“Penso di aver assistito ad uno dei più straordinari spettacoli che chiunque abbia mai potuto vedere. Verso le 10 di stamattina stavo sbirciando sul parapetto quando ho visto un tedesco agitare le braccia e due di loro sono usciti dalle loro trincee e sono venuti verso i nostri. Stavamo per sparargli quando abbiamo visto che non avevano i fucili quindi uno dei nostri uomini è uscito per incontrarli e in circa due minuti il terreno tra le due linee di trincee era brulicante di uomini e ufficiali di entrambi i lati, che si stringevano le mani e si auguravano un felice Natale.“
—Alfred Dougan Chater, tenente inglese, da una lettera alla famiglia
Nelle fredde giornate del 24 e 25 dicembre 1914, si verificò un evento straordinario lungo il sanguinoso e fangoso Fronte Occidentale: un “cessate il fuoco” nato spontaneamente tra i soldati che, a poche decine di metri di distanza l’uno dall’altro, si trovavano immersi nella brutalità del conflitto.
Nonostante la pausa nelle ostilità non fosse universalmente osservata e non fosse stata autorizzata dai comandanti di entrambi gli schieramenti, lungo circa due terzi dei 48 chilometri del fronte controllati dalla Forza di Spedizione Britannica (BEF) si assistette a una temporanea sospensione del conflitto. I cannoni tacquero, e in molti settori del fronte, soldati tedeschi e alleati uscirono cautamente dalle loro trincee, attraversando la terra di nessuno che li separava per incontrare il proprio nemico.
Il contesto storico
Nell’estate del 1914, un’ondata di fervore patriottico e un senso di ottimismo irrealistico avevano spinto le nazioni europee verso il conflitto, con la diffusa convinzione che la guerra sarebbe stata breve e decisiva, terminando “entro Natale”. Questo entusiasmo si scontrò presto con la dura realtà del conflitto moderno. In pochi mesi, il bilancio delle vittime si era già alzato a centinaia di migliaia, a seguito di battaglie estremamente sanguinose. L’avanzata tedesca, parte del piano Schlieffen che mirava a un rapido successo su due fronti, fu arrestata in modo decisivo lungo il fiume Marna in Francia, segnando il fallimento della Germania di ottenere una vittoria veloce sulla Triple Entente.
La conseguente “corsa al mare” vide tedeschi e Alleati cercare di superarsi a vicenda in un tentativo disperato di accerchiare l’avversario, culminando nella Prima Battaglia di Ypres. Questa serie di manovre frenetiche si concluse con uno stallo strategico, con entrambe le parti che scavavano trincee da cui non si sarebbero mosse sostanzialmente per i successivi quattro anni. Il fronte così stabilito si estendeva per oltre 700 chilometri, dalla Svizzera fino al Mare del Nord, segnando l’inizio di una guerra di posizione e logoramento che avrebbe condotto il Fronte Occidentale nella sezione più ignominiosa dei libri di Storia.
Già nel dicembre del 1914, la guerra di trincea era diventata la norma, con soldati di entrambe le parti che vivevano in condizioni miserabili. Le settimane di pioggia incessante avevano trasformato il paesaggio in un mare di fango, rendendo la vita quotidiana nelle trincee una lotta continua contro il freddo, l’umidità e i parassiti. Le trincee, spesso allagate e collegate da una rete di camminamenti, diventarono la prima linea di una guerra statica, dove la vicinanza fisica al nemico era talvolta inferiore ai 50 metri, ma ideologicamente e strategicamente erano mondi a parte.
I soldati tedeschi, soprannominati “Fritz”, si trovarono a combattere contro i “Tommies” britannici e i “Poilus” francesi in una logorante lotta per il controllo di minuscoli lembi di terra. Questa battaglia incessante per avanzare attraverso campi disseminati di filo spinato e trincee profondamente fortificate costò la vita a migliaia di uomini, in un ciclo continuo di assalti e controffensive che spesso si risolvevano nel guadagno o nella perdita di pochi metri di terreno.
Le strategie belliche dell’epoca, caratterizzate dall’uso massiccio di artiglieria, gas tossici e assalti frontali, si scontrarono con le realtà del combattimento moderno, rendendo ogni avanzata estremamente costosa in termini di vite umane. Le forze in campo si ritrovarono intrappolate in una guerra di posizione, dove il valore strategico di ogni metro di terreno era misurato non solo in termini militari ma anche nel sangue dei soldati che cadevano cercando di conquistarlo.
