Festeggiare la Giornata mondiale dell’Africa significa sforzarsi di tornare a cavallo tra gli anni ’50 e ’60 e tentare di annusare quel profumo utopico di rivoluzione e cambiamento mischiato all’odore dolciastro del sangue degli innocenti. Significa abbandonare tutte le nostre idee preconcette di democrazia, di modernità, di civilizzazione e abbracciare l’impeto e la violenza di una storia che ci ha visti ora carnefici ora spettatori inermi. Proviamo a ripercorrere questo periodo, banalmente denominato “decolonizzazione”.
FEDELTA’ INCONDIZIONATA. Durante la Seconda guerra mondiale le colonie africane combattevano strenuamente a fianco dei colonizzatori contro nemici sconosciuti. Il futuro primo ministro del Sudafrica Henrik Verwoerd, ad esempio, aveva sostenuto Adolf Hitler e molti governatori coloniali francesi appoggiarono fino al 1943 il governo di Vichy.
Contemporaneamente le conquiste in estremo oriente dell’Impero nipponico causarono un’improvvisa carenza di materie prime che fu compensata puntando ai minerali dell’Africa e creando industrie locali. Ciò diede notevoli benefici all’economia africana e permise la creazione di nuove città e quelle già esistenti conobbero un’esplosione demografica. L’urbanizzazione permise una crescita notevole della popolazione istruita e la nascita di numerosi giornali pro-indipendenza.
Nel 1941, il presidente degli Stati Uniti Franklin Delano Roosevelt e il primo ministro del Regno Unito Winston Churchill stipularono la Carta Atlantica, nella quale discussero il “mondo” del dopoguerra. Roosevelt in previsione introdusse l’autonomia delle colonie imperiali.
Così al termine del conflitto il Regno Unito fu pressato affinché rispettasse gli accordi presi. Tuttavia le colonie africane venivano considerate in Gran Bretagna “bambine” e “immature”: governi democratici furono introdotti solo a livelli locali.
Nonostante la parziale sconfitta, nelle menti degli intellettuali africani cresceva il concetto dell’autodeterminazione. Una piccola élite di giovani che negli anni ’30 avevano ricevuto l’istruzione nelle migliori università occidentali iniziarono a combattere per l’indipendenza. Tra essi figurarono Kenyatta (Kenya), Nkrumah (Ghana), Senghor (Senegal) e Houmphouet-Boigny (Costa d’Avorio).
DECOLONIZZAZIONE. Il processo di decolonizzazione durò circa quarant’anni: nell’impero britannico – almeno sulla carta – l’indipendenza fu raggiunta per via pacifica, con trattative tra la madrepatria e i gruppi dirigenti locali, trasformando l’impero nel Commonwealth of nations; in altri casi avvenne per via violenta: la Francia ad esempio oppose dura resistenza ai movimenti di liberazione.
La decolonizzazione giunse a compimento tra gli anni Settanta e Ottanta. Fattore decisivo per lo smantellamento degli imperi coloniali fu la pressione degli Stati Uniti e dell’Unione Sovietica. Ambedue le superpotenze avevano l’obiettivo, neanche troppo celato, di allargare le loro zone d’influenza e fecero pesare in seguito la loro egemonia economica e politica nei paesi dell’Africa e dell’Asia. C’è da dire che oltre alla richiesta quasi unanime di eguaglianza formale e sostanziale, i paesi colonizzatori rinunciarono al controllo politico delle colonie perché era diventato troppo costoso.
