Diplomatico solitario nella Parigi occupata, Abdol‑Hossein Sardari trasformò la burocrazia in un’arma di salvezza: manipolò norme, inventò un’etnia inesistente e distribuì passaporti falsi per sottrarre centinaia di famiglie alla deportazione.
L’anno della nascita di Abdol‑Hossein Sardari coincide con l’ingresso del mondo nella catastrofe della Prima guerra mondiale. La Persia, come allora si chiamava l’Iran, è un regno frammentato, povero ma strategicamente essenziale, conteso tra le mire dell’Impero russo, dell’Impero britannico e, in modo più sottile, del nascente potere tedesco. In mezzo a questo teatro geopolitico nasce, in una nobile famiglia di etnia turcomanna Qajar, un ragazzo destinato a calcare le scene di un altro conflitto, ben più oscuro.
Sardari apparteneva a una delle famiglie più prominenti della Persia monarchica. Un suo zio era stato ambasciatore; il padre, ufficiale e alto burocrate. L’educazione ricevuta era quella che spettava ai rampolli dell’élite: trilingue fin da giovane, educato con precettori francesi e britannici, formato nell’arte del cerimoniale e del pensiero critico, in un mondo in cui l’aristocrazia si fondeva ancora con le aspettative civili dell’Impero.
Ma fu in Europa che la sua visione si fece più precisa.
Ginevra anni ’30, tra diritto e neutralità
Il vento che soffiava su Ginevra negli anni Trenta era carico di illusioni e di timori. La città, piccola e signorile, affacciata sul lago e protetta dalle Alpi, sembrava quasi sospesa in una dimensione parallela, una sorta di enclave civile in un continente che già iniziava a scricchiolare sotto il peso della propria storia. In quella cornice, apparentemente serena ma profondamente consapevole del proprio ruolo geopolitico, Abdol‑Hossein Sardari compì uno dei passaggi cruciali della sua formazione: lo studio del diritto.
Era iscritto alla prestigiosa Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Ginevra, in un periodo in cui quell’istituzione era al centro del pensiero giuridico internazionale. Non era soltanto un’università; era un laboratorio intellettuale in cui si elaborava una nuova idea di diritto: non più legata solo alla sovranità degli Stati, ma sempre più orientata verso la costruzione di un ordine internazionale, arbitrato dalla legge. A due passi da lì sorgeva la sede della Società delle Nazioni, il primo esperimento globale di governance multilaterale, con le sue commissioni, i suoi tribunali arbitrali, le sue lingue ufficiali e le sue ambizioni titaniche.
Per un giovane persiano come Sardari, cresciuto nella cultura di un impero monarchico ma educato secondo modelli occidentali, Ginevra rappresentava una scuola non solo di diritto, ma di visione del mondo. Mentre in Germania i giuristi si piegavano alle teorie razziali, mentre in Italia il diritto veniva piegato al volere del Duce, a Ginevra si discuteva ancora di ius gentium, di diritti delle minoranze, di norme consuetudinarie.
Il diritto come linguaggio universale
Sardari frequentava corsi di diritto consolare, diritto pubblico internazionale e storia delle istituzioni. I suoi professori, molti dei quali reduci dalla prima guerra mondiale o transfughi da regimi autoritari, parlavano una lingua precisa: quella della legge come barriera morale. Le aule erano frequentate da studenti provenienti da ogni angolo del globo: giovani indiani, giapponesi, arabi, russi bianchi, francesi, persiani. Non era solo una formazione accademica: era una palestra diplomatica, un crogiolo di élite che sarebbero poi diventate protagoniste delle crisi a venire.
Sardari si distinse rapidamente. Non era il tipo da dominare i seminari con la voce, ma interveniva con lucidità e con una capacità tutta persiana di cogliere il punto debole in un sistema apparentemente coerente. In quegli anni sviluppò un’idea molto personale del diritto: non come strumento di potere, ma come scudo. Non come imposizione dello Stato, ma come trama di zone grigie in cui la salvezza degli individui poteva, con intelligenza, essere coltivata.
Qui matura l’interesse, quasi maniacale, per la burocrazia: non quella intesa come labirinto kafkiano, ma come strumento malleabile, addirittura creativo, da piegare alla giustizia.
