L’apartheid in Sudafrica, iniziato ufficialmente nel 1948 con l’ascesa al potere del National Party, ha segnato una delle pagine più buie nella storia contemporanea dell’umanità. Questo sistema di segregazione razziale, progettato per mantenere la supremazia della minoranza bianca sulle maggioranze nere e colorate, ha imposto una rigida divisione tra i gruppi etnici, influenzando ogni aspetto della vita sociale, economica e politica del paese. Le leggi dell’apartheid classificavano i cittadini in base alla razza, limitavano i luoghi in cui potevano vivere e lavorare, e determinavano anche l’accesso all’istruzione, ai servizi sanitari e alle opportunità economiche in modo profondamente discriminatorio.
Nonostante l’apartheid sia spesso associato alla dominazione e all’oppressione esercitata dalla minoranza bianca sulla maggioranza non bianca, è fondamentale riconoscere che esisteva una corrente di opposizione all’interno della stessa comunità bianca. Questa opposizione si manifestava in varie forme, dalle attività politiche e legislative agli sforzi educativi, dall’attivismo sociale alla resistenza armata. Anche se questi oppositori erano una minoranza all’interno della loro comunità, il loro coraggio e la loro determinazione nel lottare contro le ingiustizie dell’apartheid hanno avuto un impatto significativo sulla storia sudafricana.
Contesto storico
L’apartheid, sebbene formalizzato come politica di stato dal National Party (NP) in seguito alla sua vittoria elettorale nel 1948, affonda le sue radici in una storia di segregazione e discriminazione razziale che risale ai primi insediamenti coloniali in Sudafrica. Questa storia di divisione razziale ebbe inizio con l’arrivo dei coloni olandesi nel XVII secolo, seguiti dai britannici nel XVIII e XIX secolo, che introdussero sistemi di lavoro forzato e leggi che limitavano i diritti della maggioranza nera e colorata del paese.
Il sistema dell’apartheid fu progettato per consolidare e rendere permanente questa divisione, creando un’architettura legale complessa che regolava dettagliatamente la separazione tra i gruppi razziali. Questo includeva leggi che proibivano i matrimoni interrazziali, designavano aree residenziali separate, e imponevano l’uso di strutture pubbliche segregate come scuole, ospedali e mezzi di trasporto. Inoltre, il sistema pass per il controllo della mobilità imponeva restrizioni draconiane sui movimenti delle persone non bianche, intrappolandole in condizioni di sottosviluppo economico e negando loro l’accesso alle opportunità.
L’ideologia dietro l’apartheid, quella dello “sviluppo separato”, sosteneva falsamente che la segregazione razziale fosse nell’interesse di tutti i gruppi razziali, promuovendo lo sviluppo indipendente delle comunità in aree designate. Tuttavia, questa retorica mascherava l’intento reale di mantenere il dominio politico ed economico della minoranza bianca, relegando la maggioranza della popolazione a una cittadinanza di secondo grado.
Durante il corso dell’apartheid, il governo del NP implementò politiche che approfondirono le disuguaglianze, come la legge sulle Terre Native del 1950, che assegnava meno del 10% del territorio sudafricano alle popolazioni nere, le quali costituivano la grande maggioranza della popolazione. Queste e altre politiche simili limitavano le libertà fondamentali delle persone non bianche e le privavano delle loro terre ancestrali, costringendole a vivere in “homelands” sovraffollati e sottosviluppati o come lavoratori migranti nelle città e nelle miniere.
La profonda ingiustizia dell’apartheid provocò una resistenza interna ed esterna che alla fine portò alla sua abolizione. Tuttavia, le cicatrici lasciate da questo sistema continuano a influenzare la società sudafricana, rendendo la lotta per l’uguaglianza e la giustizia un processo in corso.
