in un’eccessiva chiusura che li emargini dalla realtà marocchina, in continua trasformazione.
Ichou, presidente dell’associazione Ziad, uno dei volontari dell’associazione Mohamed Rachyd Ichou e Mohamed insieme a un altro volontario
Fotografie gentilmente concesse dall’Association Nomade Saghro pour le développement.
Profilo dell'autore
- Blogger di origine napoletana ma con base in Friuli Venezia Giulia. Appassionata di viaggi e fotografia, scrive di turismo responsabile e sostenibile.
[…] ogni volta, che mi ritrovo a parlare con Mohamed (Rachyd), un amico, uno spirito libero, un giovane amazigh Ait Atta, che vive tra Nkob, sua città natale, situata nella provincia di Zagora, conosciuta anche come la […]