di Daniele Bordoli
“Non chiamatelo fatto culturale”. È questo che chiedono le donne boliviane riguardo gli atti di violenza, domestica e non, che continuano a subire. I dati sono, infatti, sempre più preoccupanti: un’inchiesta del 2014 promossa dalla Organización Panamericana de la Salud e dall’ente Capacitación y Derechos Ciudadanos pone la Bolivia tra le prime posizioni, in classifiche sicuramente non invidiabili. Infatti, risulta al primo posto tra i paesi del Latinoamerica per violenza fisica contro le donne e al secondo per violenza sessuale.
Eppure alcuni passi in avanti, negli ultimi anni, si sono compiuti: il 9 marzo del 2013 il Parlamento boliviano ha approvato la legge 348, “Legge per garantire alle donne una vita libera dalla violenza”. Per la prima lo Stato Plurinazionale di Bolivia pone come priorità nazionale l’eliminazione della violenza contro le donne in ogni sua forma (art.3). Una legge contemporanea e al passo con i tempi, che prevede un inasprimento delle pene per chi commette l’atto di violenza e basata sui principi di uguaglianza e inclusione. È stato addirittura previsto il reato di “violenza mediatica”, che include tutte quelle forme di discriminazione, sessismo e esclusione sociale che passano attraverso un mezzo di comunicazione.
Ma cos’è cambiato dalla promulgazione della 348? I dati dicono che il problema continua a sussistere: nel 2016 son 2500 i casi denunciati allo SLIM (Servicio Legal Integral Municipal) della sola città di El Alto, e a questo si aggiunge una giustizia che fatica a fare il suo corso, con solo 214 procedimenti svolti. 67 sono i casi di femminicidio tra Giugno e Agosto. 7 su 10 sono le donne che hanno ammesso di aver subito violenza sessuale nel corso della propria vita.
Ed è inquietante pensare che il 25% delle donne boliviane legittimi l’utilizzo della violenza da parte del proprio padre o marito. E così mentre le orde di turisti si affannano per vedere il celebre “wrestling delle cholitas”, lotta tradizionale di donne in abiti tipici, altre donne lottano per un cambiamento radicale. Dove non riesce il governo, sono le ONG e i comitati ad agire.
La costituzione del comitato #Niunamenos Bolivia e della rete Alianza libres sin violencia hanno portato nuova vitalità al movimento, e la partecipazione alla marcia del 25 novembre è stata oltre ogni previsione.
“Non chiamatelo fatto culturale”. E il primo passo per debellare la piaga è sempre il lavoro con bambini e adolescenti, così molte associazioni come ad esempio ECAM a Tarija o il Centro Gregoria Apaza a El Alto, hanno avviato dei laboratori di sensibilizzazione per ragazzi, affinché possano poi essi stessi essere promotori tra i propri coetanei. La strada è lunga, ma la determinazione verso l’obiettivo è forte. Per una vita, realmente, libera dalla violenza.
(grazie a Laura Casanovas per i preziosi dati)
Per approfondire:
www.alianzalibressinviolencia.org
www.paho.org
www.cdcbolivia.org.bo
http://www.alianzaporlasolidaridad.org/en/tag/region-andina
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