Opposizione dall’interno
L’opposizione dei bianchi sudafricani al regime di apartheid rappresenta un capitolo significativo nella storia della lotta contro la segregazione razziale in Sudafrica. Sebbene la narrazione dominante dell’epoca dell’apartheid tenda a concentrarsi sull’oppressione della maggioranza nera da parte della minoranza bianca al potere, è essenziale riconoscere che esisteva un significativo segmento della popolazione bianca che si oppose attivamente al sistema. L’opposizione bianca all’apartheid non era monolitica ma era invece caratterizzata da una varietà di visioni politiche e approcci alla lotta contro il regime. I liberali, ad esempio, spesso focalizzavano la loro attenzione sulle riforme legislative e sull’importanza del cambiamento attraverso canali istituzionali, promuovendo l’idea di un Sudafrica democratico in cui i diritti civili fossero garantiti a tutti i cittadini, indipendentemente dalla razza. D’altro canto, i comunisti e altri gruppi di sinistra erano più propensi a sostenere la lotta armata e altre forme di resistenza diretta, collaborando strettamente con movimenti di liberazione africani come l’ANC (African National Congress) e il suo braccio armato, l’Umkhonto we Sizwe (co-fondato da Nelson Mandela in seguito al Massacro di Sharpeville del 21 marzo 1960 per andare oltre la semplice protesta non violenta e condurre azioni di guerriglia contro il regime segregazionista).
Partiti politici e gruppi di opposizione
La resistenza passiva contro il regime di apartheid da parte di alcuni membri della comunità bianca sudafricana rappresentò una forma di lotta importante e strategica, che prese spunto da tradizioni globali di disobbedienza civile e non violenza. Questi attivisti, influenzati dalle filosofie di Mahatma Gandhi e Martin Luther King Jr., adottarono una varietà di tattiche non violente per opporsi alle leggi e alle politiche razziste imposte dal governo.
Gli atti di disobbedienza civile includevano il rifiuto deliberato di seguire le leggi sull’apartheid che imponevano la segregazione nei luoghi pubblici, nelle istituzioni educative e nei quartieri residenziali. Questo poteva significare, ad esempio, l’ingresso in aree proibite a persone di una certa razza o il rifiuto di applicare le regole segregazioniste nei propri luoghi di lavoro o negozi. In alcuni casi, i bianchi si unirono a proteste pacifiche organizzate da gruppi anti-apartheid, marciando fianco a fianco con i neri e altre persone di colore per manifestare contro le ingiustizie del sistema.
La creazione di spazi “non razziali” fu un’altra tattica significativa. Questi spazi includevano istituzioni educative, centri culturali e luoghi di culto che accoglievano persone di tutte le razze, sfidando apertamente le leggi dell’apartheid. Questi luoghi divennero focolai di resistenza culturale e educativa, dove le idee di uguaglianza e giustizia sociale potevano essere esplorate e promosse.
L’opposizione bianca cercò anche di attirare l’attenzione internazionale sulla situazione in Sudafrica. Gli attivisti utilizzarono i media, sia all’interno che all’esterno del paese, per diffondere informazioni sulle brutalità e le ingiustizie del regime di apartheid. Documentarono e denunciarono i casi di violazione dei diritti umani, le condizioni di vita disumane nelle aree designate per la maggioranza nera e le violente repressioni delle proteste pacifiche. Questi sforzi furono cruciali nell’aumentare la pressione internazionale sul governo sudafricano, portando a sanzioni economiche e boicottaggi culturali e sportivi che isolarono ulteriormente il regime.
Attivisti e intellettuali
Tra gli attivisti bianchi che si opposero all’apartheid, alcuni nomi emergono per il loro notevole contributo e il coraggio dimostrato nel contestare il regime oppressivo. Questi individui, provenienti da diverse sfere della vita pubblica, hanno utilizzato le loro posizioni e le loro piattaforme per promuovere il cambiamento e l’uguaglianza in Sudafrica.