La decolonizzazione dell’Africa ebbe inizio nei paesi mediterranei: inglesi e francesi si erano ritirati dalla Libia nel 1951 mentre Marocco, Tunisia e Sudan diventarono indipendenti nel 1956. Il principio dell’autodeterminazione fu portata a sud del Sahara dapprima dalla Costa d’Oro, che dichiarò la sua indipendenza nel 1957 assumendo il nome di Ghana, e subito dopo dalla Guinea francese del leader Sékou Touré, che l’emulò l’anno successivo. Ad esse susseguì la pioggia di indipendenze che l’Europa concesse sbrigativamente nella prima metà degli anni Sessanta. Basti pensare che nel solo 1960, il cosiddetto “Year of Africa”, videro la luce ben diciassette nuovi stati sovrani. A restare esclusi da questi processi furono i soli possedimenti portoghesi (Angola, Mozambico, Guinea-Bissau, Capo Verde e Sao Tomé e Principe) – che avrebbero dovuto attendere il rovesciamento del regime creato da Salazar a Lisbona – e l’Africa sudoccidentale, amministrata da Pretoria fino ai tardi anni ottanta.
IL VECCHIO E IL NUOVO. Il più grosso fardello ereditato dall’Europa fu la questione dei confini. La geografia politica restava – tranne che per alcune eccezioni – quella coloniale. I confini amministrativi delle colonie vennero mutati in frontiere statali. Raramente vennero quindi prese in considerazione le caratteristiche etniche, politiche e demografiche delle rispettive società. Spesso i risultati furono assai stravaganti, come nel caso della minuscola exclave portoghese di Cabinda, da cui ha origine il 60% della produzione petrolifera angolana, assegnata al governo di Luanda pur essendo separata dal resto del Paese per consentire al Congo Belga di avere uno sbocco sul mare.
Frontiere che attribuivano una così scarsa attenzione a popolazioni e storia locale non potevano che accentuare l’eterogeneità etnica dei nuovi “stati”. Tuttavia i governanti, per paura che un processo di ridefinizione dei confini portasse a guerre interstatali e richieste di scissioni, cercarono in tutti i modi di mantenere lo status quo.
IDEOLOGIE, ETNIE E SVILUPPO Fu l’anticolonialismo il fondamento e il collante dei nascenti nazionalismi africani. Ai singoli movimenti anticoloniali prendevano naturalmente parte gruppi sociali diversi, spesso in competizione tra loro nella lotta per determinare chi avrebbe retto le sorti del paese dopo l’indipendenza. Come ha scritto Davidson, una spaccatura altrettanto profonda divideva in molti paesi le élite modernizzatrici da quelle tradizionaliste. Le prime erano portatrici di valori e modelli occidentali e spesso la leadership delle nuove organizzazioni e dei nuovi partiti era nelle mani di politici appartenenti a queste schiere. Nella sostanza la lotta tra tradizionalisti e modernizzatori era tra chi godeva dei privilegi ereditati dai capi e dagli anziani e chi invece pretendeva che venisse privilegiata l’istruzione acquisita.
Come abbiamo già detto, l’indipendenza fu in realtà un processo incompleto: in molti casi la decolonizzazione non pose affatto fine alle ingerenze delle ex potenze coloniali. Va detto che questi legami vennero formalizzati con la partecipazioni ad organismi quali il Commonwealth o la Francophonie.
LA LOGICA DELLO SFRUTTAMENTO. Nel corso della Guerra fredda la debolezza dei nuovi stati accrebbe le ingerenze di Stati Uniti e Unione Sovietica, che ebbero un ruolo tutt’altro che marginale nel determinare l’evoluzione di regimi come quelli di Samuel Doe in Liberia e Menghistu Hailè Mariam in Etiopia. Un’influenza non secondaria la ebbero le grandi istituzioni finanziarie come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
A questo proposito è interessante la denuncia che il primo leader del Ghana indipendente, Kwame Nkrumah fece a proposito delle dipendenze neocoloniali:
“La forma e i metodi di questo controllo possono essere di vario tipo. Ad esempio, in un caso estremo le truppe della potenza imperiale possono essere presenti nel territorio dello stato neocoloniale e controllarne il governo. Più spesso, tuttavia, il controllo neocoloniale è esercitato attraverso sistemi economici o monetari. Lo stato neocoloniale può essere obbligato ad acquistare prodotti finiti della potenza imperiale a scapito di prodotti concorrenti provenienti da un’altra parte. Il controllo sulle politiche governative nello stato neocoloniale può essere ottenuto con i finanziamenti al funzionamento dello stato stesso, con la fornitura di funzionari pubblici per posizioni da cui essi possono decidere le politiche, e con il controllo monetario sui cambi attraverso l’imposizione di un sistema bancario controllato dalla potenza imperiale”.
