Reportage di Frontiere News a Lampedusa, con Coevema per i migranti

Un furgone Mercedes carico di beni, uno zainetto e qualche bottiglia d’acqua nell’abitacolo. Il Coevema (Coordinamento Evangelico Emergenza Abruzzo) si è così mosso per fronteggiare quella che, nonostante sia terminata l’emergenza e la fase di sensibilità pubblica, rimane una situazione delicata e da gestire.

Dopo aver lasciato parte dei beni in Puglia (diretti verso la tendopoli di Manduria) e in Sicilia (destinati al campo di Mineo), ci siamo imbarcati per Lampedusa.

Appena sbarcati abbiamo conosciuto Mohamed e Raoudh, una giovane coppia tunisina, integratissima nella società siciliana, venuta a Lampedusa per cercare Riadh, il fratello di lei, partito per l’Italia il 29 marzo, data in cui si sono avute le sue ultime notizie.

Il molo è gremito di forze dell’ordine e di postazioni stabili della Croce Rossa. Il nostro contatto qui nell’Isola è un carabiniere; nel tragitto verso il nostro appartamento ci ha raccontato un po’ del suo lavoro di questi giorni. “Molti di questi ragazzi vengono in Italia ignorando la reale situazione in cui siamo. Gli scafisti dipingono il nostro Paese come un paradiso, dove il lavoro è abbondante e dove c’è futuro sicuro per tutti. Ovviamente lo fanno in cattiva fede perché più persone trasportano e più guadagnano, in realtà sanno benissimo come stanno le cose”. Il racconto viene interrotto da una telefonata. Il Comando ci sta avvisando di uno sbarco. Benché ci fiondiamo al molo l’efficiente operazione delle forze dell’ordine ci precede: i migranti sono stati caricati sui pullman e portati al Centro di Identificazione, il barcone è stato requisito.

Questi migranti, tutti profughi (somali, eritrei, etiopici, ivoriani, burkinesi, nigeri e nigeriani), li abbiamo rivisti il giorno dopo in aeroporto. Siamo riusciti ad accedere allo spazio dove bivaccano in attesa dell’imbarco; abbiamo distribuito i beni e parlato un po’ con loro. Famiglie, giovani, vecchi, bambini, uomini e donne: tutti scappavano da guerre, dittature, disoccupazione e carestie. Ero letteralmente circondato da bambini che chiedevano altro cibo e ragazze che mi imploravano con le lacrime agli occhi di chiamare i loro genitori e tranquillizzarli. “Chiama mio padre, in Somalia, ti prego. Mio fratello è morto, voglio che sappia che almeno una figlia gli è rimasta”. La Polizia indica poi ai migranti la strada per imbarcarsi. Si allontanano, gridandomi: “Non cancellare l’e-mail che ti ho dato. Per favore, scrivi a mio zio che sono arrivato e che sono vivo” oppure “Non scordarti di chiamare mia moglie per dirle che la nostra Nancy ha ancora un papà”.

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Lasciando l’aeroporto il nostro amico carabiniere continua a raccontarci che spesso gli scafisti mettono nel barcone il carburante necessario per entrare nelle acque italiane, “garantendo” l’ingresso nell’area di responsabilità italiana, per poi ripartire immediatamente verso il proprio paese. “Ogni volta che noi riusciamo a intercettare il barcone prima che sbarchi, lo scafista si confonde con il resto dei passeggeri, rendendo impossibile individuarlo. Nessuno dei migranti ne rivela l’identità, perché vengono minacciate ripercussioni ai famigliari che rimangono nel relativo paese”.

La sera abbiamo avuto modo di conoscere Ahmed, un ragazzo somalo che ha perso un fratello nel naufragio di qualche giorno fa. È a Lampedusa da poche ore, senza soldi, senza cibo e senza un posto dove passare la notte. Lo portiamo al ristorante per poi accompagnarlo in albergo, dove siamo riusciti a rimediargli un alloggio, e ci dirigiamo verso il nostro appartamento.