La sua tesi di laurea, discussa nel 1936, fu dedicata al ruolo della rappresentanza consolare in territori ostili. È un lavoro dimenticato dagli archivi, ma che allora fece parlare di sé per la sua chiarezza. Il giovane Sardari vi esplorava i margini dell’azione consolare in contesti di crisi, riflettendo su come un rappresentante potesse, entro i limiti del diritto, proteggere cittadini non solo in senso formale, ma in senso morale. Scriveva che la rappresentanza diplomatica non si esauriva nei trattati, ma aveva radici nell’antico concetto di ospitalità tra popoli.
Era, in fondo, un’anticipazione in miniatura di ciò che avrebbe compiuto pochi anni dopo a Parigi.
Gli anni ginevrini non diedero a Sardari solo strumenti tecnici, ma gli offrirono un’etica della responsabilità. Mentre molti giovani giuristi uscivano dalle università europee con la convinzione che il diritto fosse ciò che il potere decide, lui ne usciva con un’altra idea: che il diritto potesse essere lo spazio in cui il debole trova rifugio.
In questo, Sardari non fu figlio del suo tempo. Fu suo oppositore silenzioso. Un uomo che imparò in Svizzera a credere nella forza della neutralità attiva, una neutralità che non significa indifferenza, ma capacità di costruire ponti dove altri alzano muri.
L’arrivo a Parigi
Quando Abdol‑Hossein Sardari sbarca a Parigi nel 1936, ha solo ventidue anni, ma si porta dietro il peso e l’orgoglio di una formazione rara: orientale per radici, occidentale per educazione, già affilata da studi giuridici e un’intelligenza raffinata. Lo accoglie una città che sembra ancora vivere con una spensieratezza post-bellica, nonostante le nuvole nere che si addensano sull’orizzonte europeo.
Parigi, in quell’anno, è un crocevia unico. La capitale francese conserva il suo fascino magnetico, centro dell’arte, della moda, della diplomazia e della retorica repubblicana. Ma sotto l’apparenza dei bistrot affollati, dei bouquinistes lungo la Senna e dei concerti nei teatri del Marais, qualcosa scricchiola. Hitler è già al potere in Germania dal 1933. In Italia, Mussolini ha stretto il suo controllo sul paese. In Spagna, la guerra civile è appena scoppiata. I segnali ci sono, ma a Parigi si fa finta di non vederli.
Sardari viene assegnato al consolato iraniano di Rue Fresnel, nel 16° arrondissement, uno dei quartieri più eleganti della capitale. Lavora sotto la guida di suo cognato, l’ambasciatore, ma già si distingue per precisione e iniziativa. Non è il tipo da imporsi con gesti teatrali, ma in poco tempo costruisce una fitta rete di relazioni che lo rende indispensabile nei circoli diplomatici orientali.
Per la Parigi degli anni Trenta, l’Iran è un attore minore ma interessante: il paese si sta modernizzando, il regime di Reza Shah punta su infrastrutture, ferrovie, istruzione, e cerca un equilibrio difficile tra potenze europee. Gli iraniani a Parigi sono pochi ma ben inseriti: studenti, commercianti, intellettuali. Sardari diventa presto una figura di riferimento per questa piccola diaspora.
Ma se di giorno lavora tra scartoffie e ricevimenti ufficiali, la notte è il regno dell’altro Sardari. Frequenta i salotti culturali del Faubourg Saint-Germain, si intrattiene nei caffè di Montparnasse dove ancora si discute di arte, politica, filosofia. È affascinato dalla cultura francese, ma non ne è soggiogato: la osserva con uno sguardo ironico, partecipe ma vigile, sempre cosciente della propria alterità persiana.
Lo si può immaginare nelle sale del Club des Ambassadeurs, tra tappeti orientali e fumo di sigari, discutere di diritto romano con un diplomatico egiziano, o di poesia di Hafez con un professore ebreo sefardita. Vestiva con eleganza, preferendo abiti scuri tagliati su misura, e portava con sé l’aura di chi è consapevole di essere un anello tra mondi troppo spesso distanti.
