Per i prossimi quattro giovedì Frontiere News pubblicherà i primi quattro capitoli di “Come due stelle nel mare”, il libro di Carlotta Mismetti Capua nato a seguito dell’esperienza del gruppo Facebook La Città di Asterix, dove l’autrice ha iniziato il racconto del suo straordinario quanto casuale incontro con quattro ragazzi afghani. Ringraziamo Carlotta e la Piemme, che di comune accordo hanno deciso di applicare i termini delle licenze Creative Commons per i primi quattro capitoli dell’opera. Le immagini sono di Massimo Bucchi.
1. FORREST GUMP ANDAVA A PIEDI
Questa storia comincia su un autobus arancione, a Roma, in una sera di tuoni e pioggia. Un bus diretto alla Piramide, nel buio triste delle otto di sera, di ieri sera. Ma non è alla Piramide che questa storia comincia. Questa storia comincia a Tagab, un paese sulle montagne dell’Afghanistan al confine con l’Iran, che su Google Maps, se lo cercate, sta a 4.950 chilometri da Roma. Tagab, sempre se lo cercate, sono venti case, dieci mucche, tre strade, e il resto è fame, freddo e paura: a Tagab la gente scompare, da decenni qualcuno ci traffica l’oppio. Da mesi qualcuno ci traffica anche i bambini.
E quattro di questi bambini erano sul bus per la piramide, dove ero anch’io, ieri, col tevere che forse esondava. Quattro ragazzini che hanno camminato per 4.950 chilometri, a piedi. Attraversando cinque paesi, per sei mesi: e ieri erano contenti, sì. A guardarli erano davvero contenti. Perché erano arrivati dove dovevano arrivare, a Roma, alla Piramide.
Col bus numero 175, dove nessuno voleva sedersi vicino a loro. Perché erano sporchi, stranieri, diversi. Sul bus la gente mormorava, forte ma guardando altrove: «Ah, questi rumeni, questi rumeni assassini, avete sentito di quello…». Li guardo, mi tolgo gli occhiali distratti che abbiamo sempre addosso e vedo che rumeni non sono. E faccio le domande semplici che si fanno quando le persone le guardi negli occhi: occhi di ragazzini sporchi e dolci.
«Ciao, da dove venite? come vi chiamate?» «Veniamo dall’Afghanistan. Siamo arrivati stasera.» Sorridono. «A piedi?» chiedo, e la domanda mi pare incredibile, ma la faccio. E loro sono felici, perché capiscono che io so che dall’Afghanistan si viene pure a piedi. «Sì, a piedi.»
A raccontarmi come hanno fatto è Abdul, quindici anni, gote da bambolotto e un inglese che farebbe invidia a un liceale di Viterbo. Le loro famiglie hanno pagato guide, trafficanti, chi 5.000 dollari, chi 10.000. Hanno camminato su e giù per le montagne, dormendo sotto le stelle, attraverso l’Iran, la Turchia, sempre a piedi. E poi su una barca gonfiabile, di notte, hanno attraversato il primo dei mari, e poi la Grecia, stipati in cento su un tir. E poi il secondo, imbarcati verso Bari. E da Bari su un treno qualsiasi. E a Roma il bus numero 175.
Abdul mi chiede: «Signora possiamo farle una domanda?». Ora sono io che sorrido. «Come mai parla inglese, signora?». Gli chiedo dove pensano di dormire, e rispondono: «Al parco». Col tevere che esonda, alle nove di sera, con le felpe di cotone… a piedi? Li faccio scendere, andiamo. Al centralino del comune mi dicono che l’unica a quell’ora è la Caritas. Andiamo alla Caritas, torniamo indietro, prendiamo una metro. Nel vagone un ragazzo con le scarpe d’argento e il gel nei capelli scherza col suo amico: «Meniamoli, no?». L’altro ha una collana borchiata, tutti tacciono. Anche noi si tace, e si va avanti.
Francesco, un amico che lavora ad Action Aid, mi spiega al telefono: «È sicuramente la tratta di bambini da Tagab e Ghazni, è un caso internazionale. Non è un segreto, né per l’Interpol né per l’Unione Europea» aggiunge, a tranquillizzarmi. Una tratta che non finisce alla Piramide, ma forse in una fabbrica per lavoratori clandestini, forse in una squadra di spacciatori minorenni a Belgrado, forse in un ospedale dove si espiantano gli organi e qualcuno li vende. Secondo un rapporto del Consiglio d’Europa, nell’Europa dell’Est un rene, al mercato nero, costa sui 2.500 dollari. I trafficanti riescono a venderlo anche a più di 150.000.
Nel buio sempre più triste arriviamo fino alla caritas di via Marsala. La ragazza che sta al cancello – Luana, una ragazza in jeans, gentile e concreta – mi dice che: «No, non possiamo prenderli. Siamo a “letti zero” stasera, e poi non hanno documenti. Prendiamo solo quelli coi documenti. E poi sono minori, e i minori non li prendiamo. Se ora lei li porta a casa rischia: concorso in tratta di minori. Lo dico per lei, così sa come funziona».