La logica dello sfruttamento economico che già stava alla base dei sistemi coloniali aveva favorito, ad esempio, la sostituzione delle colture per la sussistenza con quelle richieste dai mercati coloniali e dal sistema di specializzazione dell’economie delle colonie.
NEGRITUDINE. Nonostante queste degenerazioni all’inizio delle loro indipendenze le popolazioni africane guardavano il futuro con ottimismo. Un esempio di questo spirito è l’adozione di nomi ripresi dai grandi regni del passato per sostituire le etichette assegnate dagli Europei ai possedimenti coloniali (la Costa d’Oro divenne il Ghana, il Dahomey fu ribattezzato Benin). Fu sempre il carismatico Kwame Nkrumah a riassumere questa nuova atmosfera nella celebre frase “seek ye first the political kingdom and all other things shall be added unto it” (cercate prima la sovranità politica e tutto il resto verrà di conseguenza), parafrasando il Vangelo di Matteo.
Diverse erano le strategie di sviluppo dei neonati stati africani. Tra le ideologie maggiormente apprezzate dalle popolazioni c’erano sicuramente la “negritudine” di Leopold Senghor e il “mobutismo” di Mobutu Sese Seko. Quasi tutte queste filosofie politiche erano accomunate dalla centralità del ruolo dello stato nelle iniziative sociali ed economiche e da un accentuato nazionalismo. Sotto il profilo teorico delineavano un ventaglio di scelte tra l’iniziativa privata, la comunità tradizionale e l’economia pianificata dall’alto. Ad esempio Kaunda nello Zambia, Nyerere in Tanzania, e Senghor in Senegal sostenevano una via africana al socialismo secondo la quale per uno sviluppo equilibrato sarebbe bastato conciliare i processi di modernizzazione con la naturale assenza di divisione di classe che caratterizzavano le comunità precoloniali.
Negli anni settanta, la difficoltà di crescita economica in gran parte del Continente fece sì che diversi leader come Samora Machel (Mozambico), Agostino Neto (Angola) e Siad Barre (Somalia) decidessero di impostare nei rispettivi paesi il marxismo-leninismo scientifico. Furono tuttavia esperimenti ben lontani dall’ortodossia socialista: ben presto, come per esempio in Mozambico, le prospettive comuniste si tramutarono in sanguinari regimi. Ad ogni modo non mancarono compromessi pragmatici come l’accettazione della presenza delle multinazionali sul territorio nazionale.
ESTREMISMO E POPULISMO. All’estremo ideologico opposto abbiamo quei regimi che avevano introdotto modelli più vicini al capitalismo occidentale. Tra questi paesi vi sono esempi di economie che divennero rapidamente dominanti nelle rispettive regioni di appartenenza: è il caso di Kenya, Nigeria e Costa d’Avorio. Anche i paesi che abbracciarono il capitalismo mantennero sempre una struttura statale nella quale dominanti erano gli interventi governativi.
Negli anni ’80 in un numero limitato di stati alcune leadership condussero all’adozione di vere e proprie iniziative populiste. Ad esempio, tra il 1981 e il 1983 Jerry Rawlings introdusse in Ghana attraverso il Provisional national defence council l’utilizzo dei lavoratori nella gestione delle imprese, coinvolgendo gli strati più poveri della popolazione nella sua lotta contro il kalabule (un termine dal significato ampio e poco definito che include tanto la corruzione quanto ogni altra forma di profitto illegale e spesso persino il semplice eccesso nell’arricchimento personale).
Da qui in poi la storia la conosciamo. O forse no, perché anche dietro le freschissime rivoluzioni del Maghreb ci sono odori, sapori e memorie che vanno aldilà della nostra esperienza televisiva.
Joshua Evangelista
direttore di Frontiere News
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