Il terreno arido e silenzioso dell’Oromia; rami di alberi scheletrici che si protendono verso il cielo grigio; mandrie di capre e cammelli che avanzano in cerca di vita. In cerca d’acqua.
Così inizia The Well (Il pozzo), documentario proiettato in anteprima, non casualmente, in questi giorni a Roma. Il film mostra la dura vita dei Borana nel villaggio di Erder, nella regione di Oromia: questa tribù africana, tutt’altro che sprovveduta e incolta, è stata in grado di tramandare e conservare per secoli un’antica sapienza che sopravvive, con difficoltà, tutt’oggi: scavare a mano pozzi profondi decine di metri per raggiungere l’acqua. E intorno all’acqua ruota tutta la loro vita: l’aba erega (il guardiano del pozzo) spiega alle telecamere come lui sia il responsabile di ciò che accade nel pozzo. C’è una rigida gerarchia da rispettare, se si vuol bere. Sono tassativamente vietati litigi e baruffe presso il pozzo. Pena: il sacrificio di uno dei capi di bestiame. E anche il bestiame, per i Borana è tutto. Ma i cambiamenti climatici ritardano l’arrivo delle piogge, e gli animali muoiono. I giovani emigrano verso le città. Gli aiuti umanitari sono presenti, ma non sono poi in grado di smaltire cumuli di spazzatura che si disperdono in tutto il deserto. In questo contesto di generale degrado socio-culturale, i Borana hanno conservata integra una verità che l’uomo occidentale stenta a comprendere: l’acqua è un bene di tutti. Non si può commerciare con l’acqua, tutti hanno diritto di bere. Ed è per questo che continuano a sopravvivere i pozzi cantanti: ogni mattina diversi uomini si tuffano nel pozzo, suddiviso in tre o quattro livelli – piani, se vogliamo – e, con l’aiuto di secchi di plastica, trasportano l’acqua in una vasca dove gli animali possono dissetarsi. Il duro lavoro è allietato da antiche canzoni che aiutano gli uomini a tenere ritmo, quando il sole arroventa e la fame è tanta. I Borana, nonostante vivano in una delle regioni più aride della terra, non negano l’acqua a nessuno: se i pozzi dei clan loro vicini vengono chiusi o intasati da cedimenti del terreno, i Borana permettono agli sventurati di attingere l’acqua dai propri pozzi. Basta che l’aba erega sia avvisato col giusto anticipo. Dissetarsi dal pozzo senza permesso, equivale a commettere uno stupro: in entrambi i casi una violazione. Di pari gravità.
Da una parte, i pozzi cantanti. Dall’altra, i pozzi meccanici alimentati a benzina che trasportano in superficie, su apposite carrucole, l’acqua sufficiente. Il lato positivo è che, coi pozzi meccanici, c’è una minore contaminazione (nei pozzi cantanti, gli uomini si immergono nell’acqua che poi andranno a bere); il lato negativo, è che i pozzi meccanici costano. E dietro si sviluppa spesso e volentieri un vero e proprio business: attraverso la corruzione, il denaro speso per azionare il pozzo meccanico sparisce, e così non si può acquistare benzina che rimetta in funzione il pozzo. Ai Borana non piace bere da questi pozzi “capitalisti”, ma, quando si ha sete, va bene tutto.
Mentre in tutto il mondo sono in atto interventi per un controllo privato delle risorsi idriche e l’accesso all’acqua potabile non è ancora considerato un diritto fondamentale dell’Uomo, i Borana meritano una particolare attenzione per la loro straordinaria capacità di garantire un accesso generale e indiscriminato ai loro pozzi in uno dei luoghi più inospitali della terra abitata.
Luca Ortello
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