Atene, con vista su Kabul

Mentre i talebani prendono Kabul, il governo greco alza un muro al confine con la Turchia. Intanto gli attivisti denunciano il clima teso causato dalle politiche migratorie dell’esecutivo di Nuova Democrazia: le ONG non riescono più a lavorare e i rifugiati sono abbandonati a loro stessi nelle grandi città. Come ha detto Konstantinos Psykakos, capo missione di MSF nel paese ellenico, “in Grecia il futuro sembra più distopico che mai”. Il nostro viaggio nella Atene dei dimenticati.

Questo articolo è il primo episodio di uno speciale sulla Grecia. Leggi la seconda parte

Al secondo piano di una palazzina poco illuminata di Exarchia, il quartiere anarchico di Atene, una decina di afghani discute animatamente. C’è da preparare una manifestazione che riesca a mobilitare tutta la sonnacchiosa società civile greca, per gran parte ancora in spiaggia tra Peloponneso e isole. C’è da far capire che quello che sta succedendo in Afghanistan è inaccettabile e la chiusura dei confini con la Turchia è disumano. Ma anche che le condizioni degli afghani nel centri di detenzione greci lo sono altrettanto.

Il luogo della manifestazione è Syntagma, la piazza dove nel 1843 gli uomini di Dimitrios Kallergis chiesero al re una costituzione e dove cento anni dopo il presidente di unità nazionale Papandreou pronunciò il famoso discorso di liberazione; lo stesso luogo dove nei primi anni dieci del nuovo millennio si riunivano fino a 50 mila manifestanti contro le restrizioni ordinate dalla Trojka. Oggi, nella stessa piazza, ci si augura che greci e afghani sappiano riunirsi in solidarietà a coloro rimasti bloccati, anche a causa del lassismo occidentale, nell’Emirato talebano.

È una serata di tardo agosto quando alcuni membri dell’Afghan Community in Greece ci ricevono nella loro sede. Si tratta di un’associazione di rifugiati afghani che da anni aiuta l’integrazione dei nuovi arrivati. Principalmente afghani, ma non solo: a prender lezioni di sartoria, greco e inglese o a ricevere una coperta e un pasto caldo sono anche siriani, iraniani, africani; più in generale, chiunque abbia bisogno di un punto di riferimento in città. Gli attivisti sono tutti volontari, ci tengono a dirlo. E l’associazione va avanti solo con le finanze dei soci (corroborate dalle donazioni di afghani di altre diaspore, soprattutto quella americana) e dai gesti sporadici di qualche vicino greco di buona volontà. Il sostegno delle grandi organizzazioni non governative, così come quello dello stato greco, non è pervenuto.

Una comunità di dimenticati

Mentre gli attivisti si organizzano per la manifestazione contro i talebani, non possono non pensare a quello che succede qui. Perché se è vero che in Afghanistan è tornata la sharia, in Grecia vivono 40mila afghani, per lo più in condizioni vulnerabili. E ci si deve preparare ai nuovi che arriveranno, se riusciranno a superare la prova a ostacoli aggravata dal nuovo muro di 40 chilometri al confine con la Turchia. “Speriamo che qualcuno arrivi, viste le limitazioni”, ci dicono. “Stiamo preparando lezioni per loro per integrarli nelle società europee”. Ma le limitazioni, come vedremo, non finiscono con il muro.

Nicolas Economou/NurPhoto

In questo fine agosto ateniese c’è tensione sotto l’apparente distensione vacanziera. “Tutto il mondo dovrebbe essere unito con l’Afghanistan e chiedere alle super potenze di farci vivere in sicurezza. Invece guardano, in silenzio”, ci dicono dall’associazione, mentre ci mostrano video agghiaccianti che ricevono di continuo dall’Afghanistan. Il mondo, nello specifico, diventa il governo greco. Reo, secondo gli attivisti, di aver contribuito a creare un clima d’odio e sospetto verso gli afghani residenti nel territorio e, al contempo, di bloccare l’arrivo di nuovi disperati.

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I volontari dell’associazione ci offrono dell’acqua, fa molto caldo, e ci fanno accomodare in un’aula dove si insegnano le lingue ai migranti. Nella lavagna sono scritte frasi essenziali in inglese, al lato una cartina della Grecia. A parlare con noi sono Hana Ganji, un’attivista originaria di Herat ma nata e cresciuta in Iran, e il fratello Ahmed.

