Il silenzio assordante sui 100 mila desaparecidos messicani

Riconoscere le falangi, l’osso ioide, il cuboide. Identificarli come umani, come ciò che rimane di una persona. Sapere che quando si cerca nella terra è opportuno romperne le piccole zolle perché potrebbero contenere vertebre che, forate al centro, sono ossa che facilmente si riempiono e accumulano detriti. Apprendere quali procedure seguire per ottenere un’identificazione biometrica valida. Nessuna persona dovrebbe vedersi obbligata a imparare a fare tutto ciò. Eppure decine di donne e uomini appartenenti a collettivi di familiari dei 100 mila desaparecidos messicani stanno acquisendo tecniche di indagine forense per supplire lacune e carenze istituzionali.

Un viaggio oltre i numeri, alla scoperta delle storie di attivisti e familiari che non si arrendono.

Il sole tramonta sulla pianura e tinge tutto d’oro: fili d’erba, farfalle, lapidi. Siamo nel cimitero comunale di Tetelcingo, un municipio dello stato messicano di Morelos. Riunite in cerchio, una trentina di persone pregano con in mano mazzi arancioni di fiori di cempasúchil, candele, striscioni e cartelli con le foto di decine di volti accompagnati da uno slogan – un’invocazione –: “¿dónde están?”. Dove sono le migliaia di desaparecidos che continuano a mancare?

Tra la folla c’è anche una giovane donna con occhi seri e capelli corvini dai riflessi ramati. Il suo nome è Edith Hernández Torres e oggi è la prima volta che torna in questo posto dopo che, cinque anni fa, è riuscita a trovare il corpo di Israel Hernández Torres, suo fratello. Sequestrato nel 2012, Israel era stato sepolto in una fossa clandestina insieme ai cadaveri di almeno un centinaio di persone. Molti riportavano segni di tortura, di morte violenta. Qui, per anni, la procura locale ha autorizzato sepolture illegali senza alcuna identificazione preliminare.

È il 15 ottobre 2021 e le preghiere che risuonano nel tramonto mirano a portare un po’ di serenità in questo luogo oltraggiato.

“Ora Israel ha la sua tomba: mia madre ha un posto dove andare a trovarlo per il suo compleanno e per il giorno dei morti, ma non avevamo ancora affrontato il ritorno alla fossa comune”, racconta Edith. “Credo però che sia importante essere qui oggi, per lasciarsi le emozioni alle spalle”.

Da quando non è più un desaparecido Israel riposa in pace, accudito dalle persone che gli hanno voluto bene. Edith sa che questo è un privilegio raro. In Messico la maggior parte delle famiglie di desaparecidos vive nell’angoscia di non sapere dove si trova la propria persona amata e per loro l’elaborazione del lutto è un processo spesso impossibile. È anche per questo che, dopo aver trovato suo fratello, Edith ha continuato a far parte del collettivo Regresando a Casa e a dedicarsi alla ricerca delle altre persone scomparse.

Lo scopo della Brigada è ritrovare tutte le persone scomparse, a prescindere dai vincoli di sangue: fatta in collettivo, la ricerca dei desaparecidos è infatti una forma di bene comune. [Caterina Morbiato/Frontiere News]

Secondo il Registro Nacional de Personas Desaparecidas y No Localizadas dal 1964 al 22 aprile 2022 i desaparecidos in Messico sarebbero 99.261. La soglia dei 100 mila – ormai prossima e simbolicamente terrificante – è in ogni modo da considerarsi come un dato ufficiale che non include i molti casi in cui la sparizione di una persone non è registrata in maniera corretta, spesso a causa di autorità indolenti, colluse o incompetenti.

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“Ci sono anche molte persone che non denunciano per paura o perché ignorano le procedure. Le chiamiamo ‘famiglie orfane’: sono quelle che non fanno parte di nessun collettivo e che aspettano che la situazione si risolva da sola”, racconta Arturo Carrasco Gómez, rettore della parrocchia anglicana Sagrada Familia di Città del Messico. “Ho persino saputo di sacerdoti che dicono alle famiglie di smettere di cercare i propri cari e di lasciare le cose nelle mani di Dio: come se si trattasse di una questione magica!”.

