Nel 1972, un gruppo di giovani attivisti Māori marciò verso il Parlamento di Wellington con una petizione firmata da 30.000 persone. Chiedevano che il te reo Māori, la loro lingua ancestrale, fosse insegnato nelle scuole pubbliche della Nuova Zelanda. Non era una semplice rivendicazione linguistica: era una sfida aperta al sistema coloniale che, per più di un secolo, aveva tentato di cancellare quella lingua e tutto ciò che rappresentava.
Quel giorno del 1972 segna una svolta, ma la storia del te reo inizia molto prima, con un progetto di assimilazione forzata che aveva l’obiettivo preciso di eliminare la lingua Māori. Oggi, quella stessa lingua, che negli anni ’80 rischiava di scomparire, è parlata nei telegiornali, nelle scuole e persino negli stadi di rugby. Come è avvenuta questa trasformazione? E perché il modello Māori è diventato un esempio seguito da altre comunità indigene di tutto il mondo?
La scomparsa programmata: il Native Schools Act del 1867
Ogni storia di resistenza inizia con una sconfitta. Nel caso dei Māori, questa sconfitta arriva con il Native Schools Act del 1867, una legge che vietava l’uso del te reo Māori nelle scuole. L’intento era chiaro: trasformare i bambini Māori in “buoni sudditi dell’Impero Britannico”, e farlo partendo dalla lingua. I maestri delle scuole erano obbligati a insegnare solo in inglese, e i bambini sorpresi a parlare te reo venivano picchiati o umiliati pubblicamente.
Si trattava di una forma di repressione invisibile ma potentissima. Quando ai genitori Māori fu chiaro il rischio a cui esponevano i figli, fecero una scelta drammatica: smisero di parlare te reo anche a casa. Questo comportamento, perfettamente comprensibile dal punto di vista della protezione familiare, risultò però nella rottura della trasmissione intergenerazionale: i nonni parlavano te reo, i figli lo capivano, ma i nipoti non lo parlavano più.
Negli anni ’70, il te reo era diventato una lingua “in pericolo”, con meno del 20% dei Māori in grado di parlarlo fluentemente. Ma proprio in quegli anni, la resistenza iniziò a prendere forma.
Ngā Tamatoa: la marcia del 1972 e l’inizio della resistenza
Nel clima globale di lotte per i diritti civili degli anni ’60 e ’70, anche in Nuova Zelanda emerse una nuova generazione di attivisti Māori. Provenivano dalle università e dalle città, dove le comunità Māori si erano trasferite in cerca di lavoro, ma portavano con sé il senso di ingiustizia ereditato dalle loro famiglie. Questi giovani, spesso laureati, urbanizzati e formati nelle università neozelandesi, si riunirono in un collettivo: Ngā Tamatoa, “I Giovani Guerrieri”.
Tra di loro c’era Tame Iti, un attivista che sarebbe diventato importantissimo per la resistenza culturale dei Māori. La loro azione più clamorosa fu proprio la marcia su Wellington del 1972, durante la quale Ngā Tamatoa e la Te Reo Māori Society presentarono una petizione con 30.000 firme chiedendo che il te reo Māori venisse insegnato nelle scuole pubbliche.
La marcia fu un vero colpo di scena. La loro protesta convinse la comunità Māori che la lotta per la lingua era possibile. Fu un momento spartiacque: da lì in poi, il te reo non sarebbe più stato visto come una lingua destinata a scomparire, ma come un campo di battaglia culturale.
La rivoluzione educativa: nascono le Kōhanga Reo (1982)
Se chiedete a uno storico di individuare l’evento più importante per la rinascita del te reo, vi risponderà con due parole: Kōhanga Reo. Cosa sono? Letteralmente, “nidi di lingua”. Nati nel 1982, le Kōhanga Reo sono scuole per bambini da 0 a 5 anni dove si parla esclusivamente te reo Māori.
