Secondo capitolo de “La casa dei ricordi“, romanzo della scrittrice mozambicana Amilca Ismael. Clicca qui se hai perso la prima puntata.
Dopo circa un anno di scuola, diventai ASA con tanto di diploma e, da quel momento, quella era la mia professione. Il nuovo titolo di studio mi agevolava il lavoro presso le case di riposo o a domicilio. Non tardò ad arrivare una proposta e, dopo circa due mesi, iniziai a lavorare come tirocinante presso una casa di riposo non molto distante da dove abitavo.
Un posto molto bello, almeno visto dall’esterno: entrando dal cancello principale, si vedeva un’enorme distesa di prato e tante rose fiorite, un grande numero di piante di melograno, un’enorme quantità di piante di salvia e, qua e là, siepi di alloro. Sul retro un gazebo con tavoli e panchine dove stavano comodamente sedute una quarantina di persone, poi scivoli e altalene per bambini: cosa insolita per una casa di riposo.
All’ingresso una bella fontana era situata all’inizio di un lungo corridoio e, a sinistra, si trovava la cappella dove veniva celebrata la Messa ogni sabato pomeriggio. A sinistra verso la porta scorrevole si trovava la reception con il personale pronto a dare qualsiasi informazione riguardo al soggiorno. Più avanti c’era l’ufficio delle animatrici, il centro diurno, la cucina e la lavanderia. Sulla destra c’era la palestra, la “Sala blu”, la sala da pranzo, le macchinette del caffè. A un certo punto questo corridoio veniva spezzato da una porta, che delimitava l’inizio dei reparti.
Quando entrai in quel posto così lussuoso, pensai a come erano fortunati gli anziani in Italia ad avere un posto tanto bello dove vivere: un posto dove venivano quanto mai ripagati della loro fatica di tanti anni di lavoro, dei loro sacrifici e delle loro rinunce. Quello non era di certo il mondo a cui ero abituata. Mi sembrava di vivere in un universo parallelo a quello degli anziani dell’Africa e in particolare del Mozambico, paese dove sono nata e cresciuta. La prima impressione in quel continente è l’abbandono: si vedono molti anziani per strada, nei campi o in coda per prendere il pane o ricevere un’assistenza medica.
In una casa di riposo lo scenario era diverso: gli anziani erano seduti ad aspettare che qualcuno desse loro una mano, anche per fare le cose più elementari. Erano seduti sulle carrozzine, quasi tutti legati con le cinture di contenzione.
I loro sguardi erano persi nel vuoto, fissavano un punto immaginario e pensavano a chissà che cosa: forse avevano voglia di urlare, forse avevano voglia di vivere o forse avevano voglia di morire. Nessuno poteva dire con esattezza che cosa volessero veramente. Erano lì senza protestare e aspettavano che accadesse qualcosa di diverso: forse anche qualcosa di speciale.
Per un istante cercai di immaginare a cosa penserebbe un anziano africano se entrasse in una casa di riposo: forse gli piacerebbe per tutte le comodità che ci sono e ringrazierebbe Dio per essersi ricordato che lui esiste e per aver posto fine ai suoi sacrifici. E che cosa direbbe un anziano italiano, che vive in una casa di riposo, se diventasse all’improvviso un anziano africano che fa tutto da solo? Forse a lui piacerebbe la libertà di cui godono i loro coetanei africani, e anch’egli ringrazierebbe Dio per essersi ricordato di lui e per avergli dato la forza di essere libero.
Anche se i loro mondi sono così diversi, sono entrambi colpevoli di essere vecchi. Nel loro sguardo si può leggere la sofferenza, la solitudine e la rassegnazione. Era la prima volta che vedevo tanti anziani tutti insieme, seduti sulle carrozzine, ben ordinate come in un parcheggio di un grande magazzino.
“Mio Dio, cosa aspetta tutta questa gente?” Non mi preoccupai molto della risposta, tanto nessuno me l’avrebbe mai data. Mi limitai piuttosto a osservare quel posto, che per me era una novità. Era un vero e proprio hotel a quattro stelle. C’erano a disposizione alcune camere singole, camere da due e da quattro posti letto.
Gli ospiti venivano sistemati nelle camere non in base alla loro patologia, ma alla casualità. Era quindi facile trovare in una camera persone dementi insieme ad altri che apparente- mente non avevano nulla. La struttura, per una migliore organizzazione o per una migliore sistemazione, era stata divisa in tre reparti più un centro diurno integrato.
Il reparto uno ospitava circa venti persone con patologie tutto sommato meno gravi rispetto agli altri reparti. Il due, il reparto più grande, ospitava circa quaranta persone e le patologie erano varie. Infine c’era il reparto tre, che si trovava al piano superiore. Ospitava quindici persone con patologie diverse e anche qualche comatoso.
Le camere di tutti e tre i reparti erano arredate allo stesso modo: c’erano anche due bagni per camera, tranne nel reparto tre, dove le camere ne avevano uno solo. Il menù della settimana veniva attaccato ogni lunedì nella bacheca delle animatrici, così i parenti venivano informati sull’alimentazione dei loro cari, anche se molte volte il menù giornaliero non corrispondeva a quello appeso.
Il reparto due era il più pesante da gestire. Quando per la prima volta lo vidi, mi spaventai per le tante carrozzine fuori delle camere. Era mattina presto e tutti erano ancora a let- to. “Mio Dio, non avrei mai immaginato che esistessero delle persone così malridotte” pensai. Qualcuno gridava: «Infermiera!» e, dall’altra parte, qualcuno urlava di tacere. Le urla degli ospiti si confondevano con le risate delle operatrici, che raccontavano le loro avventure amorose vissute durante la notte con i loro mariti, i loro fidanzati, o con il rumore della televisione puntata rigorosamente su Canale 5, da dove si aspettavano notizie incoraggianti dall’oroscopo. La maggiore parte degli ospiti dormiva ancora: a loro non interessava nulla di quello che era successo nelle nostre camere da letto, tanto meno di quello che diceva l’oroscopo.