Hana è in Grecia da due anni, Ahmed da qualcuno in più. Ventisette anni, vice responsabile dell’associazione, Hana aveva abbandonato l’Iran dopo essere stata violentata. Arrivata a Lesbo, le violenze si sono ripetute. Oggi, ad Atene, si dedica anima e corpo all’associazionismo. Vorrebbe diventare giornalista o modella, ma con i suoi attuali documenti ha difficoltà persino ad accedere a un impiego temporaneo in nero.

Ahmed invece collabora con l’IOM, l’Organizzazione mondiale delle immigrazioni. In Iran studiava per diventare anestesista, fino a quando la sua università ha deciso di ridurre il numero d’iscritti e d’ufficio lo hanno espulso dalle lezioni, in quanto apolide non iraniano. Alle braccia ha i segni di diversi tentativi suicidio. Gesticolando ci mostra che non ha più un anulare alla mano destra e un indice alla sinistra. Li ha persi quando aveva quindici anni. Sostituiva il padre malato come operaio in una fabbrica di Teheran, per non fargli perdere il lavoro. La sua mansione era pulire un macchinario spento. Per dispetto un collega lo ha acceso, con conseguenze che facilmente si possono immaginare.
In seguito all’incidente, il padre ha perso il posto di lavoro ed è stato costretto a pagare le spese processuali della causa che ha tentato contro il padrone della fabbrica, oltre a quelle ospedaliere per suturare le ferite ed evitare un’emorragia. “In quel momento ho capito una cosa che trova conferma ancora adesso, ogni giorno”, ci dice Ahmed con le lacrime che gli scivolano sulle guance. “Essere rifugiati è un tatuaggio che ci hanno stampato alla nascita e che non ci toglieremo più. Siamo rifugiati in Iran, lo siamo in Grecia, lo saremmo qualora provassimo ad andare in un altro paese. Non saremo mai come voi. Un giorno mio padre, piangendo, mi disse che la sua più grande colpa è quella di non poterci garantire un futuro diverso dal suo”.

Da sinistra, Ahmed e Hana Ganji

La politica degli sgomberi

Storie come quelle di Ahmed e Hana sono molto diffuse tra gli abitanti di Piazza Viktoria, così chiamata in onore della regina inglese che permise l’annessione delle Isole Ionie alla Grecia nel 1864. Oggi Piazza Viktoria è abitata da migliaia di migranti, per lo più afghani, che ne hanno occupato i palazzi neoclassici abbandonati. In piazza gli afghani parlano con Kabul per capire l’evoluzione della presa di potere, fanno giocare i bambini, concludono piccoli affari. Raccontano che alcuni si prostituiscano anche.

Se l’Atene contemporanea è contraddistinta dagli edifici abbandonati del centro, una colpa importante è dei governi che non sono riusciti a lavorare a una politica abitativa soddisfacente, in grado di rispondere alla grave crisi. Anzi, negli ultimi anni si sono susseguite diverse campagne di evacuazione degli squat occupati. Il più famoso è sicuramente quello del City Plaza, l’hotel abbandonato a pochi passi da dove Alba dorata aveva visto i natali. Qui gli attivisti avevano creato un sistema di autogestione che permetteva a centinaia di persone di trovare rifugio, assistenza medica e cibi nutrienti. La mensa forniva 800 pasti al giorno. Ahmed è stato il primo a mettere piede nell’hotel e l’ultimo ad abbandonarlo il 10 luglio del 2019, quando chiuse – esattamente due giorni dopo la vittoria elettorale del partito di destra Nuova Democrazia.

Michalis Chrisochoidis, ministro dell’ordine pubblico, lo aveva annunciato in campagna elettorale: sfrattare gli abitanti dell’hotel era la priorità. A due anni dalle elezioni, con in mezzo una pandemia mondiale e la presa di potere da parte dei talebani, l’azione di Nuova Democrazia per scoraggiare i migranti a transitare dalla Grecia procede spedita. “Non possiamo aspettare passivamente il possibile impatto della crisi afghana”, ha detto Chrisochoidis recentemente durante una visita a Evros. “I nostri confini rimarranno sicuri e inviolabili”. Quaranta chilometri di muro con la Turchia riusciranno a impedire un nuovo 2015, quando un milione di persone attraversarono il confine con la speranza di raggiungere il nord Europa? Difficile dirlo.

Quel che è certo è che Nuova Democrazia lavora con perizia per rendere complicata anche la vita di coloro che il confine lo hanno già attraversato.

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In Grecia, il futuro sembra più distopico che mai, poiché coloro che riescono ad attraversare il mare continuano a vivere in campi miserabili sulle isole greche”, ha affermato Konstantinos Psykakos, capo missione di MSF in Grecia. “È una tragica ironia che mentre il mondo osserva gli ultimi sviluppi in Afghanistan, l’UE e la Grecia stanno inaugurando un nuovo centro carcerario per intrappolare i rifugiati sull’isola di Samos”.

