Dopo la positiva esperienza dei quattro capitoli di “Come due stelle sul mare” di Carlotta Mismetti Capua, pubblicati a puntate, Frontiere News lancia un nuovo appuntamento fisso: Il racconto del giovedì. Ogni giovedì, infatti, condivideremo con i nostri lettori un racconto o un brano che ci ha particolarmente appassionato. Oggi vi proponiamo “Tutti gli altri lo chiamano Omero” di Tahar Lamri.
Fra tutte le cose che mi potevano mancare del mio paese, in questo preciso istante, niente mi manca di più della voce del muezzin che culla le ore dall’alba al tramonto. Sento un dolore lancinante, sono trascinata dai capelli. Il mio sangue lascia strisce sul pavimento. Strisce parallele. Il corpo contuso, una miscela di pieno e di vuoto invade il mio corpo. Stranamente il mio respiro è calmo e quieto, come il respiro di un bimbo in un pomeriggio d’estate. I ricordi mi invadono sotto forma di schegge e lampi. Il rumore delle colline e il congresso degli uccelli che mi svegliavano nelle mattine dolci e dorate della mia città che non rivedrò mai più. Un dolore lancinante, breve e eterno nel fianco. Forse è un calcio.
Apro gli occhi e guardo per un attimo qualcosa che somiglia al soffitto. Il soffitto di casa mia. Una casa non ancora pagata. Sopra di me lui si affanna con pugni stretti e occhi fuori dalle orbite. Prego Dio di accorciare la sofferenza di quest’uomo. Per me è finita. Sento la fine vicina. Sento me stessa alzarsi, ma sono sdraiata per terra. Avevo sentito dire da piccola che quando arriva l’ora, mentre si è sdraiati a rendere l’ultimo respiro, qualcosa di lieve, come se fosse noi stessi, un’ombra di noi stessi, si alza e plana in aria a guardarci dall’alto. Qualcuno che sono io stessa mi guarda dall’alto. Eppure questo uomo sono stata io a portarlo dal paese. Gli ho fatto i documenti e l’ho sposato. Volevo condividere il mio esilio, la mia lontananza da casa con qualcuno che mi capisse fino in fondo. Mi sono fatta un matrimonio combinato da me stessa. Le gelosie ci hanno subito fatto compagnia. Sento il mio respiro affannoso, ma mi sento così leggera che non so cosa pensare. Ho un po’ alzato la voce e lui, come risposta, ha preso un coltello. Eravamo in cucina. Non ho fatto in tempo a fuggire che già la lama lacerava la mia carne, le mie unghie laceravano il suo viso. Quando ho sentito il pericolo mi sono aggrappata a lui e l’ho baciato sulla bocca. Un bacio salato. Erano le mie lacrime o forse un odore di sangue.
Poi sono caduta e l’ho trascinato nella mia caduta. Poverino, ha battuto la testa così forte che istintivamente l’ho accarezzato. Folle di rabbia lui non ha trovato di meglio da fare che affondare la lama nella mia carne, ancora e ancora e ancora e ancora… Ho pianto. Per lui che forse non aveva nessun desiderio di lasciare casa sua e i suoi affetti e per me, per me, per me per me che volevo addomesticarlo comprandogli delle cose, senza sapere che quelle cose mi condannavano ogni giorno di più. Mi sento intorpidita, mi sta trasportando in braccio o sto galleggiando in aria. Una pioggia obliqua di pensieri. La pioggia cessa radunando i rumori familiari, i rumori del mondo. Adesso sto galleggiando in acqua. Bevo e mi sento annegare. Ho sempre avuto paura dell’acqua e adesso mi sento spingere sempre più giù senza possibilità di risalita. Tutto tace. Mio marito si chiamava (uso l’imperfetto soltanto per me, lui rimane ancora in vita e userà il presente dell’indicativo) Omar. Tutti gli altri lo chiamavano Omero.
Tahar Lamri nasce ad Algeri nel 1958. In Libia dall’79 all’84, conclude gli studi in Legge iniziati in Algeria, con la specializzazione in Rapporti internazionali e lavora come traduttore presso il consolato di Francia a Bengasi, si sposta dunque in Francia. In Italia dal 1986, vive a Ravenna. È direttore artistico del Festival delle culture.
Profilo dell'autore
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