Sceglie di vivere nel quartiere del Bois de Boulogne, non lontano dal Jardin d’Acclimatation, in una villa discreta ma raffinata. È un angolo silenzioso della città, dove si incrociano ambasciatori, letterati in pensione, vedove di guerra e figli della buona società. Il quartiere riflette la sua personalità: riservata ma attenta, distinta senza ostentazione.
Ama la musica classica, in particolare il pianoforte romantico. Di Chopin diceva che era “il più persiano dei compositori europei”. Conserva in casa volumi rilegati di diritto, copie del Shahnameh, e riviste francesi d’attualità. Un intellettuale nel corpo di un diplomatico, un osservatore che sa leggere i segni del tempo, anche se non ne parla apertamente.
Già in quei primi anni parigini, Sardari comincia a percepire i cambiamenti nei toni del dibattito pubblico. I giornali riportano notizie sempre più inquietanti dalla Germania, ma le cancellerie europee oscillano tra negazione e realpolitik. La retorica razziale si fa strada nei salotti: sotto l’apparente civiltà illuminista, affiorano teorie biologiche, sospetti contro gli stranieri, antisemitismo larvato. Sardari non è un uomo politico, ma osserva con crescente inquietudine l’abbassarsi del livello morale nel discorso pubblico europeo.
L’invasione nazista
Il 14 giugno 1940, le truppe tedesche entrano in Parigi. Lo fanno senza incontrare resistenza, in un silenzio irreale. I parigini, increduli, osservano sfilare i carri armati e gli stivali neri della Wehrmacht lungo gli Champs-Élysées. I caffè sono chiusi, i balconi vuoti. La città della luce si spegne, travolta dal peso della sconfitta.
In quelle ore concitate, la macchina dello Stato francese si dissolve. Il governo si ritira a Vichy. Le ambasciate si svuotano. I diplomatici, le famiglie, i funzionari stranieri cercano rifugio nel sud ancora non occupato. Tra loro, anche l’ambasciatore iraniano, che abbandona precipitosamente la capitale. Ma un uomo rimane: Abdol‑Hossein Sardari.
Sardari non è obbligato a restare. Nessuno, a Teheran, gli ordina di farlo. Ma non prende il treno per Marsiglia. Non cerca rifugio in Svizzera, dove ha studiato e dove avrebbe trovato amici e protezione. Non si aggrega al personale diplomatico in fuga. Resta al suo posto, nella sede consolare iraniana, a Rue Fresnel, a pochi passi dalla Torre Eiffel. La scelta non è priva di rischio. In quella fase, nessuno sa come i tedeschi tratteranno le rappresentanze straniere. Gli equilibri sono ancora fluidi. Il pericolo è reale.
Perché lo fa? Non lo dice apertamente. Ma gli amici più vicini, e i rari appunti personali, parlano di una combinazione tra senso del dovere e fatalismo orientale. Il dovere, perché la comunità iraniana a Parigi, seppur piccola, ha bisogno di una guida, di un referente, di qualcuno che sappia parlare con le autorità d’occupazione. Il fatalismo, perché nella visione tradizionale persiana del mondo, la fedeltà al proprio ruolo ha un valore intrinseco, indipendente dall’esito.
Con la caduta della Francia, Parigi diventa una città ambigua: occupata militarmente ma ancora sede di rappresentanze internazionali. I tedeschi, pragmatici, non espellono tutti i diplomatici. Alcuni rimangono, operano in spazi sempre più ristretti, con funzioni sempre più informali. In questo scenario di incertezza, Sardari si ritrova, quasi per accidente, a capo della rappresentanza iraniana in Europa occidentale.
Il suo ufficio, un tempo burocratico e secondario, si trasforma in un punto di riferimento per centinaia di cittadini iraniani. Studenti, commercianti, intellettuali, molti dei quali ebrei, che ora si trovano improvvisamente vulnerabili. In una città dove le leggi cominciano a seguire logiche razziali, il possesso o meno di un passaporto può segnare la linea tra la vita e la morte.
Neutralità e propaganda
Nel giugno 1940, l’Iran (o Persia) è ancora un paese neutrale. Non ha dichiarato guerra a nessuno, ma non è neppure al riparo dalle pressioni. La Germania è uno dei suoi principali partner commerciali: esporta macchinari, acciaio, tecnologia, e riceve in cambio petrolio, tappeti, beni agricoli. La stampa nazista, per consolidare l’amicizia, diffonde una teoria affascinante e perversa: gli iraniani sono “ariani”.
