“Sei ebreo?”
Questa domanda, secca e brutale, venne rivolta nel 1941 a un ragazzo di 16 anni di nome Solomon Perel. Intorno a lui, un gruppo di soldati tedeschi armati aspettava la risposta. Una parola sbagliata avrebbe significato la condanna a morte.
Perel decise di giocare la sua carta più pericolosa. Tra sangue freddo e disperazione, pronunciò le parole che gli avrebbero salvato la vita ma che lo avrebbero anche costretto a vivere in una trappola identitaria senza via d’uscita:
“Ich bin Volksdeutscher. Sono un ‘tedesco etnico’ “.
Con quella frase, Perel si separò per sempre dal ragazzo ebreo che era stato. Nacque così Josef Perjell, il suo “nuovo sé”, un’identità costruita per la sopravvivenza. I soldati gli credettero. “Josef” fu persino ammesso in una scuola della Hitlerjugend (la Gioventù Hitleriana). Lì, il giovane ebreo divenne ufficialmente uno di loro. Sfilò in uniforme nazista, cantò canti antisemiti, gridò “Heil Hitler” e frequentò le lezioni di educazione razziale che insegnavano a disprezzare gli ebrei.
Ma ogni notte, quando la recita finiva, Josef scompariva e tornava Solomon. Da solo, nel buio della sua stanza, il ragazzo ebreo piangeva la perdita della sua famiglia, della sua identità e della sua coscienza.
La storia di Solomon Perel non è una di quelle che lasciano spazio a giudizi facili. Non è la storia di un eroe, né di un “traditore”. È la storia di un ragazzo che ha dovuto fare ciò che era necessario per sopravvivere in un mondo in cui la verità portava alla morte. Ed è questa la parte più scomoda: ci obbliga a chiederci fino a dove saremmo disposti a spingerci per sopravvivere.
Le incredibili vicende della sua vita sono note grazie alla sua autobiografia Ich war Hitlerjunge Salomon, da cui fu tratto il film “Europa Europa”, vincitore del Golden Globe nel 1992.
Questa è la sua storia.
L’infanzia interrotta: da Peine a Łódź
Solomon Perel nacque il 21 aprile 1925 a Peine, una piccola città della Germania settentrionale. La sua era una famiglia ebraica osservante, e la sua infanzia scorreva tranquilla. A casa si parlava Yiddish, ma fuori casa Solomon parlava tedesco, frequentava la scuola pubblica e giocava con i bambini tedeschi non ebrei. Insomma, viveva quella che si potrebbe definire una vita “normale” per un bambino tedesco.
Le cose cambiarono nel 1933, con l’ascesa al potere di Adolf Hitler. Con le leggi razziali di Norimberga, gli ebrei vennero esclusi dalla società civile tedesca. Solomon provò sulla propria pelle il peso di questa esclusione quando venne espulso da scuola. L’espulsione fu una ferita che si portò dentro per tutta la vita.
“Fu l’esperienza più traumatica della mia infanzia, quell’espulsione barbara solo perché qualcuno aveva deciso che ero ‘diverso’ “.
Nel 1936, i genitori decisero di trasferirsi a Łódź, in Polonia, sperando di trovare una vita più sicura. Ma la Polonia non era affatto un rifugio sicuro. Nel 1939, con l’invasione tedesca della Polonia, le speranze di sicurezza svanirono. Gli ebrei furono costretti nel ghetto di Łódź. La fame, le malattie e la violenza erano all’ordine del giorno.
Sapendo di essere in trappola, Solomon e il fratello Isaac decisero di fuggire, ma prima di andarsene ricevettero l’ultimo insegnamento dei loro genitori. Suo padre, Azriel, gli disse:
“Non dimenticare mai chi sei. Resta sempre ebreo.”
Sua madre, Rivka, invece, disse:
“Sopravvivi, qualunque cosa accada.”
Due comandi inconciliabili. Quando, poco dopo, Solomon e Isaac vennero catturati da una pattuglia tedesca, il ragazzo dovette scegliere a quale insegnamento obbedire.
Quando i soldati chiesero a Solomon “Sei ebreo?”, il ragazzo capì che la risposta corretta sarebbe stata l’ultima cosa che avrebbe detto. Non ebbe il coraggio di dire “sono ebreo”, così mentì: “Ich bin Volksdeutscher. Sono un tedesco etnico”.
Quella frase gli salvò la vita e, al tempo stesso, lo condannò. I soldati gli credettero e decisero di utilizzarlo come interprete per la Wehrmacht, dato che parlava fluentemente tedesco, polacco e russo. La beffa del destino non si ferma qui: viene infatti inviato in una scuola d’élite della Hitlerjugend a Braunschweig.
Quattro anni di “Heil Hitler”
Per comprendere cosa significasse per un ebreo vivere nella Hitlerjugend, bisogna prima capire cos’era questa organizzazione.