Il telefono squilla nuovamente, una nave della Guardia Costiera ha appena agganciato l’ennesimo barcone. Questa volta riusciamo a giungere al porto in tempo. Dopo mezz’ora di attesa, a causa della difficile esecuzione delle manovre a quell’ora (è mezzanotte passata), vediamo l’imbarcazione avvicinarsi. I migranti fremono mentre la nave della GC li traina verso il molo, si alzano tutti in piedi e cercano di saltare sulla terraferma. La tensione sale e la Polizia intima loro di rimanere seduti e di non peggiorare la già delicata situazione. Il barcone infatti è del tutto instabile e può bastare davvero poco per sfiorare una tragedia. In attesa che salgano sui pullman, per essere trasferiti al Centro di Identificazione, noi riprendiamo la nostra attività di distribuzione. Un uomo si sente male, ha viaggiato tutto il tempo con una gastrite acuta, viene caricato subito sull’ambulanza. Con noi ci sono anche Mohamed e Raoudh, rimasti con noi per quasi tutta la nostra permanenza. Fanno girare la foto di Riadh, il fratello di lei, sperando che qualcuno sappia darne qualche notizia, seppur vaga o minima. L’immagine passa tra le mani dei migranti, tutti tunisini, ma la reazione è la stessa: tutti la guardano e, alzando lo sguardo verso Mohamed, scuotono la testa, con il volto rattristato. Nel frattempo continuiamo a distribuire il cibo ai tunisini: iniziano a mangiare con avidità e gusto (hanno viaggiato per ore senza mangiare nulla) ma si fermano quasi subito e ci riconsegnano il cibo. Stupito e dispiaciuto chiedo a Dhakir, uno dei ragazzi appena sbarcati, il perché di questo comportamento. “Sta per arrivare un secondo barcone – mi risponde lui – non sarebbe giusto tenere il cibo tutto per me”. Nel sentire la sua risposta ho capito di non aver capito nulla fino a quel momento. Dei bambini raccolgono delle molliche per terra e le mangiano. “Non mangiate le molliche, qui abbiamo ancora un po’ di cibo!”, gli dico. “Ma il cibo è sacro, non va sprecato”, mi risponde. Distribuiamo il resto del cibo, per il barcone che sta per arrivare non ce n’è più. I ragazzi salgono sui pullman, uno degli operatori li guarda uno ad uno e grida all’autista: “Uomo, uomo, donna, uomo!” per indicargli come smistarli. Guardiamo gli autobus partire e torniamo sul nostro furgone, infreddoliti dalla gelida notte lampedusana.

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Il giorno dopo salpiamo per Porto Empedocle; a metà viaggio un agente della Guardia di Finanza chiede a Mohamed di fare da interprete. Un ragazzo tunisino è stato identificato come scafista: ripreso dalle telecamere degli elicotteri della GdF, è stato beccato mentre gettava uomini, donne e bambini dal barcone, per cercare di sfuggire al suo destino di galera. Ha provato a mischiarsi ai migranti, ma il video lo inchioda. Si è conclusa così la nostra spedizione lampedusana.

Valerio Evangelista

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5 Comments

  • […] La harissa è una salsa molto piccante a base di peperoncino rosso, tipica del Nordafrica. Nel mio viaggio umanitario a Lampedusa ho incontrato dei cari ragazzi tunisini che hanno condiviso con me, oltre alle loro paure, i loro […]

  • Grazie per aver condiviso con noi i momenti più intensi di questa tua esperienza lampedusana! Sono pochi i giornalisti che trattano il problema immigrazione con tanta umanità. Forse perché si sono dimenticati che i migranti sono, prima di tutto, uomini come noi.

  • Si dice sempre…..” è sotto gli occhi di tutti” !!!!!Il Ma il vero problema è che la gente comune non vede più …..non vuole vedere più il dolore degli altri, le miserie umane…..la sofferenza degli sguardi. Non vuole nemmeno sentire le urla…..i pianti accorati…..la disperazione …..le preghiere ……e soprattutto la rabbia di chi subisce la grande umiliazione di non essere accettato. Si, proprio quella rabbia che noi cosiddetti “privilegiati” manifestiamo sempre per cose futili, es…..fare le file agli sportelli, dove immancabilmente c’è sempre qualcuno che si offende,…..fare versacci attraverso il finestrino della nostra macchina ad un malcapitato che neppure conosciamo……..litigare aspramente alle riunioni di condominio fino a sfiorare l’infarto…….infuriarsi perchè il vicino di casa, o l’amico più caro, ha da poco comprato una lussuosa e sfavillante macchina, Ma il meglio di noi lo diamo soprattutto in politica :……parolacce, diti alzati contro quello che dovrebbe essere un ipotetico nemico….offese incredibili, risse, sguardi infocati, pugni chiusi….e il desiderio costante di eliminare il nemico, e quando questo non è possibile.. di umiliarlo. Gli unici che non devono e non possono “arrabbiarsi” sono sempre… “gli altri”, quelli che non solo non hanno diritti, ma devono anche nascondere i loro sentimenti, le loro forti emozioni e soprattutto la rabbia, naturalmente……. per non “disturbare” più di tanto “NOI” “”appartenenti non per perito, ma per destino, al mondo dei privilegiati. E’ anche vero che nella vita tutto è relativo ……..credo però che ci vorrebbe un pò meno di relatività e più sano altruismo.

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