La tesi si fonda sull’etimologia della parola “Iran”, derivata da “Aryānām” — “terra degli ariani”. Per il Reich, questa è una manna. Serve a giustificare una relazione strategica con un paese musulmano nonostante l’ideologia suprematista. In realtà, è una forzatura linguistica, ma Sardari, giurista sottile, ne coglie subito le potenzialità.
La propaganda nazista, nel suo sforzo di razionalizzare l’assurdo, apre una breccia logica. E Sardari intuisce che in quella crepa può infilarsi un’intera strategia di salvezza. Se gli iraniani sono ariani, allora lo sono anche gli ebrei iraniani. Se sono ariani, non sono soggetti alle leggi razziali. Se non sono soggetti, possono essere protetti.
Per il momento, questa è solo un’intuizione. Ma sarà il seme di tutto ciò che verrà dopo.
In quelle prime settimane dell’occupazione, Abdol‑Hossein Sardari lavora in silenzio, raccoglie informazioni, osserva. Non agisce ancora, ma prepara il terreno. Sulle scrivanie si accumulano richieste di protezione, lettere, suppliche. L’Iran, lontano, tace. La Germania, vicina, osserva. E in mezzo, un uomo solo in una città conquistata, con una penna in mano e una consapevolezza sempre più chiara: che il diritto, se saputo usare, può diventare arma di resistenza.
Il popolo Djuguten: etnologia immaginaria contro la persecuzione reale
Quando nel 1941 comincia a circolare nei rapporti della diplomazia tedesca il termine Djuguten, nessuno sa bene che cosa significhi. Non compare nei registri etnografici. Non è documentato nei testi rabbinici. È, a tutti gli effetti, una creazione giuridica e linguistica di Abdol‑Hossein Sardari. Una trovata al tempo stesso assurda e profondamente razionale: inventare un popolo per salvarne un altro.
Il termine, fittizio ma verosimile, viene fatto risalire da Sardari a una presunta minoranza etnico-religiosa esistente in Persia: un gruppo di “seguaci di Mosè” che, sebbene praticasse alcuni riti ebraici, non era né giudaico né semita. Secondo questa narrativa, i Djuguten sarebbero i discendenti di quegli ebrei che, al tempo del re Ciro il Grande, scelsero di restare in Persia piuttosto che tornare a Gerusalemme, integrandosi culturalmente ma mantenendo una fede monoteista affine a quella mosaica.
Sardari non era uno storico. Ma sapeva come costruire una genealogia accettabile agli occhi della burocrazia razzista tedesca. Il genio di Sardari non è quindi solo nella creazione del termine, ma nell’uso delle stesse armi retoriche del nemico. I nazisti avevano elaborato un sistema pseudoscientifico, un misto di linguistica, genealogia, biologia e diritto per determinare l’identità razziale. Sardari, da giurista, ne esplora le contraddizioni. Enuncia che i Djuguten non parlano yiddish; che il loro sangue non ha nulla in comune con quello degli ebrei ashkenaziti o sefarditi; che la loro fede non è una religione organizzata, ma una tradizione familiare; che non esistono rabbini, sinagoghe o testi religiosi riconducibili alla diaspora giudaica.
Spiega che, secondo la concezione persiana, la fede è una questione personale, non di razza; che la società iraniana non ha mai distinto le persone su base razziale, ma solo culturale. I Djuguten, per lui, non sono una “razza” ebraica, ma un’espressione della pluralità culturale iraniana. E, soprattutto, sono “ariani”. Linguisticamente, etnicamente, storicamente. Una tesi capziosa, certo, ma nella logica perversa del nazismo, perfettamente coerente.
Sardari traduce questa teoria in rapporti giuridici dettagliati, scritti con il tono neutro e impersonale della diplomazia. Invia lettere alle autorità tedesche di Parigi, al comando della Gestapo, alla sezione degli Affari Ebraici. Cita testi antichi, riferimenti storici, passaggi della Bibbia, persino interpretazioni linguistiche di origine sanscrita. Ogni frase è calibrata per resistere a una contro-argomentazione.