Helen Suzman
Helen Suzman fu una figura emblematica nella lotta contro l’apartheid. Per quasi quattro decenni, dal 1953 al 1989, Suzman servì in Parlamento come membro del Progressive Party, diventando la voce dell’opposizione all’interno del sistema legislativo dominato dal National Party. Con grande coraggio e tenacia, utilizzò la sua posizione per esporre le atrocità e le ingiustizie dell’apartheid, interrogando il governo sulle sue politiche, visitando detenuti politici, tra cui Nelson Mandela, nelle prigioni e denunciando le condizioni disumane a cui erano sottoposti. La sua dedizione alla causa dei diritti umani e alla giustizia le valse il rispetto internazionale e numerosi premi, sebbene la esponesse anche a critiche e ostilità da parte dei sostenitori dell’apartheid.
Joe Slovo e Ruth First
Joe Slovo e Ruth First furono due figure chiave nella resistenza armata contro l’apartheid. Membri del South African Communist Party (SACP) e attivi nel Congresso Nazionale Africano (ANC), la coppia fu profondamente coinvolta nelle attività dell’Umkhonto we Sizwe, l’ala militare dell’ANC. Slovo, in particolare, fu uno dei suoi leader e architetti strategici. Di origine ebraica, nato in Lituania e immigrato in Sudafrica da giovane, la sua leadership e il suo impegno nella resistenza armata riflettevano una comprensione profonda delle dinamiche di potere e della necessità di un’azione diretta per contrastare il regime oppressivo. La sua visione politica si basava sulla convinzione che la libertà e l’uguaglianza potessero essere raggiunte solo attraverso la lotta collettiva, un principio che rifletteva i valori di giustizia sociale radicati nella sua eredità ebraica.
Sua moglie Ruth First, giornalista e accademica di grande talento, usò la sua penna e la sua ricerca per esporre le crudeltà dell’apartheid e fu una critica feroce del regime. La loro casa divenne un centro di attivismo politico, dove si organizzavano incontri e si elaboravano strategie per sfidare il regime. La vita di Ruth fu tragicamente interrotta da un attentato per mano dei suprematisti.
Nadine Gordimer e Alan Paton
Nadine Gordimer e Alan Paton furono due dei più importanti scrittori sudafricani, i cui lavori offrono una critica penetrante dell’apartheid e una visione potente di una società più giusta. Gordimer, vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura nel 1991, attraverso i suoi romanzi e saggi, esplorò le complessità e le contraddizioni della vita sudafricana sotto l’apartheid, sostenendo la causa anti-apartheid e diventando una voce influente per il cambiamento. Alan Paton, meglio conosciuto per il suo romanzo “Cry, the Beloved Country”, pubblicato nel 1948, lo stesso anno in cui l’apartheid fu istituito, utilizzò la sua scrittura per evidenziare l’impatto devastante delle politiche razziste e promuovere la riconciliazione e l’umanità.
Impatto e conseguenze
L’opposizione dei bianchi sudafricani al regime di apartheid, benché numericamente limitata rispetto alla popolazione bianca complessiva, giocò un ruolo cruciale nell’indebolire la legittimità del sistema sia sul piano nazionale che internazionale. Questi individui, attraverso la loro resistenza attiva e passiva, contribuirono a creare crepe significative nella facciata di unità presentata dal governo del National Party, esponendo le profonde ingiustizie e la brutalità del regime di apartheid al resto del mondo.
Le significative ripercussioni personali e professionali affrontate da questi attivisti dimostrano l’alto prezzo della loro opposizione. Molti di loro subirono arresti, detenzioni senza processo, sorveglianza continua e minacce alla propria sicurezza e a quella delle loro famiglie. Tuttavia, la loro determinazione nel perseguire la giustizia e l’uguaglianza, spesso a costo della propria libertà e benessere, servì a ispirare altri all’interno e all’esterno del Sudafrica a unirsi alla lotta contro l’apartheid.
La pressione esercitata dall’interno del paese, insieme al crescente isolamento internazionale causato da sanzioni economiche, boicottaggi sportivi e culturali, e la condanna globale delle pratiche del regime, costrinse il governo sudafricano a riconsiderare la sua posizione,
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