Tigray, l’inaspettato asse Etiopia-Eritrea contro i rifugiati

Le conseguenze umanitarie dell’occupazione militare del Tigray da parte delle forze etiopi guidate dal premio Nobel per la pace Abiy Ahmed sono pesantissime. Intanto nell’area le truppe eritree contribuiscono alle razzie e secondo le ong i rifugiati vengono uccisi, stuprati o condotti in Eritrea.

A tal proposito Pina Piccolo ha intervistato Antonietta Zampino, medico chirurgo per 16 anni in Eritrea con l’Associazione missionaria internazionale.

A novembre, le tensioni di lungo corso tra il governo federale etiope e la leadership della regione settentrionale del Tigray sono esplose in uno scontro militare. Il primo ministro Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019, ha lanciato quella che ha definito una “operazione di legge e ordine contro terroristi locali”, attraverso un ampio dispiegamento delle forze etiopi di difesa nazionale e ripetuti attacchi aerei. Il 28 novembre le forze federali hanno preso il controllo della capitale della regione e dichiarato la vittoria, ma la situazione continua a essere estremamente instabile in varie arie del Tigray e si teme la prospettiva di un’insurrezione prolungata. Secondo Human Rights Watch, gli attacchi di artiglieria all’inizio del conflitto armato hanno colpito case, ospedali, scuole e mercati nelle città di Mekelle, Humera e Shire, uccidendo almeno 83 civili, inclusi bambini, e ferendone oltre 300.

Nel frattempo, oltre sessantamila rifugiati sono fuggiti dal Paese, quasi mezzo milione di persone sono sfollate e hanno un disperato bisogno di assistenza, storie di atrocità e crimini di guerra vengono raccolte dalle organizzazioni non governative e nel Tigray sono intervenute, a fianco delle forze federali, truppe eritree.

I rifugiati hanno affermato che tutte le forze sul campo – l’esercito etiope, le truppe eritree e le milizie etniche – sono responsabili di violenze sessuali, attacchi mirati su base etnica e saccheggi di larga scala. Le Nazioni Unite stimano che circa due milioni e mezzo di tigrini abbiano urgente bisogno di assistenza, a causa della difficoltà di avere accesso ad acqua, cibo e assistenza sanitaria. Se questi problemi non vengono risolti, esiste una reale prospettiva di carestia, un orrore ricorrente in Etiopia.

In questo brutale conflitto sono stati coinvolti anche i rifugiati eritrei di due campi profughi, a Shimelba e Hitsats, che sembrerebbe siano stati attaccati da uomini armati che hanno ucciso e rapito i residenti. I campi sono stati chiusi e i residenti allocati altrove, mentre è stato riferito dall’UNHCR che i soldati eritrei avevano costretto alcuni di loro a tornare in Eritrea.

Per capire il contesto in cui si sta svolgendo la crisi, Pina Piccolo ha intervistato per le lettrici e i lettori di Frontiere News Antonietta Zampino, medico chirurgo responsabile della Associazione missionaria internazionale, con la quale ha operato per 16 anni in Eritrea tra i tigrini.

Mappa del Tigray

Antonietta, ci sono stati dei grandi cambiamenti negli anni in cui si è trovata là?

Sono arrivata nel 1993, subito dopo la fine della guerra dei trent’anni, e ci sono rimasta fino al 2009. Ero però già stata per 6 mesi nel 1985 come volontaria della Caritas quando ancora c’era il dittatore Menghistu. Ho vissuto quindi l’euforia della fine della guerra, dal 1993 al 1998. Isayas veniva popolarmente chiamato Ambassha, “leone”, ed era considerato un eroe della Patria – benché nel ’95 avesse fatto un proclama in cui si intravedeva non più una democrazia ma una dittatura. In quegli anni aveva arrestato e fatto sparire i ministri che volevano attuare la costituzione ed espulso l’ambasciatore italiano Bandini, perché aveva chiesto che fine avessero fatto i ministri. Poi, nel ’98, la guerra contro il Tigray e l’Etiopia era sfociata nell’espulsione di tutti gli eritrei presenti sul territorio etiope e di tutti gli etiopici che erano in Eritrea. La popolazione cominciò a scappare perché non vedeva più una prospettiva futura.

Ci può descrivere i campi profughi in cui si è trovata ad operare?