Nonostante gli enormi sacrifici, le aree contese spesso cambiavano mano più volte, con il filo spinato e le fortificazioni distrutte dai bombardamenti che dovevano essere ripristinate dopo ogni assalto. Questo ciclo infinito di conquista e perdita evidenziò l’assurdità e la brutalità della guerra di trincea, in cui l’obiettivo di ottenere un vantaggio territoriale significativo non reggeva il confronto con la dura realtà di una guerra statica, caratterizzata da un terribile stallo e da perdite umane devastanti su entrambi i fronti.
Soprattutto la regione di Ypres, in Belgio, fu teatro di alcune delle battaglie più cruente dei primi mesi di guerra. Villaggi come Saint-Yvon, Comines e Ploegsteert furono sottoposti a bombardamenti incessanti che lasciarono il paesaggio irriconoscibile.
“Immagina un’ampia fascia larga una quindicina di chilometri letteralmente cosparsa di cadaveri, in cui fattorie, villaggi e cascinali sono mucchi informi di macerie annerite. Sarà una lunga guerra, nonostante che dall’una e dall’altra parte ogni singolo uomo desideri che cessi all’istante”. Così scriveva il maggiore Valentine Fleming, ufficiale britannico e parlamentare conservatore, in una lettera al suo amico e collega Winston Churchill, futuro primo ministro britannico. Il quale, a sua volta, scrive a sua moglie: “Che cosa succederebbe se gli eserciti improvvisamente e simultaneamente incrociassero le braccia e dicessero che occorre trovare qualche altro modo per dirimere la questione?”.
La speranza personale del giovane Winston rivelava il diffuso bisogno di una tregua. Il ben più solenne invito di Papa Benedetto XV, che aveva invocato una pausa nelle ostilità in occasione del Natale, ne è testimonianza. “I cannoni possano tacere almeno nella notte in cui gli angeli cantano”, scriveva il Pontefice il 7 dicembre ai governi delle potenze belligeranti. Il rifiuto ufficiale di tale proposta da parte dei comandi militari non impedì alla vicenda di assumere dei tratti da romanzo.
Vivere e lasciar vivere
Con l’inoltrarsi dell’inverno, la pioggia incessante si trasformò in neve e il Kaiser tedesco Guglielmo II inviò alle proprie truppe alberi di Natale, per provare a rafforzarne il morale. La notte del 23 dicembre, i tedeschi addobbarono i tannenbäume e intonarono il celebre canto “Stille Nacht, heilige Nacht” dell’austriaco Joseph Mohr (la cui melodia è penetrata in Italia vent’anni dopo, con il componimento “Astro del ciel” a cura del bergamasco Angelo Meli). Quelle note solenni si levarono nell’aria fredda della notte, attraversando il desolato spazio della terra di nessuno fino a raggiungere le trincee nemiche. A sorpresa, i soldati britannici risposero con i propri inni natalizi.
L’indomani, degli ufficiali britannici di grado inferiore adottarono la politica del “vivere e lasciar vivere”, incoraggiando i soldati a esercitare la massima moderazione nel fuoco, a meno che non fossero direttamente sotto attacco. Le decisioni di adottare questa politica erano prese sul campo senza alcuna autorizzazione ufficiale, basandosi su un senso pratico di empatia e pragmatismo. In molti settori, specialmente quelli meno attivi del fronte, questa strategia permise di ridurre le perdite e di mantenere un equilibrio precario tra il dovere militare e il desiderio di preservare la vita umana.
Dall’altra parte del fronte, alcuni soldati tedeschi illuminarono il bordo delle loro trincee con delle decorazioni natalizie improvvisate, costituite probabilmente da candele o lanterne.
“Quando addobbammo gli alberi e accendemmo le candele, dall’altra parte giunsero fischi di gioia e applausi. Poi cantammo tutti insieme”, racconterà poi il soldato tedesco Kurt Zehmisch citato nel libro Silent Night: the story of the World War I Christmas Truce dello storico americano Stanley Weintraub, che nel corso degli anni Ottanta ricostruì i contorni di questa straordinaria storia.
