Libia, la vita al tempo di “Gheddasconi”

All’entrata di Benghazi ora campeggiano grossi graffiti sui muri: “Free Libya”. Niente più poster e cartelloni inneggianti alla Jamahiriya di Muammar Gheddafi, iniziata dal primo settembre 1969. E pensare che, neanche 3 anni fa, Gheddafi aveva promesso innovazioni amministrative e una più ampia redistribuzione del reddito proveniente dal petrolio. Nello stesso anno a Tripoli è arrivata Condoleeza Rice, il primo segretario di Stato Usa a fare visita in Libia dal 1953. Pochi giorni prima invece era arrivato l’accordo con il premier italiano Berlusconi sui 5 miliardi di “indennizzo”, tra cui 2.3 impegnati per i 1.700 chilometri che dividono la Tripolitania dalla Cirenaica, oltre il golfo della Sirte. Negli stessi mesi veniva portato avanti l’acquisto dei diritti da parte della British Petroleum su un giacimento di olio e gas al largo di Benghazi, dentro il golfo della Sirte appunto.

Quarantuno anni dopo l’espulsione degli italiani dalla Libia, che proprio loro avevano chiamato così dopo averla sottratta all’impero Ottomano, l’Italia si ritrova a fare i conti con un compleanno amaro. Cosa ne sarà ora del 7% di Unicredit, del 7,5% di Juventus o della partecipazione all’Eni, cui sono state appena prolungate le concessioni per altri 25 anni, in cambio di 28 miliardi di investimenti? Niente male per uno che doveva essere il Che Guevara d’Africa, e invece è finito per fare il “Gheddasconi”. “Gli imprenditori sono i soldati della nostra epoca” – ha dichiarato il colonnello, in vena di boutade – un’abitudine che condivide insieme al primo ministro italiano.

Gheddafi è un grande, la Libia è un paese ricco, chi non trova lavoro ha perfino un sussidio a disposizione. Noi siamo un popolo di dignità, non andiamo in strada a mendicare” – mi raccontava Suleiman, tripolino doc, durante la mia visita, nel 2006.

Ero andato in Libia all’indomani degli scontri al consolato di Benghazi il 17 febbraio, tra l’altro tappa prevista del viaggio e saltata all’ultimo momento. Tripoli però l’ho vista bene, e con essa anche Nalut, Sebha e i gioielli Ghadames e Sabratha, città di Apollo, ricostruita dagli italiani e ora importante sito archeologico. Più a est invece si trova Leptis Magna, dedicata al culto di Dioniso, accanto alla cittadina di Zliten, già colonia di molti italiani emiliani e veneti. “Qui facevano tanto vino fino a qualche anno fa” – mi raccontava Mohammed, ragazzo conosciuto per strada fuori dal lussuoso hotel – rigorosamente pubblico – dedicato ai turisti. All’ombra della grande città dionisiaca, già luogo di nascita di Settimio Severo, la piccola Zliten cerca di fare soldi col turismo, ma i flussi sono ancora talmente bassi da non permettere un’organizzazione di qualsiasi tipo. In effetti, forse meglio così. Tanto che Mohammed, per la sorpresa di incontrare un italiano per strada per una volta da solo, senza guide né autista, mi invita a casa da lui. Suo padre ha lavorato come operaio cantoniere, anche con ditte italiane, e mi ripete con orgoglio le parole che più ricorda: “Meschino, Alfa Romeo, Brigate Rosse”.

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Ma fee al-hamm ma takh-taar”, come dice il proverbio libico: “non c’è altra scelta nel male”, quando qualcosa di negativo accade, non si può fare a meno di affrontarlo. Una posizione da militare insomma, che Gheddafi ha voluto sottolineare con discorsi tanto rapidi da stupire la folla, abituata ai suoi lunghi panegirici pro-Islam e suggestioni panarabiche. Leggo dal suo libro, pubblicato da Manifestolibri nel 2006, ma sommessamente stampato per la prima volta nel 1993 a Sirte, sua città natale: “Dal punto di vista umano non c’è niente di peggio della tirannia di una moltitudine!! È come un torrente impetuoso che non ha pietà di chi gli si trova dinnanzi!!” – e continua così, il racconto, intitolato “Fuga all’inferno” – “Non ascolta le sue grida, né gli tende la mano, anche quando questi chiede aiuto e implora… Ma lo travolge senza alcun riguardo”.

Una premonizione? “La tirannia del singolo è la più debole forma di tirannia, perché si tratta comunque di un singolo” – aggiunge lo scrittore Gheddafi in queste sue note, pubblicate in francese a Losanna nel 1996. “Quanto amo la libertà collettiva, la sua esplosione incontrollata dopo aver spezzato le proprie catene, mentre canta e salmodia dopo essersi lamentata ed aver a lungo sospirato: eppure io la temo e sono diffidente nei suoi riguardi!”