Non chiede grazia, chiede eccezione. Non supplica, dimostra. E in questo, agisce secondo la logica del potere che vuole smantellare: se la legge razziale si fonda sull’appartenenza di sangue, allora basta dimostrare che quel sangue è diverso. È un gioco pericoloso, ma condotto con precisione chirurgica.
La risposta tedesca non si fa attendere. Dalla capitale del Reich partono richieste di approfondimento. Viene chiesto un parere agli “esperti in razza” dell’Ahnenerbe, l’ente pseudo-scientifico nazista dedicato alla purezza genealogica. I funzionari sono perplessi. Il dossier Djuguten è lungo, denso, e solleva più dubbi che certezze.
Uno dei responsabili, in una lettera conservata negli archivi, scrive: “Il caso presenta elementi di ambiguità tali da giustificare una sospensione provvisoria del giudizio.”
In linguaggio amministrativo, questo equivale a un piccolo miracolo: significa che, per ora, i Djuguten non saranno perseguitati.
Il burocrate della salvezza
Nel silenzio del suo ufficio, Abdol‑Hossein Sardari comincia a stampare passaporti. Non solo per gli ebrei iraniani, ma anche per molti altri: polacchi, francesi, tedeschi, ai quali conferisce documenti iraniani (falsi ma perfettamente verosimili) per permettere loro di fuggire da una città che sta diventando una trappola mortale.
La sua vita privata si restringe. La sua posizione si indebolisce. Ma lui resta al suo posto.
Nei registri consolari, cominciano a comparire nomi associati alla dicitura “Djuguten (non-Jude)”. Alcuni funzionari francesi, ancora attivi sotto l’occupazione, seguono la linea. I più collaborazionisti si oppongono, ma Sardari li argina con fermezza, supportato da quella fragile ma ancora presente ambiguità della neutralità iraniana.
L’intuizione più radicale di Sardari è che l’identità non è mai del tutto stabile. La costruzione giuridica dell’identità (cittadinanza, etnia, religione) è fluida e manipolabile. E se l’identità può condannare, può anche salvare. Sardari, da solo, apre uno spazio semantico all’interno del linguaggio nazista per creare un’eccezione. Non un’eccezione morale (sarebbe inutile con i nazisti) ma una categoria amministrativa.
Nel linguaggio del potere, chi riesce a creare una categoria, vince.
La strategia Djuguten non diventa mai ufficiale, ma funziona abbastanza a lungo da salvare centinaia di famiglie. I documenti associati a questa categoria, molti dei quali falsificati con grande perizia, permettono a intere comunità di evitare la schedatura, la deportazione, la morte.
Sardari non fa proclami. Non scrive diari emotivi. Non racconta mai questa strategia nei dettagli, nemmeno dopo la guerra. Ma i documenti rimasti — lettere, appelli, rapporti — parlano per lui. E raccontano la storia di un uomo che inventò un popolo immaginario per salvare quello reale.
L’oblìo dopo la guerra
Quando la guerra finì nel maggio 1945, Abdol‑Hossein Sardari rimase a Parigi, ma la sua posizione divenne rapidamente precaria. La riconfigurazione delle relazioni internazionali ridusse l’importanza della sua funzione: il consolato riaprì solo parzialmente, molti dei suoi interlocutori erano spariti, e la comunità iraniana si dispersero nel flusso del dopoguerra. Pur non essendo stato formalmente allontanato, Sardari non ebbe ruoli di rilievo e cominciò a vivere le conseguenze di un impegno silenzioso e rischioso.
Tra la fine degli anni Quaranta e l’inizio degli anni Cinquanta, Sardari rientrò in Europa orientale, con un incarico a Bruxelles presso la missione iraniana presso la NATO nascente. Qui si trovò coinvolto in dispute interne: i diplomatici più giovani, formatisi dopo il conflitto, lo consideravano fuori tempo, legato alla vecchia diplomazia monarchica. Il cambio di regime e i moti di rifondazione globale segnarono il tramonto del suo profilo ufficiale.
Negli anni Sessanta e Settanta, Sardari rimosse gran parte della sua presenza pubblica. Tornò in Iran per un breve periodo, ma la Rivoluzione del 1979 lo privò definitivamente dei suoi beni: proprietà, pensione, archivi personali. Riprese a viaggiare fra Europa e Iran, ma ormai era un uomo senza status diplomatico.