Fondata nel 1926, la Hitlerjugend era il braccio giovanile del partito nazista. Qui, i ragazzi tedeschi, a partire dai 14 anni, venivano educati ai principi del razzismo, della disciplina militare e del culto del Führer. Venivano addestrati fisicamente ma soprattutto mentalmente, affinché interiorizzassero la superiorità della “razza ariana” e il disprezzo per gli ebrei e gli “indesiderabili”. Era lì che venivano plasmati i giovani del Reich, i futuri soldati e uomini del partito. La routine quotidiana era fatta di esercitazioni militari, canti di propaganda e lezioni di educazione razziale. I ragazzi imparavano a identificare gli ebrei come nemici e a considerarli una “minaccia biologica” per la Germania.
Era il peggiore dei luoghi in cui un ragazzo ebreo potesse trovarsi. Ma Solomon Perel non aveva scelta. Per sopravvivere, doveva diventare uno di loro.
Solomon sapeva recitare. E recitare, in questo caso, significava vivere ogni giorno come se fosse una recita teatrale. Permise al duro Josef Perjell di soffocare la sua identità ebraica. Sapeva bene che se anche solo uno dei suoi compagni avesse avuto un minimo sospetto, le conseguenze sarebbero state fatali.
Il rischio era ovunque. Ogni occasione di rivelare una cicatrice “sospetta” o una circoncisione ebraica avrebbe potuto tradirlo. Per questo, i bagni collettivi e le visite mediche erano momenti di panico assoluto.
Non solo. Gli altri ragazzi erano addestrati a denunciare qualsiasi anomalia nei loro compagni. Bastava un sospetto per portare all’interrogatorio da parte degli ufficiali nazisti. E Salomon sapeva che non avrebbe mai superato un interrogatorio.
Perciò, ogni giorno, indossava l’uniforme, cantava canti antisemiti e sfilava gridando “Heil Hitler”. Ma quando la giornata finiva e si ritrovava solo nel suo letto, la maschera cadeva. Piangeva in silenzio, pensando ai suoi genitori e alla sorella, di cui non aveva più notizie.
“Di giorno ero Josef, il perfetto tedesco. Di notte, ero Solomon, il ragazzo ebreo, solo, spaventato e pieno di nostalgia. Non ebbi mai tregua”.
La sua capacità di mimetizzarsi tra i carnefici fu messa alla prova dalle rigide regole della scuola, certo, ma anche dalle relazioni umane che sviluppò al suo interno.
Tra queste spicca il rapporto con Leni Latsch, una ragazza membro del Bund Deutscher Mädel (la controparte femminile della Hitlerjugend) e fervente sostenitrice dell’ideologia nazista. Leni si innamorò di Solomon, e lui, nonostante la paura, ricambiò i suoi sentimenti. Ma la loro relazione non poté mai andare oltre l’amicizia e il corteggiamento, perché consumare la relazione avrebbe significato rivelare la sua identità. La sua circoncisione era un marchio indelebile, e la scoperta di questo segreto avrebbe significato la morte. Questo aspetto aggiunge un livello ulteriore di tensione emotiva e psicologica: Perel doveva nascondere la sua identità, e con essa i propri desideri e le proprie emozioni.
Il momento di maggiore pericolo arrivò quando ricevette una convocazione dalla Gestapo. Gli ufficiali gli chiesero di fornire un “certificato di purezza razziale”, un documento che attestasse l’assenza di “sangue ebreo” nella sua discendenza. Solomon, terrorizzato, provò a guadagnare tempo sostenendo che il certificato si trovava a Grodno, ma la Gestapo non sembrava disposta ad aspettare. Tutto sembrava perduto. Tuttavia, la fortuna fu dalla sua parte. Proprio mentre si trovava nell’edificio della Gestapo, un bombardamento alleato colpì la struttura, causando il crollo dell’edificio. Nel caos, Solomon riuscì a scappare indenne. La bomba, in un colpo solo, distrusse le prove, gli ufficiali e la possibilità di un controllo più approfondito sulla sua identità.
Ma il vero emblema della complessità dell’identità e dell’ambiguità morale si manifesta nel rapporto con il soldato tedesco Robert. Robert, segretamente omosessuale, scoprì il segreto di Solomon durante una doccia collettiva. Vedendo la sua circoncisione, avrebbe potuto denunciarlo, ma non lo fece. Invece, mostrò solidarietà e comprensione. Robert e Solomon sono entrambi “diversi” in un regime che perseguita gli “altri”, e anche se le loro condizioni sono differenti, entrambi vivono con il costante timore di essere scoperti e perseguitati per ciò che sono.
