Albert Göring, il fratello di Hermann che sabotò il Terzo Reich

Vi sono cognomi che attraversano la Storia come marchi incisi nella memoria collettiva. Il cognome Göring è senza dubbio uno di questi, scolpito nelle pagine più nere del Novecento accanto a quello di Hitler, Himmler e Goebbels. Hermann Göring fu il braccio destro del Führer, il creatore della Gestapo, il maresciallo che dominava la Luftwaffe con l’arroganza di un monarca rinascimentale. Fu la maschera più vistosa e grottesca del potere nazista, un uomo che amava la bellezza dell’arte quanto la brutalità della guerra, l’oro dei palazzi quanto il fumo dei forni crematori.

Ma accanto a lui, quasi cancellato dalla memoria storica, esisteva un altro Göring, un uomo che portava lo stesso cognome ma ne tradiva ogni implicazione.

Dove Hermann costruiva l’orrore, suo fratello Albert tentava di scardinarlo. Se il primo ordinava deportazioni, il secondo falsificava documenti per permettere fughe. Se uno pronunciava discorsi incendiari sulla superiorità ariana, l’altro vagava per le strade di Vienna, intervenendo quando vedeva ebrei subire umiliazioni. Non era un rivoluzionario, né un uomo d’azione nel senso epico del termine. Il suo era un dissenso intimo, metodico, quasi burocratico. Non impugnò mai un fucile contro i nazisti, ma usò il proprio cognome come un’arma, un grimaldello per aprire porte chiuse, un lasciapassare per chi, senza il suo aiuto, avrebbe trovato solo la strada dei campi di sterminio.

Eppure, dopo la caduta del Reich, la sua storia non fu celebrata, né onorata. Il cognome che aveva usato per salvare vite divenne la sua condanna. Per il mondo intero, un Göring non poteva essere innocente. Così, mentre Hermann si avvelenava per sfuggire al cappio di Norimberga, Albert si ritrovò a vagare tra gli interrogatori degli Alleati, costretto a dimostrare di non essere un carnefice. E quando anche la giustizia lo riconobbe innocente, la società non lo assolse: un Göring restava pur sempre un Göring. E l’oblio, implacabile, fece il resto.

Oggi, a distanza di decenni, il nome di Albert Göring affiora lentamente dalle nebbie della Storia. E forse, tra le pieghe di questo racconto, si nasconde una lezione più profonda: che il bene, quando si cela dietro un nome infame, rischia di essere dimenticato più facilmente del male.

Due fratelli, due destini opposti

Nella Storia, i legami di sangue non sempre generano percorsi paralleli. A volte, da una stessa radice nascono rami che si allungano in direzioni opposte, fino a rendere inconciliabili le traiettorie di due uomini cresciuti sotto lo stesso tetto. Così fu per i fratelli Göring: Hermann, l’architetto dell’orrore nazista, e Albert, il sabotatore silenzioso del Reich.

Albert Göring nacque il 9 marzo 1895 a Berlino, il più giovane di cinque figli. Mentre il fratello maggiore Hermann si forgiava nella disciplina militare, sognando medaglie e parate, Albert cresceva con un’indole più riservata, allergica alle retoriche dell’epoca. Dove Hermann amava la grandiosità delle uniformi e il clangore delle adunate, Albert prediligeva la solitudine dei libri e il pensiero critico. Se il primo coltivava il culto del comando, il secondo sviluppava un’indole ribelle, che lo portava a diffidare di ogni forma di autorità cieca.

L’educazione aristocratica dei Göring imponeva ai figli una formazione solida, ma mentre Hermann si lasciava affascinare dalle pulsioni nazionaliste che infiammavano la Germania post-bellica, Albert scelse una strada diversa. Studiò ingegneria, ma il suo vero interesse era la cultura. Si trasferì a Vienna, città che negli anni Venti e Trenta rappresentava ancora l’ultimo baluardo di una Mitteleuropa cosmopolita, dove arte, filosofia e scienza si mescolavano in un fervore intellettuale che il nazismo avrebbe presto soffocato.

A Vienna, Albert trovò la sua dimensione. Lavorò nell’industria cinematografica e frequentò intellettuali, artisti, giornalisti. Molti dei suoi amici erano ebrei, socialisti, oppositori del nazismo, uomini e donne che nei salotti della capitale austriaca si scambiavano idee con la stessa rapidità con cui, poco dopo, sarebbero stati costretti a scambiarsi indirizzi sicuri per la fuga.