Nel ’98 si sono formati diversi campi profughi a pochi chilometri da Digsa, dove avevamo costruito un piccolo ospedale di quaranta posti letto che era pienamente operativo. Il più vicino a noi era il campo Alba. Andavamo a fare visita ed eravamo il punto di riferimento per i malnutriti. A centinaia sono stati curati e guariti nel nostro ospedale, che veniva chiamato “la mamma dei bambini”. Erano tutti eritrei espulsi dall’Etiopia. I racconti erano terribili. La maggior parte di loro era sposata con degli etiopici, che avevano dovuto lasciare in Etiopia insieme ai propri figli. Viceversa, in Eritrea diverse donne sposate con degli etiopici avevano visto deportare i propri mariti.

Da quel momento in poi, molti hanno deciso di fuggire e la meta era sicuramente l’Europa. Con il servizio militare illimitato, la chiusura di tutte le imprese private, gli stipendi governativi da fame e il cibo sequestrato dai campi, spesso abbiamo nascosto nei locali dell’ospedale persone e viveri.

Vista la sua operatività in ambito medico, ci potrebbe parlare di come erano le condizioni all’interno del campo dal punto di vista sanitario e dell’alimentazione? Arrivavano gli aiuti alimentari destinati ai campi dall’ONU o dalle ong? Nel caso dei gruppi famigliari, per i bambini era possibile accedere all’istruzione?

Non è descrivibile un campo di 30.000 persone senza servizi igienici, senza acqua e senza cibo a sufficienza. Per un certo periodo non arrivavano aiuti, poi sono arrivati sia gli aiuti dell’ONU, Unicef e da alcune ong tipo Medici senza Frontiere e la Caritas locale, a sua volta aiutata dalla struttura internazionale dell’organizzazione. L’arrivo degli aiuti era una benedizione, ma le condizioni igieniche provocavano malattie intestinali contagiose che, soprattutto nei bambini, hanno portato a moltissimi morti per disidratazione e malnutrizione. I residenti del campo andavano via man mano che trovavano parenti o amici disposti ad accoglierli; in circa un anno, il campo dove avevamo accesso noi venne perciò smantellato.

Quando e per quale motivo siete state/i costretti a lasciare la missione e l’assistenza che potevate prestare? Chi vi ha sostituito?

Nel 1995 un proclama del governo ha annunciato l’intenzione di mandare via tutti gli stranieri e gli operatori di pace. Poi, per vari motivi (carestie, situazione economica molto precaria e condizioni sanitarie disastrose) questo programma è stato dilazionato nel tempo. Dopo la fine della guerra del 1998-2000, sono stati gradualmente espulsi tutti i missionari le forze dell’ONU. Hanno iniziato chiudendo piccole strutture sanitarie e scuole cattoliche, per poi passare alle più grandi. Noi siamo stati gli ultimi a lasciare il Paese, nel 2009. Per due anni hanno acconsentito che una nostra volontaria rimanesse con le suore locali, le Figlie di S. Anna; era uno staff che avevamo preparato per anni, anche se poco per volta scappavano dal Paese ed eravamo costrette continuamente a sostituirle. Nel 2011, anche la volontaria dovette rientrare.

Pur dovendo lasciare i campi siete riusciti a mantenere un contatto con le persone che si trovano ancora là? Ci potrebbe parlare delle rifugiate che sono attualmente ospiti a Faenza?

Abbiamo continuato a sostenere economicamente l’ospedale e quindi abbiamo tenuto stretti contatti sia con le suore che col personale rimasto. Fino a quando ce lo hanno consentito abbiamo continuato a mandare container di medicine e presidi e nel 2018 abbiamo implementato l’ospedale con una nuova radiologia. Dopo il 2009, per cinque anni ci hanno negato il permesso di tornare nel Paese poi improvvisamente siamo riusciti a fare due volte all’anno delle missioni di verifica per seguire le attività dell’ospedale e portare volontari specializzati per l’installazione della radiologia e seguire circa 400 famiglie con le adozioni a distanza.

Accogliamo attualmente quattro bambini e tre mamme che sono state nei campi profughi per parecchi anni. Le tre donne hanno subito abusi durante il servizio militare obbligatorio e per questo motivo sono scappate dall’Eritrea. Nel corso dela fuga hanno patito fame e freddo, e subito altre violenze. Alcuni dei bambini, invece, si sono trovati costretti a chiedere l’elemosina per sfamarsi. La nostra opera è rivolta all’integrazione e alla cura delle fragilità che si portano dietro dopo una vita vissuta fuggendo dal dolore e dalla disperazione.