L’idea era tanto semplice quanto rivoluzionaria: se il sistema scolastico pubblico non era in grado di insegnare la lingua, la comunità avrebbe creato le proprie scuole. E così fecero. Non fu il governo a lanciare il progetto, ma le stesse famiglie Māori. Spesso gli insegnanti erano nonni, genitori e membri della comunità. I genitori non si limitavano a iscrivere i figli, ma partecipavano attivamente all’insegnamento, imparando a loro volta la lingua che molti di loro non avevano mai parlato. Poiché le Kōhanga Reo non godevano avevano diritto ai fondi pubblici, si mantennero attraverso autofinanziamenti e donazioni delle comunità Māori. Le famiglie trasformarono garage, salotti e chiese in aule scolastiche. La vera rivoluzione, però, fu un’altra: il controllo dell’istruzione tornava nelle mani della comunità Māori. Nel 1985, in soli tre anni, le Kōhanga Reo divennero più di 300, guidate da donne come Dame Iritana Tāwhiwhirangi, che organizzarono raccolte fondi, misero a disposizione le loro case e divennero insegnanti e volontarie.
I bambini uscivano dalle Kōhanga Reo parlando te reo Māori con la stessa naturalezza con cui i loro antenati avevano fatto per secoli. Ma c’era un problema: dove mandare questi bambini dopo i 5 anni? Le scuole pubbliche non parlavano te reo.
La risposta arrivò con la nascita delle Kura Kaupapa Māori, scuole primarie e secondarie che, proprio come le Kōhanga Reo, insegnavano solo in te reo Māori. La prima scuola di questo tipo aprì nel 1985, e non passò molto tempo prima che il governo si rendesse conto che la pressione della comunità Māori non poteva essere ignorata.
Fu così che, nel 1987, il governo approvò il Māori Language Act, che riconobbe il te reo Māori come lingua ufficiale della Nuova Zelanda, al pari dell’inglese. Questo atto garantì ai cittadini il diritto di usare il te reo nei tribunali e nelle istituzioni pubbliche, un evento di portata straordinaria: non solo il te reo era salvo, ma veniva finalmente riconosciuto sul piano legale e politico.
Un modello globale
Il modello delle Kōhanga Reo non rimase confinato in Nuova Zelanda. Nel 1984, un gruppo di attivisti hawaiani, ispirato dall’esperienza neozelandese, lanciò la prima scuola di immersione in lingua hawaiana, la Aha Pūnana Leo. Anche le comunità indigene degli Stati Uniti, come i Paiute e i Puyallup, cominciarono a studiare il modello delle Kōhanga Reo.
Oggi, la filosofa e linguista Christina Dawa Kutsmana Thomas si ispira proprio a questo modello per creare scuole di immersione linguistica per la sua comunità Paiute in Nevada. “Il modello Māori è una guida per noi”, ha dichiarato.
Anche le comunità indigene in Canada, la popolazione Sámi in Finlandia e persino le comunità indigene in Brasile stanno studiando e replicando il modello.
Oggi, il te reo Māori non è più in pericolo. È parlato da decine di migliaia di persone ed è presente praticamente ovunque: nei telegiornali, negli spot pubblicitari e sugli scaffali dei supermercati. “Kia ora” ha quasi soppiantato “Hello” nei saluti quotidiani. Il Primo Ministro Jacinda Ardern ha dichiarato di voler insegnare il te reo a sua figlia, e il governo si è impegnato a rendere la lingua accessibile a un milione di neozelandesi entro il 2040.
La rinascita del te reo ha trasformato l’idea stessa di cosa significhi essere neozelandesi. Non è più una lingua confinata nei “villaggi” o tra i nostalgici di un passato perduto, ma una parte centrale del discorso pubblico e delle politiche di riconciliazione post-coloniale. È il segno tangibile di una nazione che sceglie di fare i conti con il proprio passato e di restituire dignità a chi per troppo tempo ne è stato privato.
Perché in fondo la lotta per la lingua è una lotta per il controllo del proprio destino. La lingua non è mai solo un insieme di parole: è il potere di raccontare la propria storia.
Come ha detto Sir Tīmoti Kāretu, uno degli artefici di questa rinascita: “Non aspettare che arrivino dei soldi, non aspettare il permesso di nessuno. Se vuoi salvare la tua lingua, inizia. E non smettere mai”. Le sue parole non sono rimaste lettera morta. La rinascita del te reo Māori ha mostrato al mondo intero che le lingue non scompaiono mai del tutto. Possono essere represse, bandite, ridotte a poche decine di parlanti, ma finché c’è una comunità disposta a lottare, possono sempre risorgere. E quando una lingua rinasce, non tornano in vita solo dei termini desueti: un popolo si riprende il proprio posto nel mondo.
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