La presenza inaspettata di quelle luci attirò l’attenzione dei nemici, tra cui una vedetta inglese: “Mentre osservavo il campo, i miei occhi hanno colto un bagliore nell’oscurità. A quell’ora della notte una luce nella trincea nemica è una cosa così rara che ho passato la voce”, annotò la vedetta nel suo diario. “Non avevo ancora finito che lungo tutta la linea tedesca si è accesa una luce dopo l’altra”.
Ma fu la mattina del giorno di Natale che, rompendo ogni protocollo militare, i tedeschi uscirono dalle loro trincee. Il fatto che i britannici rispondessero in modo simile, emergendo dalle loro posizioni per incontrarsi nella terra di nessuno, fu un atto di fiducia reciproca eccezionale. Soldati di entrambi gli schieramenti si strinsero la mano guardandosi negli occhi, scambiandosi in dono cibo, liquori, tabacco, cioccolata, cappelli e distintivi, riconoscimento implicito dell’umanità condivisa. Uno degli impegni più solenni e diffusi fu l’organizzazione di cerimonie congiunte per onorare e seppellire i caduti, un gesto che sottolineava un senso di rispetto e dignità comuni oltre le divisioni belliche. Le cerimonie funebri congiunte si svolsero principalmente nella terra di nessuno: quella striscia di terreno contesa, che tipicamente costituiva il pericolo più immediato e rappresentava la separazione fisica tra nemici, era diventata terra di socialità e fraternizzazione.
Anche il capitano Bruce Bairnsfather, un ufficiale britannico che, oltre ai suoi doveri militari, era già ampiamente riconosciuto come un talentuoso fumettista e caricaturista, abbandonò momentaneamente il ruolo di soldato per avvicinarsi ai nemici. Era la prima volta che li vedeva così da vicino. La scena era assurda. Alcuni soldati si scambiarono addirittura elmetti e cappelli, oggetti personali che, in altre circostanze, avrebbero rappresentato trofei di guerra. Lo stesso Bairnsfather decise di sfilare un bottone dal proprio cappotto, scambiandolo con quello di un ufficiale tedesco. Accanto a lui, un mitragliere britannico si offrì di tagliare i capelli a un soldato tedesco; nella vita civile esercitava la professione di barbiere, e quello gli pareva il modo migliore per celebrare la ritrovata, seppur caduca, normalità. “Questi se ne stava pazientemente inginocchiato per terra”, scrive Bairnsfather, “mentre la macchinetta gli rapava la nuca”.
Questo intervallo di tregua offrì ai combattenti un vitale sollievo psicologico, un momento di respiro nel mezzo della brutalità incessante del conflitto. L’importanza della tregua non risiedeva solo nel temporaneo allentamento delle ostilità, ma anche e soprattutto nella profonda trasformazione della percezione del nemico. Invece di confrontarsi con figure anonime da colpire a distanza, i soldati ebbero l’opportunità di incontrare gli avversari faccia a faccia, riconoscendovi non solo la propria immagine riflessa in termini di vulnerabilità e desiderio di sopravvivenza, ma anche la condivisione di sogni, speranze e l’ansia per le famiglie lasciate a casa. Questa presa di coscienza mutò radicalmente il modo in cui i soldati vedevano l’altro, trasformando il nemico in un compagno di sofferenze, in un individuo con cui condividere, per quanto breve, un sentimento di solidarietà forgiato dalla comune condizione umana.
Questione di affinità
Le dinamiche linguistiche e culturali giocarono un ruolo cruciale nel facilitare la comunicazione e l’interazione tra i soldati britannici e tedeschi. Mentre i soldati britannici che parlavano tedesco erano relativamente pochi, molti tedeschi avevano avuto esperienze lavorative in Gran Bretagna prima dello scoppio della guerra. Questo background comune abbatté in parte le barriere linguistiche e culturali, consentendo un dialogo più diretto e personale tra i due schieramenti.
Le truppe del regno di Sassonia, parte dell’Impero tedesco, ebbero particolare importanza nell’instaurare questo inedito dialogo. I sassoni, che i soldati britannici percepivano essere di indole amichevole e affabile, furono tra i principali promotori della tregua. Il successo di questi momenti di fraternizzazione fu particolarmente evidente nelle zone dove i reparti britannici si trovavano a confronto diretto con i reggimenti sassoni. Questa affinità reciproca e la conseguente facilità di comunicazione contribuirono a creare un’atmosfera di fiducia e collaborazione, rendendo queste aree teatro di alcuni degli esempi più significativi di solidarietà e tregua.