Negli anni siete riusciti a parlare di queste cose con la stampa o subivate pressioni che vi inducevano al silenzio per salvaguardare l’incolumità dei rifugiati? Ci sono stati grossi cambiamenti da quando si è insediato Abiy? Qui in Europa la sua elezione ha suscitato grandi speranze, dal suo osservatorio dei campi rifugiati avete avvertito grosse differenze?

Si parlava solo sporadicamente. Anche quando nel 2003 ci hanno ferite e incarcerate abbiamo evitato di divulgare la notizia per paura di ritorsioni sui nostri amici e collaboratori eritrei. La libertà di pensiero e di stampa non esiste in questo regime da tempi remoti, molti giornalisti sono stati incarcerati e torturati, altri spariti nel nulla. Il “famoso” premio Nobel della Pace accolto benissimo è stato un fallimento totale. Ma in Europa, come sa, non trapela nessuna reazione. Mi trovavo in Eritrea quando c’è stata l’apertura dei confini, per cui abbiamo potuto acquistare le medicine dall’Etiopia anche se non c’erano i permessi del governo. C’era un clima di euforia ma la gente invece di starsene ad aspettare che davvero cambiasse qualcosa ha approfittato subito per fuggire dall’Eritrea con pulmini che a pochi nakfa li trasportavano in Etiopia, da dove per un po’ sono riusciti a scappare con un passaporto provvisorio rilasciato in Etiopia. Ma poi un accordo fra i due Paesi ha proibito il rilascio di documenti agli eritrei.

Come è cambiata la situazione nei campi in seguito alle ondate di sfollati provocate dal  conflitto riaccesosi nel novembre 2020? Fuori dal Paese sono arrivate notizie di persecuzioni di fedeli copti e cristiani, attacchi a chiese, angherie e stupri contro la popolazione civile da parte dell’esercito etiope ed eritreo. 

Si sa quello che alcune agenzie hanno pubblicato. Noi abbiamo la testimonianza di una suora italiana, responsabile di un grosso ospedale nel Tigray, che non vuole apparire perché al momento si trova in Italia per cure e non può rischiare di non avere il permesso di rientro. Da pochi giorni sembra che gli aiuti siano accettati dal governo etiope ma sotto la loro supervisione. E da quanto ci dicono le nostre fonti non arriva quasi niente alla popolazione perché adesso vogliono piegare il Tigray costringendolo alla fame.

Ha notizie dirette da persone dentro i campi profughi per quanto riguarda l’accesso agli aiuti destinati a loro dall’UNHCR? Girano notizie molto allarmanti sulla possibilità di carestie e di ritorni forzati in Eritrea di persone che si erano rifugiate nel Tigray perché malviste dal regime di Afewerki. 

Sì, anche di questo ho notizie che riguardano persone da ormai oltre vent’anni in Etiopia, ma al confine, deportate nella zona dei Kunama, così come di molte persone che sono state rimpatriate. Sembra che i campi più vicini all’Eritrea siano stati completamente svuotati: alcuni sono fuggiti, altri uccisi e altri ancora deportati in Eritrea in attesa di giudizio. Sono notizie che ho avuto dai vescovi eritrei che dicono che non possono prestare aiuto a queste persone perché il governo lo proibisce.

In che modo possiamo aiutare dall’Europa? Ha qualche consiglio per come la stampa e l’informazione dovrebbe muoversi e contribuire a migliorare la situazione?

Sembra una partita persa nel senso che ormai la stampa è asservita all’economia e questo potere non consente di dire verità scomode. Il consiglio è quello di divulgare le notizie il più possibile e con i mezzi che ognuno ha a disposizione. Purtroppo oggi non fanno più notizia la morte gli stupri e le violenze su donne e bambini. Serve cambiare la cultura dell’egoismo con quello della prossimità, la cultura dello scarto con quella dell’accoglienza.


Foto in copertina di Ebrahim Hamid | AFP


Profilo dell'autore

Pina Piccolo

Pina Piccolo
Pina Piccolo è una traduttrice e insegnante italo-americana. Nata in California da immigrati calabresi, cresciuta in Italia, ritornata negli USA e vissuta lì per trent’anni per riapprodare nuovamente in Italia, si considera bilingue e “multicultural”. Formatasi come italianista all’Università di Berkeley, ha svolto attività di promozione culturale in entrambi i paesi scrivendo saggi (negli Stati Uniti su Fo, Rame, Celati, di Ruscio) e organizzando iniziative (qui in Italia promuove l’opera della poetessa Shailja Patel). Negli ultimi anni ha pubblicato poesie e racconti che affrontano, tra altre cose, il tema del razzismo e della xenofobia, purtroppo di grande attualità a livello mondiale.

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