Indonesia, una nuova chance dopo la Jihad

di Federica Marsi

L’ultima mossa del governo indonesiano nella lotta al fondamentalismo islamico è l’istituzione di un Consiglio Nazionale Antiterrorismo con il compito di organizzare veri e propri istituti di rieducazione religiosa per il reinserimento nella società di ex o presunti terroristi. L’idea sarebbe nata nel febbraio dello scorso anno a seguito della scoperta di un campo di addestramento nella provincia di Aceh. Delle 73 persone arrestate, 14 erano ex detenuti in libertà da pochi mesi. Questo ha portato ad una riflessione sull’efficacia del metodo detentivo, che studi successivi hanno dimostrato essere controproducente. Gli analisti sostengono che nelle carceri indonesiane i detenuti trovino terreno fertile per radicalizzare la propria fede, per poi uscire avendo maturato idee ancor più estremiste.

Il progetto delle scuole di rieducazione nasce da un idea di Nooe Huda Ismail, ex giornalista del Washington Post e direttore esecutivo dell’Istituto per la Pace indonesiano, il quale da adolescente frequentò il collegio islamico Al Mukmin, lo stesso di molti dei responsabili degli attentati di Bali del 2002. Sorpreso di trovare i nomi dei suoi ex compagni di scuola tra quelli dei terroristi, Ismail incominciò ad interessarsi alle ragioni che li avevano spinti fino a compiere un simile passo. Ciò che cerca di fare durante i suoi incontri con loro non è di dissuaderli dall’intraprendere la via della jihad, ma di cambiare il loro modo di interpretare la jihad.

L’approccio utilizzato da questi nuovi istituti è ben lontano da quello tradizionale. I carcerati sono trattati con la massima gentilezza e ad alcuni sono anche permesse visite coniugali. Vengono organizzate sessioni di consulenza per discutere alcune nozioni islamiche e promuovere la loro ridefinizione in senso nuovo, non violento. Secondo Sarlito Wirawan Sarwono, professore di psicologia dell’Università di Persada e consigliere nel programma di rieducazione del 2005, le sessioni di gruppo sarebbero dominate dai vari capi delle organizzazioni terroristiche, mentre gli adepti più giovani si limiterebbero ad annuire e a restare in silenzio in segno di rispetto e deferenza verso queste figure. Nelle sessioni individuali invece, anche i grandi capi vacillano. Sarwono fa l’esempio di Abu Dujana, leader dell’ala militante Jemaah Islamiyah, il quale in gruppo si mostrava strenuamente in favore della jihad, mentre in privato esprimeva i primi dubbi sull’utilità della violenza. Certamente, il piano di rieducazione non è infallibile, ma secondo Ismail è un punto di partenza. Ne è un esempio Said Ali al Shihri, che dopo aver passato sei anni a Guantanamo ed aver partecipato al progetto di rieducazione saudita è emerso come uno dei massimi leader della sezione di al-Qaeda in Yemen.

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Ad un sostegno di tipo psicologico ne è affiancato uno economico dopo la scarcerazione, che prevede l’assegnazione di un fondo con il quale far fronte alle spese di avvio di una nuova attività e all’educazione dei figli. Il reinserimento nella società in condizioni di normalità è uno dei punti fondamentali del progetto. Le persone coinvolte in attività terroristiche sviluppano una rete di relazione molto fitta, che va dal mandare i figli nella stessa scuola ai matrimoni all’interno di questo stesso gruppo. Condurre un altro stile di vita, lontano dal terrorismo, non implica quindi un semplice cambiamento della routine quotidiana ma una vera e propria rottura con l’intero network di amici e famigliari.

Per sostenere il ritorno ad una vita normale, il Consiglio Nazionale Antiterrorismo ha sviluppato alcuni programmi di impiego. Il settore che, secondo Ismail, si è dimostrato fin ora il più adatto ad accogliere gli ex terroristi è quello della ristorazione, in cui il partecipante è obbligato a confrontarsi con una clientela appartenente a diversi settori della società. Un ambiente che offre la possibilità di interazione con le persone più disparate, dai cristiani alle donne senza velo, sarebbe quindi uno degli elementi che favorisce maggiormente l’abbandono del vecchio stile di vita.

Non possiamo battere i terroristi con i proiettili”. Secondo Ismail, la strada intrapresa nella lotta al terrorismo non è quella giusta. Il vero problema è a monte. L’analisi di Sidney Jones, direttore del dipartimento asiatico dell’International Crisis Group, è che “il vero problema sono le ideologie fanatiche che si diffondono nelle prigioni indonesiane. La sfida è estirparle completamente da questi luoghi”. L’istituzione del Consiglio Nazionale Antiterrorismo potrebbe rappresentare un primo passo in questa direzione.


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