Al contrario, nelle zone del fronte sotto controllo francese, la tregua trovò minor terreno fertile. La memoria delle invasioni tedesche in vasti tratti del territorio francese nel corso del 1914 aveva lasciato un segno profondo, alimentando un sentimento di animosità e rancore che rendeva più difficile qualsiasi apertura verso gesti di tregua e fraternizzazione. La situazione era ulteriormente complicata dalla differente percezione della guerra e dalle tensioni nazionali preesistenti.
Sul Fronte Orientale, invece, la possibilità di una tregua simile fu ancora meno concreta, in parte a causa delle differenze nel calendario liturgico. La Russia, che seguiva ancora il calendario giuliano, avrebbe celebrato il Natale ortodosso solo all’inizio di gennaio, creando un disallineamento con le tradizioni natalizie osservate dai soldati sui fronti occidentali.
La partita che interruppe la guerra
Uno degli episodi più simbolici della tregua è rappresentato dalla partita di calcio disputata proprio il 25 dicembre 1914 nella desolata terra di nessuno che separava i due labili confini di filo spinato nei dintorni di Ypres. Nonostante la mancanza di un campo da gioco adeguato e l’assenza di qualsiasi equipaggiamento sportivo, i soldati improvvisarono dei palloni con stracci pieni di sabbia e legati con spago, e delimitarono le porte con pile di cappotti.
Furono diverse le partite di calcio disputate quel giorno, ma l’incontro più documentato (e più emblematico) fu quello giocato tra le truppe inglesi del reggimento Scottish Seaforth Highlanders e quelle tedesche del Reggimento sassone. La vittoria fu dei tedeschi per 3 a 2.
Il rotolare di quegli stracci nella “No man’s land” è stato colto con struggente maestria dall’artista inglese Mike Harding nella sua canzone “Christmas 1914”. Questo singolo, ormai parte del repertorio folk britannico, evoca l’intensità emotiva e la profonda umanità di quel giorno storico, quando i soldati poggiarono fucili e bombe per condividere momenti di gioia e spensieratezza, offrendo una riflessione sulla follia della guerra e sull’universale desiderio (e bisogno) di pace.
Ne riportiamo alcuni versi in traduzione non ufficiale, ma consigliamo la lettura integrale del testo originale:
Alcuni pensavano alle loro famiglie,
Alcuni cantavano canzoni mentre altri stavano in silenzio
Arrotolando sigarette e giocando a carte,
Per trascorrere quella notte di Natale.
Ma mentre osservavano le trincee tedesche
Qualcosa si mosse nella Terra di Nessuno
E attraverso l’oscurità venne un soldato
Portando una bandiera bianca in mano.Allora da entrambi i lati gli uomini corsero,
Attraversando nella Terra di Nessuno,
Attraverso il filo spinato, il fango e i crateri di granate,
Timidamente si fermarono lì a stringersi le mani.
Fritz tirò fuori sigari e brandy,
Tommy portò carne in scatola e sigarette,
Stettero lì a parlare, cantare, ridere,
Mentre la luna brillava sulla Terra di Nessuno.Il giorno di Natale tutti giocammo a calcio
Nel fango della Terra di Nessuno;
Tommy portò del pudding natalizio,
Fritz tirò fuori una banda tedesca.
Quando ci batterono a calcio
Condividemmo tutto il cibo e la bevanda
E Fritz mi mostrò una foto sbiadita
Di una ragazza dai capelli scuri a Berlino.
Centinaia di lettere
È d’obbligo contestualizzare questi episodi, in quanto appunto limitati a specifici settori del Fronte Occidentale e non universalmente osservati. L’eccezionalità del fenomeno, però, diede voce al desiderio condiviso di pace e normalità tra i soldati, tragicamente provati dalle asperità della guerra e dall’inospitalità delle trincee.