Ah, ecco, si imparano certe cose, dei giorni: si impara che quando arrivi dall’Afghanistan a piedi, e hai 15 anni, e il tuo paese è in guerra dal 1979 e l’Unione Europea ha deciso che comunque non ci puoi tornare perché, carte alla mano, è un paese “pericoloso”, e per di più piove qui e il Tevere esonda, ecco, in questi casi allora servono i documenti. Ah, ecco.
Il cancello della Caritas resta chiuso, e come spiega Luana: «Scusi signora, ma devo tenerlo così sennò mi entrano tutti. Capisce?». Non tanto. Però dopo un po’ capisco, perché restano chiusi anche quelli delle altre associazioni a cui telefono. Li devo lasciare in strada, è l’unica cosa da fare, secondo chi se ne intende: il centralino, gli operatori di strada, il mio amico della Ong. Ma io non me ne intendo.
E allora cerco di mostrarmi molto tranquilla agli occhi di quelli della Caritas, che mi hanno fatto capire che rischio di passare per una che fa la tratta dei bambini stranieri. Tratta limitata per ora alla metro Piramide stazione Termini, ma pur sempre tratta illegalissima.
E allora, per prendere tempo e apparire ai loro occhi ragionevole e non un’esaltata che sotto la pioggia cerca un tetto per quattro ragazzini venuti a piedi dall’Afghanistan, ecco che mi metto a parlare col ragazzo che sta fuori dalla porta, uno con la giacca blu. Massimiliano, mi pare si chiamasse, e pure lui dispensa un buon consiglio, di quelli che ti tranquillizzano, e mi dice: «Guardi che alla fine la cosa migliore è portarli in commissariato». Sorrido sempre più tranquillissima e gli chiedo: «E cosa succede in commissariato, Massimiliano?». «Li rimpatriano. Che poi, alla fine, signora, è la cosa migliore per questi ragazzi.»
Non so come, ma quella sera la Caritas mi era parsa la cosa migliore e invece non lo era, casa mia mi era parsa la cosa migliore e invece non lo era, per via della legge Bossi-Fini, mi pare di aver capito, e il commissariato poteva essere anche la cosa migliore, ma insomma mi pareva che non lo fosse; non per il commissariato, figurarsi, ma per questo fatto del rimpatrio, che mi faceva venire subito in mente il posto da cui venivano. Mica ci sono stata ma insomma, una guerra, quella me la immagino. Più o meno.
Non tanto perché la conosco bene la guerra che si fa oggi. Ma so che uno può pensare di mettersi in cammino, nella vita: ecco, quello lo so proprio bene cosa significa. Per cui, consegnati quattro clementi panini, quattro arance e coperte della caritas – anche quelle illegalissime, a quel punto – gli metto in mano venti euro e il mio numero di telefono. E dove gli do appuntamento per il giorno dopo.
Anche loro hanno una scheda, senza il telefono. La tiene in tasca Abdul insieme a un bigliettino di carta minuscolo, colato di inchiostro bagnato, dove qualcuno chissà dove gli aveva scritto “Pyramid”. Dove dovevano arrivare. «Domani mattina, alla Piramide. Alle nove. capito?». «Capito, signora.»
Così tornano da dove erano venuti, più o meno. Nel mistero. Che è dove abito anche io, a Roma, sotto questa piramide di marmo tra un fiume e una stazione di treni. Ed è qui che comincia ora questa storia. Storia definita poi “una lodevole iniziativa” da un caro amico, frase che mi avrebbe fatto molto arrabbiare perché non vuole dire niente, e le frasi che non vogliono dire niente mi fanno sempre arrabbiare – più di quelle che non si capiscono, tipo: «Che poi per loro il rimpatrio è la cosa migliore».
E questo è un punto importante di questa storia, e della vita in generale, perché le frasi che non vogliono dire niente sono come gomma che rimbalza, e le frasi che non capisci sono come carta ruvida, e ci restano appiccicati i tuoi pensieri sopra. E dato che questa è una storia lunga 5.000 chilometri, e non sappiamo ora dove continua, abbiamo deciso che la raccontiamo un giorno alla volta.
Carlotta Mismetti Capua (immagine di Caterina Notte) è giornalista e vive a Roma. Nel 2010 ha vinto il premio Ischia del Giornalismo per lo storytelling su Facebook ‘La città di Asterix’: un corto ispirato alla sua storia ha vinto il Rome Fiction Fest. Ha lavorato a Time Out, ‘la Repubblica’, Epolis. Per dieci anni si è occupata di televisione e radio, curando la rubrica del Venerdì di Repubblica, e poi ancora al settimanale La Tele e al Tv Magazine: ora si occupa di culture e città per Vogue e l’Espresso. E’ stata a lungo corrispondente dall’Italia per il mensile giapponese ‘Eat’, ha scritto per molti giornali di costume e tra questi D di Repubblica e il Diario della Settimana. Ha collaborato al libro fotografico Wo-man (Calco) sulla vita dei transessuali a Milano, e alcune sue fotografie sono stata esposte in un progetto di narrazione dei migranti alla Biennale di Cuenca dell’Ecuador, nel 2009.
Profilo dell'autore
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