Circa il 63% delle 3.500 persone che attualmente vivono nel cosiddetto campo temporaneo di Mavrovouni a Lesbo proviene dall’Afghanistan. Mavrovouni è stato allestito sulla scia dell’incendio che un anno fa ha bruciato Moria, il famigerato campo-ghetto a Lesbo. “Un inferno in terra, mai visto niente di simile”, commenta Ahmed. A Lesbo Ahmed è stato picchiato due volte: la prima volta da afghani che lo hanno creduto essere un iraniano, durante una rissa scoppiata per futili motivi. La seconda da greci: non c’erano docce e sentiva il bisogno di lavarsi, ha provato a farlo in spiaggia. Alcuni uomini lo hanno preso a pugni e calci perché così sporcava il loro mare.

Un bimbo afghano gioca con i piccioni in piazza Viktoria

Un autunno bollente

Il piano a lungo termine dovrebbe essere quello di spostare tutti in una nuova struttura permanente finanziata dall’UE. In totale l’Europa ha dato 121 milioni di euro per altri tre centri di accoglienza nelle isole di Samos, Kos e Leros. Le persone lasciano terrorizzate le isole e si dirigono verso Atene. Ma nella terraferma le cose non vanno molto meglio.

A marzo decine di migranti e rifugiati si erano radunati a piazza Victoria perché non avevano un posto dove andare, dopo che il governo greco aveva improvvisamente chiuso il programma abitativo Filoxenia, che forniva 7000 posti letto a richiedenti asilo, con sistemazioni temporanee in hotel affittati dallo Stato.

Più in generale, la chiusura del programma di alloggi Filoxenia fa parte della ristrutturazione del sistema di solidarietà ai rifugiati. Tanti sono rimasti per strada anche a Salonicco e Corinto.

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Mentre vengono costruite decine di strutture pre-espulsione simili ai nostri CPR in tutto il Paese, un decreto ministeriale greco ha dichiarato che la Turchia è sicura per i richiedenti asilo provenienti da Afghanistan, Bangladesh, Pakistan, Somalia e Siria. Di contro, le associazioni straniere hanno sempre meno peso nella gestione dell’assistenza.

Una recente legge che aumenta sproporzionatamente i requisiti di registrazione per le ONG straniere e locali che forniscono servizi a rifugiati e migranti ha reso impossibile per molte di loro operare legalmente nel Paese.

“Se è ragionevole che venga tenuto un registro delle organizzazioni, le condizioni onerose, costose e arbitrarie legate al processo di registrazione rappresentano una sfida diretta alla libertà di associazione”, ha scritto in un comunicato l’organizzazione britannica “Choose Love”, che opera in Grecia.

“Persino l’IOM, per cui lavoro io, subisce continue restrizioni da parte del governo”, spiega Ahmed. “E stiamo parlando di un’organizzazione parte delle Nazioni unite”.

Sono questi i dati dietro l’organizzazione di una semplice manifestazione, in una Atene sempre più militarizzata. Se il quartiere Exarchion, che ospita l’associazione degli afghani, una volta era una sorta di Christiana greca autogestita dai collettivi, oggi è presa d’assalto dalla polizia, le cui pattuglie sorvegliano tutti i centri d’aggregazione.

C’è una storia, molto sinistra, che Hana vuole condividere con noi per spiegare il clima teso in cui si fa associazionismo. “La scorsa settimana io, mia cugina e un’altra attivista siamo andate davanti all’ambasciata degli Stati Uniti. Pacificamente, non avevamo niente con noi. Avevamo solo uno striscione, per chiedere perché avessero abbandonato così l’Afghanistan. Hanno chiuso tutte le finestre dell’ambasciata, bloccato i cancelli e chiamato la polizia. Degli agenti ci hanno arrestate, hanno preso i nostri documenti. Ci hanno trattenute tre ore in una centrale di polizia. Siamo uscite perché ho chiamato un giornalista della tv: lui ha minacciato di farci un servizio e la polizia ci ha lasciato andare”.

Agosto è concluso, le manifestazioni continuano, molti bambini afghani non hanno accesso alle scuole per “problemi di budget”. L’autunno greco si preannuncia bollente, in attesa che l’Europa batta un colpo.

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Profilo dell'autore

Joshua Evangelista
Joshua Evangelista
Responsabile e co-fondatore di Frontiere News. Scrive di minoranze e diritti umani su Middle East Eye, Espresso, Repubblica, Internazionale e altre testate nazionali e internazionali

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