“Uccidi l’indiano, salva l’uomo”: La storia dimenticata dei collegi per i nativi americani

Per oltre un secolo, migliaia di bambini nativi americani furono sottratti alle loro famiglie e condotti in collegi governativi con un unico obiettivo: annullare la loro identità culturale. Tagli forzati di capelli, divieto di parlare la propria lingua, imposizione di nomi cristiani e punizioni corporali non erano misure accessorie, ma il cuore di un progetto di “assimilazione” che mirava a trasformare questi bambini in cittadini euro-americani. Oggi, questa pagina oscura della storia americana è tornata al centro di un processo di verità e riconciliazione.

“Uccidi l’indiano, salva l’uomo”

La frase simbolo della politica educativa per i nativi americani viene attribuita al generale Richard Henry Pratt, ideatore del primo collegio fuori riserva: il Carlisle Indian Industrial School, inaugurato nel 1879 in Pennsylvania. L’idea di Pratt era radicale quanto chiara: per “salvare l’uomo” bisognava sradicare l’indiano. Eliminare la cultura nativa, riformare il bambino a immagine e somiglianza del “cittadino bianco”.

Il sistema di Pratt non nasce dal nulla. In Florida, nel carcere di Fort Marion, Pratt aveva sperimentato un approccio simile con prigionieri di guerra nativi, costretti a tagliarsi i capelli, indossare abiti occidentali e imparare l’inglese. Il progetto ottenne un forte appoggio politico e, con l’apertura di Carlisle, divenne il modello per oltre 350 collegi in tutto il paese.

A differenza delle scuole missionarie situate all’interno delle riserve, i nuovi collegi erano off-reservation, cioè lontani dai territori tribali, per evitare qualsiasi contatto con la cultura di origine. Da questa distanza fisica e simbolica nasceva il vero potere del sistema

La trasformazione forzata dei bambini

L’arrivo al collegio segnava l’inizio di una frattura profonda. I capelli venivano tagliati, un’umiliazione per molte tribù, dove le chiome lunghe rappresentavano orgoglio, forza e appartenenza. I nomi venivano cancellati: Zitkála-Šá, la scrittrice e attivista Dakota, fu ribattezzata “Gertrude”. I vestiti tradizionali venivano sostituiti con uniformi occidentali. La lingua nativa era proibita e chi la usava veniva punito.

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Questi gesti non erano simbolici. Servivano a spezzare l’identità culturale del bambino e a innescare un processo di “ricostruzione” secondo i modelli euroamericani. Lo scopo non era educare, ma rieducare. Le materie scolastiche erano ridotte all’essenziale: lettura, scrittura e aritmetica. La gran parte del tempo era dedicata a lavori manuali come agricoltura, cucito, cucina e pulizie.

Il lavoro non era un “esercizio educativo”. I bambini contribuivano attivamente all’economia dei collegi, producendo ciò che serviva alla scuola per essere autosufficiente. A Carlisle, le attività includevano anche la costruzione di bare. Non per caso: le condizioni sanitarie nei collegi erano pessime, e le malattie come tubercolosi, influenza e vaiolo si diffondevano rapidamente. I bambini morivano di malattia, di abusi e in alcuni casi per suicidio. Le sepolture avvenivano in cimiteri interni alla scuola, senza avvisare le famiglie.

Resistenze e traumi intergenerazionali

Molti genitori si opposero. Nel 1894, diciannove uomini Hopi dell’Arizona rifiutarono di mandare i loro figli nei collegi. Furono arrestati e inviati come prigionieri su Alcatraz, a mille chilometri di distanza dalle loro famiglie.

Ma anche i bambini trovarono il modo di resistere. I tentativi di fuga dai collegi erano così frequenti che alcune scuole misero in palio taglie sui bambini fuggitivi. I giornali dell’epoca li descrivevano come “selvaggi tentati dal richiamo della vita primitiva”. Alcuni riuscirono a tornare a casa percorrendo centinaia di chilometri a piedi.

Tuttavia, la resistenza non era solo fisica. Scrittori e attivisti nativi come Zitkála-Šá usarono la parola scritta come forma di ribellione. Nel suo libro “American Indian Stories” (1921), raccontò il trauma del taglio dei capelli con una frase che sintetizza l’intera esperienza dei collegi: “Ho perso il mio spirito”.

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Il trauma vissuto nei collegi non si è fermato ai bambini di allora. Le loro sofferenze si sono propagate nel tempo, trasmettendosi alle generazioni successive. Gli storici parlano di trauma intergenerazionale: la separazione forzata dalle famiglie e il distacco dalla cultura originaria hanno creato una rottura che ha modificato profondamente la struttura familiare, l’educazione dei figli e la trasmissione del sapere tribale.

Le lingue native iniziarono a morire. Un bambino che non imparava la propria lingua materna non poteva insegnarla ai propri figli. L’inglese divenne dominante, e le generazioni successive si trovarono a crescere senza parole per descrivere i propri mondi d’origine.

Ma il lascito più drammatico riguarda le dinamiche di violenza e abuso. Studi recenti hanno evidenziato un collegamento tra i traumi subiti nei collegi e le attuali forme di violenza domestica e di genere nelle comunità native. Molti sopravvissuti portarono con sé i modelli di punizione corporale appresi nei collegi e li replicarono in famiglia.

La lunga strada verso la giustizia

Negli anni ’60 e ’70, i movimenti per i diritti dei nativi americani chiesero la chiusura definitiva dei collegi. Il Congresso approvò l’Indian Self-Determination and Education Assistance Act (1975), che restituì ai popoli nativi il controllo sull’educazione dei loro figli. Molti collegi chiusero, ma alcuni rimasero operativi. Quattro collegi off-reservationesistono ancora oggi, gestiti dal Bureau of Indian Education.

Solo negli anni 2000 il governo ha iniziato a riconoscere la gravità di quanto accaduto. Nel 2009, il Congresso ha presentato una scusa formale ai nativi americani, riconoscendo il ruolo del governo federale nella gestione dei collegi. Nel 2021, la segretaria degli Interni Deb Haaland, la prima donna nativa americana a ricoprire una carica ministeriale, ha lanciato l’Indian Boarding School Initiative, con l’obiettivo di indagare le sepolture non segnalate e fare chiarezza sulla sorte dei bambini mai tornati a casa.

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Molti dei cimiteri dei collegi sono ancora lì, campi d’erba senza nomi. Alcune lapidi portano un’incisione: “Unknown”. Sotto, ci sono i corpi di bambini. Erano figli, fratelli, sorelle. Molti non fecero mai ritorno a casa.

Non avevano una tomba nel proprio villaggio, non un rito funebre secondo la tradizione del loro popolo. Ma oggi, dopo decenni di silenzio, le loro storie emergono. Con la Indian Boarding School Initiative, alcune tribù hanno iniziato a recuperare i resti dei loro figli sepolti nei cimiteri scolastici. Le ossa tornano a casa, portate a spalla dai discendenti di chi li vide partire.

Non sono più “Unknown”. Ora hanno un nome.


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