La vasta corrispondenza inviata dai soldati al fronte alle loro famiglie in patria conferma la profondità e la portata storica di questi eventi. Le lettere, giunte a centinaia nelle case inglesi e tedesche, trasportavano racconti di un’esperienza al confine tra il surreale e il miracoloso. “Provate soltanto a pensare che mentre voi eravate a tavola a mangiare un tacchino”, raccontava ai suoi cari un fuciliere britannico, “io stavo parlando e stringendo le mani agli stessi uomini che solo qualche ora prima tentavo di uccidere”. “Questo odio”, registra nei propri appunti un altro soldato inglese, “tutto questo spararsi a vicenda che è andato crescendo dall’inizio della guerra, si è spento e si è fermato a causa del Natale”.
In una nota inviata alla propria famiglia, il tenente Alfred Dougan Chater descrisse vividamente l’esperienza vissuta, offrendo uno sguardo intimo e dettagliato sull’atmosfera incredibilmente umana di quel giorno: “Penso di aver assistito ad uno dei più straordinari spettacoli che chiunque abbia mai potuto vedere. Verso le 10 di stamattina stavo sbirciando sul parapetto quando ho visto un tedesco agitare le braccia e due di loro sono usciti dalle loro trincee e sono venuti verso i nostri. Stavamo per sparargli quando abbiamo visto che non avevano i fucili quindi uno dei nostri uomini è uscito per incontrarli e in circa due minuti il terreno tra le due linee di trincee era brulicante di uomini e ufficiali di entrambi i lati, che si stringevano le mani e si auguravano un felice Natale. Da quello che ho intuito la maggior parte di loro sarebbe ben felice di tornare a casa, come noi del resto. Per tutta la giornata nessuno ha sparato un colpo”.
Prima che venisse imposta la censura sulle corrispondenze, i soldati britannici condividevano liberamente nelle loro lettere di casa dettagli sulle partite di calcio giocate e sul cibo e le bevande condivise con quelli che fino al giorno precedente erano considerati i loro nemici mortali. Queste narrazioni rivelano l’incredulità dei soldati di fronte agli eventi straordinari ai quali partecipavano, evidenziando la consapevolezza immediata della loro singolarità e rilevanza storica.
L’approccio della stampa variava notevolmente tra i paesi coinvolti nel conflitto. Mentre la stampa inglese divulgava ampiamente la storia della tregua – spesso riservando le prime pagine alla narrazione degli incontri tra soldati nemici nella terra di nessuno, accompagnando i racconti con fotografie inviate dai soldati al fronte – i media francesi e tedeschi adottarono un approccio ben più riservato, con scarse o nulle menzioni degli eventi. Questa differenza di copertura rifletteva le diverse sensibilità nazionali e anche le varie politiche di controllo dell’informazione in tempo di guerra.
Tra i giornalisti inglesi che raccontarono gli eventi della tregua di Natale vi fu anche Arthur Conan Doyle, il celebre autore di Sherlock Holmes. Doyle descrisse la tregua come “una storia incredibile e meravigliosa”, e un “barlume di umanità” che brillava “negli orrori della guerra”. Una delle immagini più iconiche fu pubblicata dal Daily Mirror l’8 gennaio 1915, con il titolo “Un gruppo storico: soldati britannici e tedeschi fotografati assieme”, cogliendo un momento di fraternizzazione che sembrava impossibile in tempo di guerra.
I soldati stessi esprimevano stupore e riflessione su quanto vissuto, quasi faticando a credere alla realtà di una tregua che aveva trasformato, seppur brevemente, il campo di battaglia in un luogo di incontro umano e di condivisa commemorazione. Consapevoli, però, che questa tregua avrebbe avuto una fine: “Davvero avresti stentato a credere che eravamo in guerra. Eravamo lì, parlando insieme ai nemici. Sono proprio come noi: hanno madri, fidanzate, mogli che aspettano il nostro ritorno a casa. E pensare che fra qualche ora ricominceremo a spararci addosso di nuovo”. Ogni schieramento, conscio della temporaneità di questa pace, approfittò della tregua anche per compiere lavori di miglioramento e rinforzo delle proprie trincee, preparandosi alla ripresa inevitabile delle ostilità.
Il ritorno nelle trincee
Nei giorni immediatamente successivi al Natale, i comandi superiori imposero il ritorno alle ostilità, mettendo fine a questo breve periodo di condivisione e solidarietà tra i soldati nemici. La percezione di questi atti di fraternizzazione variava notevolmente tra i combattenti: alcuni li accolsero come un’occasione per distaccarsi, seppur temporaneamente, dall’orrore e dalla brutalità del conflitto, vedendoli come una necessaria boccata d’aria. Altri, invece, li considerarono come un tradimento dei principi e degli obiettivi per cui stavano combattendo, un’affronto al senso del dovere e alla lealtà verso la propria nazione.