Nel frattempo, Hermann Göring saliva i gradini del potere con l’ambizione di un condottiero rinascimentale. Ex eroe dell’aviazione nella Prima guerra mondiale, era diventato il volto più appariscente del Terzo Reich: spietato nei suoi ordini, teatrale nelle sue apparizioni pubbliche, impietoso nelle sue ambizioni. Albert lo osservava da lontano, consapevole che tra loro si era aperto un abisso incolmabile.

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Nel 1938, l’Anschluss segnò il punto di non ritorno. Con l’annessione dell’Austria alla Germania nazista, il sogno di Vienna come capitale culturale d’Europa si frantumò sotto il passo delle truppe hitleriane. Fu allora che Albert comprese che il nazismo non era solo un’ideologia malata, ma una macchina di distruzione sistematica. E decise di opporsi.

Da quel momento, la sua vita non sarebbe più stata quella di un uomo di cultura, ma di un uomo in fuga. Una fuga non per sé stesso, ma per coloro che, uno dopo l’altro, avrebbe cercato di salvare dalle mani del regime di suo fratello.

Un Göring contro Hitler

Se Hermann Göring fu tra gli architetti dell’orrore nazista, Albert divenne un infiltrato nell’ingranaggio, un elemento anomalo che operava non con proclami o atti di ribellione clamorosi, ma con il sottile e pericoloso sabotaggio. Un cognome, in certi contesti, può essere una condanna. Ma Albert lo trasformò in un lasciapassare per la salvezza.

Quando nel 1938 l’Anschluss segnò la fine dell’Austria indipendente, Albert Göring non rimase a guardare. Vienna, la città che aveva amato e dove aveva respirato il fervore intellettuale della Mitteleuropa, veniva soffocata sotto il passo cadenzato delle truppe naziste. Le librerie si svuotavano, i caffè si svuotavano, le sinagoghe bruciavano. Il mondo che Albert conosceva stava scomparendo. E lui decise di non esserne spettatore.

Cominciò aiutando gli amici più stretti. Sapeva che il tempo era poco, che per chi era nel mirino del regime ogni giorno poteva essere l’ultimo. Strinse contatti con le reti clandestine, fornì documenti falsi, distribuì denaro. Ma non si limitò ad agire nell’ombra: sfidò apertamente il potere, in un’epoca in cui un gesto di umanità poteva equivalere a una condanna a morte.

L’episodio più emblematico avvenne in una strada di Vienna, quando Albert vide un gruppo di donne ebree costrette dalle SS a inginocchiarsi e pulire il selciato con le mani nude, mentre la folla osservava in silenzio, divisa tra indifferenza e paura. Albert si avvicinò, si tolse la giacca, si inginocchiò accanto a loro e iniziò a strofinare il pavimento. I soldati, dapprima increduli, lo interrogarono con asprezza. Ma quando mostrarono i suoi documenti e lessero il nome Göring, il loro sguardo si fece esitante. Non potevano umiliare pubblicamente il fratello del Reichsmarschall. Il loro superiore non volle correre rischi: le donne furono rilasciate e l’episodio archiviato.

Non fu un caso isolato. Albert intervenne più volte per liberare persone arrestate, sfruttando il peso del suo cognome per ottenere scarcerazioni che nessun altro avrebbe potuto permettersi. Tra coloro che salvò vi fu anche Oskar Pilzer, un noto produttore cinematografico ebreo, suo ex datore di lavoro. Arrestato e destinato a un campo di concentramento, Pilzer venne liberato grazie all’intervento diretto di Albert, che gli procurò documenti falsi e lo aiutò a fuggire con la sua famiglia.

Ma col tempo, Albert comprese che il suo aiuto ai singoli, per quanto vitale, non sarebbe stato sufficiente. Bisognava colpire il regime dall’interno, sabotarlo, eroderlo dall’ingranaggio stesso della sua macchina industriale e bellica. E fu allora che il fratello di Hermann Göring divenne un nemico pericoloso per Hitler.

Il sabotaggio industriale

Se l’arte della resistenza richiede astuzia, allora Albert Göring ne fu un maestro. Non un cospiratore che agiva nell’ombra, non un partigiano armato, ma un uomo che, con la sola potenza del proprio cognome, riuscì a erodere il sistema nazista dall’interno. E lo fece là dove il Reich era più forte: nelle sue fabbriche, nel cuore pulsante della sua macchina bellica.