Da diversi anni padre Arturo accompagna le famiglie dei desaparecidos sia sul campo, durante le ricerche, sia mettendo a disposizione i locali della parrocchia per riunioni e momenti di convivio. L’anno scorso, quando le ricerche erano ancora limitate a causa della pandemia di covid-19, la parrocchia ha ospitato un workshop di osteologia forense in cui le famiglie hanno imparato a distinguere tra ossa umane e animali. “Sembra una scena quasi dantesca!”, commenta il religioso. “Per i collettivi però è necessario avere uno spazio in cui sentirsi accolti e sicuri”.

Riconoscere le falangi, l’osso ioide, il cuboide. Identificarli come umani, come ciò che rimane di una persona. Sapere che quando si cerca nella terra è opportuno romperne le piccole zolle perché potrebbero contenere vertebre che, forate al centro, sono ossa che facilmente si riempiono e accumulano detriti. Apprendere quali procedure seguire per ottenere un’identificazione biometrica valida. Nessuna persona dovrebbe vedersi obbligata a imparare a fare tutto ciò.

Eppure decine di donne e uomini appartenenti a collettivi di familiari di desaparecidos stanno acquisendo tecniche di indagine forense per supplire lacune e carenze istituzionali. Lo fanno costrette dalle circostanze, desiderose di ottenere verità e giustizia per i loro tesoros, come solitamente chiamano le persone care scomparse.

Tanto le persone desaparecidas come le loro famiglie sono spesso vittime di criminalizzazione e stigmatizzazione da parte delle autorità. [Caterina Morbiato/Frontiere News]

“È stato un processo complicato”, spiega Edith. “All’inizio, per l’esame del DNA, ci fidavamo dei funzionari della Procura. Gli lasciavamo il nostro campione di sangue ma in cambio non ci davano nulla, nemmeno un certificato che dimostrasse il prelievo. E così poi ci dicevano che non era stato elaborato, che era inservibile, che l’avevano perso. È stato nei workshop che gli esperti ci hanno insegnato che bisogna chiedere il risultato: l’elettroferogramma, un grafico che puoi integrare ai tuoi documenti e lasciarlo in altre procure così può essere confrontato con i profili dei corpi che sono negli obitori. Sappiamo anche che ci sono altri metodi, come la dattiloscopia, e che non vengono utilizzati”.

È grazie allo sforzo dei collettivi di familiari se negli ultimi anni si sono ottenuti risultati importanti come la promozione di nuove normative in materia di diritti umani, il ritrovamento di numerose inumazioni illegali ma anche la localizzazione di persone scomparse ancora in vita, ottenuta cercando a fondo in carceri, ospedali, centri di accoglienza per persone migranti, comunità di recupero.

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Nel 2017, Edith e altre familiari hanno partecipato all’esumazione della fossa del municipio di Jojutla, Morelos, una sepoltura clandestina con 84 salme scoperta un anno più tardi di quella in cui era stato seppellito suo fratello Israel.

“L’informazione genetica di Jojutla è rimasta nel limbo per anni, la convalida dei profili genetici è stata fatta solo nel 2021”, ricorda Edith. “Si tratta di un processo burocratico in cui quattro istituzioni, l’università e la procura dello stato di Morelos, la polizia scientifica – ora Guardia Nazionale – e la Procura federale, dovevano semplicemente riunirsi e confrontare i rispettivi dati genetici. Per le famiglie sono stati quattro anni di attesa: lo Stato ha il processo nelle sue mani e aumenta la nostra sofferenza”.

Come narra il documentario Volverte a ver (Vederti di nuovo), della regista messicana Carolina Corral, alle familiari è stata concessa l’entrata agli scavi ma senza macchina fotografica o la possibilità di essere accompagnate da un perito indipendente. Armate di penna e quaderno hanno trascorso giorni disegnando e annotando tutti i particolari rinvenuti sui corpi che avrebbero potuto essere utili per un eventuale riconoscimento: il colore di un reggiseno, la scritta su una maglietta, un tatuaggio.

Di fronte all’aumento di sparizioni e all’inefficienza delle autorità, nel 2016 è nata la Brigada Nacional de Búsqueda de personas desaparecidas (Brigata nazionale per la ricerca di persone scomparse): uno strumento indipendente creato per fare rete e potenziare lo sforzo dei collettivi. Un “esercizio d’amore” – come le stesse partecipanti lo definiscono – il cui scopo non è quello di individuare i colpevoli, ma di ritrovare tutte le persone scomparse nel Paese, a prescindere dai vincoli di sangue, e di lottare per la ricostruzione della società messicana.