L’esperienza più dolorosa e psicologicamente devastante arrivò nel 1943, durante le vacanze natalizie. Solomon, nonostante i rischi enormi, decise di tornare a Łódź per cercare la sua famiglia. Era un gesto folle e disperato, ma il bisogno di rivedere i suoi cari era più forte di qualsiasi paura. Rischiò la vita attraversando strade pattugliate dai nazisti, ma quando raggiunse il ghetto di Łódź, trovò solo desolazione e morte.
Dal finestrino del tram che attraversava il ghetto, vide scene che non avrebbe mai dimenticato. Vide carri pieni di cadaveri ebrei, corpi scheletrici accatastati l’uno sull’altro, diretti verso i crematori. Non trovò traccia dei suoi genitori, né della sorella. Nessun volto familiare, solo morte e silenzio. Fu in quel momento che capì che il ritorno a casa non sarebbe mai stato possibile. Quella visita al ghetto lo segnò per sempre, privandolo di ogni illusione. Tornò alla scuola della Hitlerjugend con il cuore appesantito, portandosi dietro l’immagine indelebile della morte collettiva del suo popolo.
Quell’immagine lo segnò profondamente. Non avrebbe mai più rivisto la sua famiglia. Da quel momento, capì che Josef Perjell sarebbe stato l’unico “famigliare” rimasto.
Da un lato, la sua maschera di “Josef Perjell” si fece sempre più pesante, e il pericolo di essere smascherato si intensificò. Dall’altro, il suo legame emotivo con la propria identità ebraica diventò una ferita aperta. Oltre a essere un ebreo in fuga, era anche un ragazzo che lottava con le contraddizioni della sopravvivenza, dove ogni nuova mattina è una vittoria ma anche una ulteriore perdita di sé.
La morte di Josef, la rinascita di Solomon
Nel 1945, la Germania era ormai sull’orlo della sconfitta. Con la caduta del regime, anche la doppia vita di Solomon giunse alla fine. Quando venne catturato dagli americani, decise di smettere di recitare:
“Io non sono Josef Perjell. Sono Solomon Perel, un ebreo.”
Venne liberato e, con la caduta del Reich, poté finalmente liberarsi anche della maschera che aveva indossato per anni.
Josef Perjell morì e al suo posto fece ritorno Solomon Perel.
Fu liberato, ma la libertà portò con sé nuove domande. Per quattro anni, aveva indossato i panni di un altro, aveva vissuto come Josef, il giovane nazista. Ora, con il ritorno alla realtà, non bastava cambiare nome per sentirsi di nuovo ebreo.
I legami familiari erano ormai spezzati. La madre, il padre e la sorella erano morti nei campi di concentramento nazisti. Solo il fratello Isaac era sopravvissuto, e i due riuscirono a ricongiungersi. Ma il peso del trauma rimase su di lui.
Solomon emigrò in Israele, dove cercò di dimenticare il passato. Ma il ritorno a essere “Solomon” non fu immediato. Il passato, con il suo carico di colpa e contraddizioni, lo seguì come un’ombra. Come poteva essere di nuovo Solomon, dopo aver vissuto come Josef? Per anni visse in silenzio, lavorando come direttore di una fabbrica di cerniere. Ma negli anni ’80, dopo un infarto, sentì che non poteva più rimandare il confronto se stesso e si convinse che era giunto il momento di raccontare la propria storia.
La sua storia divenne un libro, Ich war Hitlerjunge Salomon (pubblicato nel 1989), da cui fu tratto il film “Europa Europa”. Il film vinse il Golden Globe per il Miglior Film Straniero e ottenne una nomination all’Oscar per la Miglior Sceneggiatura Adattata, ma non senza polemiche. La Germania rifiutò di presentare il film agli Oscar, considerandolo “imbarazzante” e “non rappresentativo” del paese.
Alcuni critici tedeschi attaccarono il film, giudicandolo troppo “ironico” e “comico” per un argomento tragico come l’Olocausto. La regista Agnieszka Holland difese questa scelta, sostenendo che l’assurdo è parte integrante della storia di Perel.
Il film ricevette recensioni entusiastiche. Michael Wilmington del Los Angeles Times lo definì “una suspense continua, una commedia nera e un dramma sull’identità”. Janet Maslin del New York Times affermò che il film “portò l’Olocausto oltre i cliché”.
Ma la frase più profonda è quella dello stesso Solomon Perel, che compare brevemente nel film, nella scena finale:
“Ho due anime dentro di me. Josef ha salvato la mia vita, ma Solomon è la mia verità.”
La storia di Solomon Perel non è la solita narrazione eroica. Non ci sono eroi, né vincitori. Non c’è un “giusto” o uno “sbagliato”. Perel visse in un conflitto interiore irrisolto. Era sia vittima che complice, e in questa contraddizione visse tutta la sua vita.
Morì il 2 febbraio 2023, all’età di 97 anni, lasciandoci una lezione complessa e profonda.
Non è una storia di eroi. È la storia del costo della sopravvivenza.
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