Tra i critici più accesi di questa tregua vi era un giovane caporale dell’esercito tedesco, all’epoca staffetta portaordini (Ordonnanz) sul fronte occidentale in Francia e Belgio: Adolf Hitler. Il futuro Fuhrer, che aveva fatto il suo ingresso in guerra il 29 ottobre 1914, poco prima della tregua, nella Prima Battaglia di Ypres ricevette per le sue azioni una Croce di Ferro di seconda classe. Questo riconoscimento veniva attribuito per atti di coraggio, e Hitler stesso avrebbe più tardi esagerato il proprio ruolo e le proprie esperienze in guerra nel suo Mein Kampf, sostenendo di essere stato l’unico sopravvissuto di una particolare azione bellica, nonostante i documenti ufficiali riportino un numero limitato di caduti in quella circostanza. Ma a prescindere dalle discrepanze tra le sue dichiarazioni postume e i documenti storici, il ricordo freschissimo degli orrori vissuti in quella battaglia creò in Hitler puro disprezzo per il “tradimento” dei suoi commilitoni, verso cui già nutriva particolare avversione: molti di loro erano infatti di origine ebraica, dediti all’alcol e interessati più a salvarsi dal gelo e dai parassiti che infestavano le trincee, piuttosto che a sacrificarsi per la vittoria della patria. “Una cosa del genere non dovrebbe accadere in tempo di guerra”, avrebbe detto Hitler, stando ad alcune testimonianze, a chi aveva teso la mano al nemico nell’ambita terra di nessuno. “Non avete alcun senso dell’onore tedesco?”
Questo periodo cruciale nella vita di Hitler non solo forgiò il carattere violento del suo patriottismo, ma pose anche le basi per l’ideologia che avrebbe poi dominato la sua leadership politica. La sua esperienza al fronte, caratterizzata da alienazione sociale e un crescente nazionalismo esacerbato dalla guerra, contribuì a plasmare la sua visione del mondo, intrisa di odio e divisione. La tregua, con la sua manifestazione di unità umana al di là delle divisioni nazionali e ideologiche, rappresentava tutto ciò che Hitler disprezzava, mettendo in luce la sua incapacità di concepire la guerra e le relazioni internazionali al di fuori di una logica di conflitto perpetuo e di distinzione assoluta tra amici e nemici.
La Tregua di Natale del 1914, un evento senza precedenti nella storia dei conflitti moderni, non avrebbe potuto verificarsi senza un tacito assenso, o almeno la tolleranza, degli ufficiali subalterni su entrambi i fronti. La fraternizzazione tra soldati alleati e tedeschi, sebbene spontanea e genuina, sollevò immediatamente preoccupazioni tra i ranghi superiori dell’esercito. I rispettivi generali e alti comandanti vedevano in questi atti di solidarietà non solo una potenziale minaccia alla disciplina militare, ma anche al perpetuarsi dello sforzo bellico.
Nonostante queste preoccupazioni, è rilevante notare che non si registrarono processi per corte marziale o pene severe direttamente legate alla partecipazione degli uomini alla tregua. Questa mancanza di azioni punitive severe può essere interpretata come una tacita ammissione, da parte dei comandanti, dell’importanza di mantenere alto il morale delle truppe. Un intervento punitivo avrebbe potuto avere effetti deleteri sulla già fragile coesione interna, soprattutto considerando che molti soldati avevano visto nella tregua un momento di umanità e sollievo dalle sofferenze quotidiane.
Tuttavia, i vertici militari presero misure immediate per evitare che episodi simili si ripetessero in futuro. Gli sforzi per organizzare una nuova tregua nel Natale del 1915 furono attivamente ostacolati, con ordini più stringenti e misure di controllo rafforzate per prevenire qualsiasi forma di fraternizzazione con il nemico. La volontà di mantenere la disciplina e l’aggressività tra i soldati si tradusse in un divieto quasi assoluto di interazioni pacifiche tra le parti opposte, segnando l’impossibilità di nuove iniziative di tregua spontanea sul Fronte Occidentale fino all’armistizio del novembre 1918, che pose termine al conflitto. Dopo circa 20 milioni di vittime.
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