Pochi sanno che in Libia sono gli uomini a ballare, mentre le donne suonano, da usanza berbera. E così era successo anche a me sulle dune di Ghadames, al confine con la Tunisia, luogo di riprese di Timbuctù, nonché patrimonio dell’Unesco. Nel mezzo delle danze, chiedo a Hanibal cosa ne pensa di Gheddafi. Lui è l’unico a parlare francese, gli altri capiscono solo l’arabo. Nonostante la mia guida, nonché il poliziotto impegnato sempre ad accompagnarci, mi avessero sconsigliato di fare domande politiche a chicchessia, ho pensato che Hanibal, essendo algerino, non avrebbe avuto problemi. Dopo uno sguardo torvo di quelli che nel deserto proprio non puoi scansare, Hanibal dichiara con eloquenza: “Noi algerini e i libici siamo fratelli. Non come gli egiziani, i tunisini, i marocchini. Noi siamo tribù, più di un popolo. Per noi l’ordine è fondamentale, e Gheddafi ha reso la Libia rispettabile, per questo vengono qui a lavorare da tutto il mondo, pure romeni, ucraini. E anche gli italiani, mi sembra, fanno ottimi affari con i libici.”

Gheddafi sembra sempre di più un Lawrence d’Arabia da secondo tempo, dopo aver perso la chance internazionale del 2008, l’apertura al turismo, con tanto di investimenti milionari con il magnate e filantropo Hassan Tatanaki e la progettazione architettonica di Norman Foster, già protagonista della ristrutturazione del Reichstag a Berlino. L’accordo con le tribù che popolano da sempre il deserto è venuto meno proprio come nel grande film di David Lean, che nel ’62 raccontava il delirio di onnipotenza di un inglese che voleva unire gli arabi, e finiva per fare il gioco della madrepatria inglese. Allo stesso modo, dopo anni di affari e promesse, nonostante il benessere raggiunto, Gheddafi si ritrova a fare i conti con il patto mancato, e deve riaffermare con il sangue il suo potere sulle tribù dell’Islam.

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Eppure i libici di tribù non parlano affatto, almeno con gli stranieri. Gli unici davvero riconoscibili sono i tuareg, che io ho incontrato per la prima volta nel deserto dell’Acacus, partendo dalla città di Sebha, ora in mano agli insorti. “Di dove sei, italiano? Io conosco Inter, Milan, Juventus” – mi approccia concitato Ahmed, in compagnia dei suoi 3 cugini. Vengono da Agadez, in Niger, dove i Tuareg hanno, benché possa sembrare impossibile, anche più problemi che in Libia.

Gheddafi è pazzo. Lui fa uccidere la gente nel deserto”. Mi dice sottovoce. “A Tripoli si sta bene sì, ma per chi viene dal Mali, Ghana, Niger, se non c’è lavoro loro ti schifano.” “Loro chi?” Gli chiedo, dicendo che chiunque potrebbe essere una spia. Il nostro poliziotto è poco distante, ma non sembra capire il francese. Tra l’altro, non mi sembra neanche una cattiva persona. La stessa guida non ha problemi ad ammettere che di Gheddafi semplicemente non si deve parlare. Suleiman ci spiega “che è facile creare delle incomprensioni”, qui la politica si fa solo nella tenda giusta, con chi deve governare, e gli altri si occupano dei propri affari. Che, nonostante la popolazione sia abbastanza esigua, non mancano.

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Ma chi sono questi libici, e perché quelli di Benghazi hanno tradito il Colonnello, che proprio da lì era partito per la sua rivoluzione verde? “Siamo stati ispirati da quello che è successo in Egitto” – spiega un membro dello Libyan Youth Movement – “Se sono riusciti a cacciare Mubarak, vuol dire che anche noi possiamo liberarci di Gheddafi, e lo faremo con le stesse divise che ha dato ai suoi sostenitori, che non sono più pronti a difenderlo” – mi spiega facendomi vedere delle foto via mail, in cui i dimostranti anti governo provano le uniformi rubate dopo un attacco alla base militare Al Katiba, vicino Benghazi. “Abbiamo voglia di libertà, dopo gli scontri abbiamo subito ripreso a pulire le strade. A Benghazi, Tobruk, Zawia, Al Abrak e tantissimi altri paesi abbiamo il supporto più disparato, anche l’esercito e la polizia sono con noi. Non ci interessa se l’occidente ci vede come radicali islamici, noi sappiamo che non è vero, vogliamo solo essere liberi come tutti quelli che ci giudicano, senza chiedersi davvero cosa significhi vivere tutta una vita sotto lo stesso leader.”

Francesco Conte


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