La Brigada ha realizzato la sua sesta campagna di ricerca ad ottobre dello scorso anno in una dozzina di municipi di Morelos – tra cui Jojutla e Tetelcingo –, riuscendo a localizzare undici corpi umani e più di un centinaio di frammenti ossei.

“Quando un corpo o dei resti vengono identificati è un momento di felicità collettiva perché una famiglia ha ritrovato la sua persona amata”, dice Tita Radilla, attivista e vicepresidentessa della Asociación de Familiares de Detenidos Desaparecidos y Víctimas de Violaciones a los Derechos Humanos en México (AFADEM). “Ripetiamo lo slogan ‘Vivi se li sono portati via, vivi li rivogliamo’, ma sappiamo che i nostri cari sono stati fatti sparire da criminali, non da brave persone, e quindi li cerchiamo in ogni condizioni possibile”.

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Classe 1950, i modi posati ma energici, Tita è un riferimento della lotta per i diritti dei desaparecidos e dei loro familiari. La sua battaglia è iniziata quasi cinquant’anni fa con la sparizione per mano dell’esercito di suo padre, Rosendo Radilla Pacheco, leader contadino dello Stato di Guerrero, che solidarizzava pacificamente con il movimento guerrigliero di Lucio Cabañas componendo canzoni.

Quella di Morelos è la terza Brigada nazionale a cui Tita ha partecipato; per lei questo movimento “indescrivibile e meraviglioso” è una seconda famiglia composta da persone che condividono un dolore simile ma anche la determinazione di ritrovare tutte le persone ancora assenti, convinte che il Messico possa aspirare a un futuro di pace.

Tita Radilla, storica attivista della lotta per i diritti dei desaparecidos e dei loro familiari, partecipa alla VI Brigada Nacional de Búsqueda. [Caterina Morbiato/Frontiere News]

Come Tita, anche Ana Paola Sánchez Pulido del collettivo Guerreras Buscadoras riconosce nella Brigada un famiglia. Di suo fratello, Héctor Raúl Rosales Pulido, si sono perse le tracce il 30 agosto 2020 nella cittadina di Guaymas, Stato di Sonora, a quasi 2000 chilometri di distanza da Morelos

“So che qui non lo troverò, ma non cerco solo lui: cerco tutti. Tutti ormai sono i miei fratelli, i miei cugini, mio padre, mia madre, qui tutti cerchiamo tutti”, afferma la giovane.

Sebbene in Messico si siano fatti alcuni passi avanti nella gestione della crisi dei desaparecidos esistono ancora molte resistenze da parte di certi organismi – in particolare i pubblici ministeri – che impediscono un miglioramento vero e proprio della situazione. Inoltre, come evidenziato nel report presentato lo scorso 12 aprile dal Comitato delle Nazioni Unite sulle sparizioni forzate, l’impunità in Messico è una caratteristica strutturale che favorisce tanto la revittimizzazione delle stesse vittime come la riproduzione e l’occultamento delle sparizioni forzate, rendendole di fatto “il paradigma del crimine perfetto”. A novembre 2021, si stima che solo tra il 2% e il 6% dei casi di sparizione forzata fossero stati perseguiti; a livello nazionale le sentenze pronunciate rispetto a questo tipo di delitto ammontano a 36.

“Durante la Brigada ho ascoltato le storie di tante compagne che cercano da cinque, dieci, dodici anni e mi chiedo se un giorno anche io dirò la stessa cosa: che cerco mio fratello da moltissimi anni”, riflette Ana Paola. “Non so…non voglio arrivare a questo punto, vorrei incontrarlo e dare un poco di pace a mia madre”.


Profilo dell'autore

Caterina Morbiato
Caterina Morbiato
Caterina Morbiato è antropologa e giornalista freelance. Si occupa di lavoro e nuove tecnologie, trasformazioni urbane, migrazioni. Ha scritto per Napoli Monitor, il manifesto, Altaïr, Vice, Animal Político, Il Tascabile, Jacobin Italia, El Sur. Vive a Città del Messico.
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