Si trasferì in Inghilterra, ospite di un nipote a Nottingham, dove visse in una modesta abitazione. Nessuna famiglia iraniana lo cercava, nessuna società scientifica o istituzione lo nominava. Amico del nipote, uomo pacato e riservato, trascorse gli ultimi anni senza riconoscimenti né clamori. Morì nel 1981, poco dopo i sessantacinque anni.
Eredità oggi
Alla fine della sua vita, Abdol‑Hossein Sardari era un uomo marginale, senza cariche pubbliche né onorificenze. Morì nel 1981 a Nottingham, in Inghilterra, dove si era ritirato dopo la perdita della propria pensione e dei beni in Iran, confiscati a seguito della rivoluzione del 1979. Aveva circa sessantacinque anni. Non scrisse memorie, non concesse interviste, non lasciò tentativi di ricostruire o trasmettere il proprio operato durante gli anni dell’occupazione nazista in Francia. La sua figura rimase del tutto ignorata tanto in Iran quanto in Europa, almeno fino all’inizio degli anni Duemila.
Le sue azioni, tuttavia, si collocano con chiarezza all’interno del quadro degli interventi individuali a favore di popolazioni perseguitate, realizzati al di fuori di reti resistenziali organizzate, e spesso da funzionari di Stati neutrali o collocati in posizione ambigua rispetto al conflitto. Tra il 1940 e il 1944, Sardari rimase a Parigi come funzionario consolare iraniano, dopo la partenza dell’ambasciatore e della maggior parte del personale. La sua presenza (non autorizzata da Teheran, ma tollerata dai tedeschi) gli consentì di svolgere un’attività prolungata di assistenza alla comunità iraniana residente in Francia, composta in parte significativa da cittadini di religione ebraica.
La strategia di Sardari si fondò su un impianto giuridico costruito con attenzione: partendo dalla classificazione degli iraniani come “ariani” secondo la propaganda del Reich, egli sostenne la distinzione etnica degli ebrei iraniani rispetto a quelli europei, argomentando che si trattasse di un gruppo distinto, non soggetto alle leggi razziali tedesche. A partire da questa premessa, e con l’uso di documenti consolari e passaporti iraniani, spesso retrodatati o privi di indicazione religiosa, Sardari riuscì a sottrarre centinaia di persone alla schedatura e alla deportazione. Le stime più attendibili parlano di oltre 2.000 individui beneficiati, ma l’assenza di registri consolari sistematici rende ogni cifra puramente indicativa.
Nonostante il valore indubbio di questa azione, Sardari non è stato riconosciuto tra i “Giusti tra le Nazioni” da Yad Vashem. La causa va ricercata probabilmente nella mancanza di testimonianze dirette dei salvati, nell’assenza di documentazione ufficiale e nella difficoltà di attribuire con certezza specifici salvataggi a singole azioni del console iraniano. Il suo caso rientra in quel vasto insieme di figure rimaste ai margini della memoria ufficiale, soprattutto quando non affiliate a reti resistenziali europee o a comunità istituzionalmente protette.
A oggi, la sua vicenda è stata parzialmente recuperata da alcuni studi specialistici, in particolare dal lavoro di Fariborz Mokhtari (In the Lion’s Shadow, 2011), e da alcune testimonianze della diaspora iraniana ebraica. Il Simon Wiesenthal Center gli ha reso omaggio nel 2004, ma la sua figura resta largamente assente sia dalla storiografia occidentale, sia da quella iraniana, dove la memoria del periodo monarchico risulta fortemente selettiva.
Sardari costituisce quindi un esempio interessante di resistenza individuale agita attraverso strumenti amministrativi: la penna, il formulario, la lettera firmata. Il suo operato si colloca in quella zona grigia in cui il diritto, applicato con intelligenza e flessibilità, può diventare strumento di protezione, anche dentro regimi ostili. È un caso che interroga la nostra idea di eroismo: non legato al gesto eclatante o alla visibilità pubblica, ma a una pratica quotidiana, consapevole e ostinata, portata avanti nell’ombra e senza alcuna ricompensa prevista.
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