Durante la guerra, Albert ottenne un incarico chiave: direttore delle esportazioni per la Škoda, colosso industriale cecoslovacco caduto nelle mani del Reich dopo l’occupazione della Boemia e Moravia. I nazisti consideravano l’azienda una risorsa strategica per la produzione di armamenti e veicoli militari. Albert, invece, la trasformò in un santuario per i perseguitati e in un laboratorio di sabotaggio.

Il suo metodo era tanto semplice quanto rischioso. La firma di un Göring, all’interno del regime, era un sigillo d’autorità. E Albert imparò a usarla. Più volte falsificò il nome del fratello Hermann, garantendo il rilascio di prigionieri con documenti che nessun burocrate osava mettere in discussione. Bastava un ordine firmato “Göring” perché un detenuto evitasse il trasferimento verso i campi di sterminio e venisse invece assegnato a una fabbrica, dove avrebbe avuto almeno una possibilità di sopravvivenza.

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Ma Albert non si limitò a salvare vite: mise in atto un vero e proprio sabotaggio industriale. Fece trasferire prigionieri dalle fabbriche tedesche a quelle sotto il suo controllo, dove le condizioni erano migliori e dove, soprattutto, la produzione bellica poteva essere rallentata. Organizzava rallentamenti strategici nella catena di montaggio, trasmetteva ordini errati, favoriva la resistenza ceca che operava all’interno degli impianti.

E poi c’erano i camion. Con la scusa di dover prelevare manodopera per le fabbriche, Albert riuscì più volte a ottenere il trasferimento di interi gruppi di prigionieri dai campi di concentramento. Ma una volta in viaggio, lontani dagli sguardi delle SS, i camion si fermavano in zone isolate. Le porte si aprivano, gli uomini scendevano, scomparivano nei boschi o trovavano rifugio presso la resistenza. Era un’operazione ripetuta più volte, un’ingegneria della fuga progettata con la freddezza di un tecnico e il coraggio di un sabotatore.

Ogni sua mossa era un passo in equilibrio sul filo del rasoio. Bastava una firma sbagliata, un ordine intercettato, un testimone scomodo, e per lui si sarebbero aperte le porte della Gestapo. Ma Albert non si fermò mai. Sapeva che il tempo era l’arma più potente contro il Terzo Reich: ogni ritardo, ogni documento falsificato, ogni prigioniero sottratto alla deportazione era un granello di sabbia nell’ingranaggio della macchina nazista.

L’ironia della storia volle che, mentre Hermann Göring progettava bombardamenti e sfruttava il lavoro forzato nei lager, suo fratello usasse il suo stesso nome per sabotare la guerra e sottrarre uomini al destino che il Reich aveva loro riservato. Un nome, due destini. E per Albert, l’unica certezza: la consapevolezza che, nella Germania di Hitler, il cognome Göring sarebbe stato insieme il suo scudo e la sua condanna.

Gli arresti e la difesa impossibile

Alla fine della guerra, quando il Terzo Reich crollò sotto il peso delle sue macerie e dei suoi crimini, Albert Göring si trovò davanti a un destino paradossale: non più il sabotatore silenzioso del regime, ma il prigioniero di una giustizia incapace di distinguere le sfumature della Storia.

Prima lo arrestarono gli Alleati. Portava un cognome che, in quel 1945 di tribunali e sentenze irrevocabili, non poteva che essere sinonimo di colpevolezza. Un Göring? Non servivano altre prove. Lo gettarono in cella, e con lui il suo nome, il suo passato, la sua stessa identità. Nessuno era disposto a credere che il fratello del maresciallo del Reich potesse essere stato un nemico del nazismo.

Albert si trovò a dover dimostrare l’indimostrabile: che un uomo nato nell’ombra di un gerarca, cresciuto nel cuore della Germania nazista, avesse passato la guerra a ingannare le SS, a falsificare documenti, a sottrarre vite alla macchina dello sterminio. Era un’accusa che andava contro la logica stessa della vendetta post-bellica.

Rimase in prigione per mesi, prigioniero non solo delle sbarre, ma di un pregiudizio inscalfibile. Fu allora che accadde qualcosa di straordinario: le persone che aveva salvato, i sopravvissuti alle persecuzioni, gli operai che aveva sottratto ai lager, i dissidenti che aveva aiutato a fuggire, scrissero lettere alle autorità alleate. Testimoniarono in suo favore, raccontarono il coraggio di quell’uomo che aveva usato il suo nome non per uccidere, ma per salvare.

Alla fine, gli Alleati furono costretti ad accettare l’evidenza. Albert Göring venne rilasciato. Ma la sua odissea non era finita. Poco dopo, fu arrestato di nuovo. Questa volta furono i cechi. Per loro, non era il sabotatore, il soccorritore, il nemico segreto del Reich. Era stato un dirigente della Škoda, un ingranaggio dell’apparato industriale nazista. Un collaborazionista.

Ancora una volta, la sua difesa sembrò impossibile. Ancora una volta, furono le testimonianze a salvarlo. Lo liberarono, ma a quale prezzo?

La sua vita dopo la guerra fu un calvario silenzioso. Il suo nome era una sentenza senza appello. Nessuno voleva dargli un lavoro. Non importava cosa avesse fatto, importava chi fosse. Hermann Göring era morto con il veleno tra i denti, ma il suo cognome continuava a uccidere, questa volta nel lento veleno dell’isolamento e della miseria.

Sua moglie, Mila, lo lasciò. Partì per il Perù, portando con sé la loro figlia. Albert non la rivide mai più, non ricevette mai risposta alle sue lettere. Rimase solo, con un passato che nessuno voleva ascoltare e un futuro che non gli apparteneva più.

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Negli ultimi anni sopravvisse con una modesta pensione statale, così esigua che, prima di morire, prese una decisione che aveva il sapore della pietà e della sconfitta: sposò la sua governante, affinché almeno lei potesse ricevere quell’ultimo, misero beneficio.

Una settimana dopo, il 20 dicembre 1966, Albert Göring morì nell’anonimato e nella povertà. Nessun corteo, nessun riconoscimento, nessuna commemorazione. Solo il silenzio, quello stesso silenzio in cui aveva agito, e che ora, beffardamente, lo inghiottiva per sempre.

L’ombra del cognome e il mancato riconoscimento

La Storia ha i suoi canoni di giudizio, i suoi tribunali postumi, le sue sentenze inappellabili. Eppure, a volte, il verdetto della memoria non è meno implacabile di quello di un’aula di giustizia. Così accadde per Albert Göring: un uomo che aveva salvato vite, che aveva ingannato il Terzo Reich per sottrarre ebrei e dissidenti alla macchina dello sterminio, ma che dopo la morte non ottenne né gloria né riconoscimento. Il suo nome, a lungo, non venne nemmeno pronunciato.

Se Hermann Göring divenne il simbolo di un’epoca di terrore, il soggetto di innumerevoli libri, documentari, processi e studi, Albert scomparve nelle pieghe della dimenticanza. Non c’era spazio, nella narrazione collettiva, per un Göring che non fosse carnefice. Non c’era curiosità per la storia di un uomo il cui unico peccato era stato quello di portare un cognome infame.

Per decenni, la sua vicenda rimase sepolta sotto il peso dell’irrilevanza. Se non fosse stato per il lavoro certosino di alcuni storici, come William Hastings Burke, che nel suo libro Thirty Four ricostruì la lista delle persone che Albert aveva salvato, il suo nome sarebbe rimasto confinato tra le note a margine della Seconda guerra mondiale. Il documentario The Real Albert Goering, trasmesso nel 1998 dal History Channel, contribuì a riportare alla luce la sua storia, ma con il pudore e la timidezza riservati a figure troppo scomode per essere incasellate nelle categorie del bene e del male.

Il Museo Yad Vashem, istituzione preposta a conferire il titolo di Giusto tra le Nazioni a chi aveva rischiato la vita per salvare gli ebrei dall’Olocausto, prese in esame il suo caso. Ma il verdetto fu freddo, burocratico, quasi paradossale: Albert Göring non sarebbe stato riconosciuto come Giusto. Pur riconoscendo che avesse aiutato molte persone, Yad Vashem dichiarò che non vi erano prove sufficienti per dimostrare che avesse corso “rischi straordinari” per farlo.

Una sentenza che, più che con la logica della giustizia, sembrava avere a che fare con la retorica della Storia. Perché Albert Göring, senza il peso di quel cognome, sarebbe stato celebrato come un eroe. Se il fratello non fosse stato Hermann, il suo nome sarebbe inciso nei memoriali della resistenza al nazismo. Invece, il fardello del sangue lo condannò due volte: prima all’isolamento in vita, poi alla dimenticanza dopo la morte.

Ma la Storia è paziente, e a volte, persino nell’indifferenza, resta una traccia, un’eco, un’impronta indelebile. Oggi il nome di Albert Göring inizia a essere studiato, raccontato, rivalutato. Non come un santo, non come un uomo senza ombre o contraddizioni, ma come un frammento della complessità umana che il Novecento ha troppo spesso cercato di semplificare.


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