In questa atmosfera animata si iniziava l’igiene. Erano appena le sei e un quarto di mattino e nessuno chiedeva ai pazienti se fossero d’accordo o meno sul farsi lavare a quell’ora: era la regola e bisognava accettarla. Qualcuno più coraggioso commentava: «Altro che casa di riposo: questa è una galera. Dobbiamo fare quello che dite voi… ho passato la vita a svegliarmi presto per andare al lavoro. Adesso che non lavoro, devo svegliarmi presto lo stesso. Quando posso dormire? Quando sarò morto?».
Non nascondo che non avevo mai visto o immaginato come fosse fatta una “casa di riposo”: forse perché in Africa gli anziani sono tenuti in famiglia e destinati a morire lì. Nessuno mai penserebbe di lasciare altrove l’anziano, forse perché la povertà è tale che non si riuscirebbe a pagare neanche la prima rata di una casa di riposo.
Una volta mia mamma mi parlò di un posto che si chiamava “velhos colonos”, i vecchi coloni. Non penso che fosse una vera casa di riposo, ma piuttosto un luogo dove venivano aiutati gli anziani bianchi portoghesi. Dopo l’indipendenza del Mozambico, il posto venne chiuso.
È indescrivibile l’odore che c’è nelle camere degli ospiti diprima mattina. Certamente non è profumo: si respira un cocktail di urina, feci e alito cattivo. Cosa sgradevole e vomitevole, soprattutto dopo una buona tazza di caffelatte con cereali. Di certo non immaginavo minimamente che le cose sarebbero andate così. Per un momento mi pentii e mi chiesi se veramente valesse la pena di fare questo lavoro così pesante, anche se lo stipendio era garantito, ma in quella partita mi ero messa da sola e non mi restava che giocarla. Ed era solo l’inizio! Con il tempo, forse, mi sarei abituata a quegli odori, ma la prima volta stavo quasi svenendo.
«Devo aprire la finestra, se no muoio!». «Aprila pure!» rispose Diana. Diana lavorava lì da tanto tempo: a questi odori ormai non faceva più caso. Non avevo mai pensato che tanta gente avesse veramente bisogno di aiuto, anche solo per alzarsi dal letto o per lavarsi.
Non potevo non pensare a donna Lurdes, un’anziana che viveva cinque case dopo quella di mia mamma: suo marito era stato ucciso durante una delle tante guerre scoppiate in Africa. Non so quanti anni avesse, ma sono sicura che ne aveva tanti. Mia nonna diceva sempre: «Se vedi una persona di colore con tanti capelli bianchi, vuol dire che è molto vecchia» e donna Lurdes di capelli bianchi ne aveva parecchi. Donna Lurdes era piccola e simpatica; per vivere vendeva la verdura che coltivava nel suo giardino. Mia mamma mi mandava sempre a comprare verdura da lei e io ci andavo volentieri, mi piaceva quella donna dalla voce melodica e dalla pelle poco rugosa, nonostante l’età. Un’altra caratteristica delle persone di colore è che conservano la pelle liscia per lunghi anni, rendendo difficoltoso dare loro un’età. Questa bella vecchiettina sorrideva sempre, viveva con la figlia e con i nipoti, era felice e tranquilla.
Per lei, come per tante come lei, l’Africa non offriva delle possibilità diverse da quelle della lotta per la sopravvivenza. Sicuramente nessuno al mattino presto svegliava donna Lurdes per lavarla, anche se lei, per campare, non poteva permettersi di dormire fino a tarda mattinata. Doveva lottare, essere forte per sopravvivere e il prezzo da pagare era alto. Aveva ancora voglia di fare, nessuno la fermava nella sua battaglia, ma non era sola e quindi era immune dal male del secolo: la solitudine.
A differenza di una casa di riposo, dove si può leggere chiaramente la solitudine in quei volti rugosi e in quegli occhi smarriti. Persone che non riescono a trovare una risposta ai loro perché: sono lì, soli, ed è ancora più triste quando ti confessano che sono arrabbiati con Dio perché non li ha ancora portati via.
«Cosa sto qui a fare? A dare fastidio a tutti, ormai la mia vita l’ho già fatta! Se Dio mi portasse con lui, mi farebbe un grande favore!» confessò un giorno Teresa. «Forse, se muoio, sarò libero da questa condanna!» urlava qualcun altro.
Laggiù in Africa l’anziano non pensa alla morte come a una liberazione, bensì come a una maledizione, perché il suo compito sulla terra non è mai finito. Pur non volendo, dovrà badare ai suoi nipoti visto che i loro genitori spesso sono morti di AIDS. E i loro pensieri sono diversi.
«Se muoio anch’io, cosa sarà dei miei nipoti?». Dal momento che un anziano entra in una casa di riposo, la sua vita cambia completamente: automaticamente viene aiutato e questo lo porta a pensare che è un incapace. Quindi è arrabbiato e non riesce a capire perché deve stare lì. Qualche mese prima andava al bar a giocare a carte, preparava il pranzo per l’intera famiglia, andava a prendere i nipoti a scuola ed era il loro punto di riferimento quando i genitori andavano a lavorare. Fino a qualche giorno prima egli era in grado di vestirsi da solo.
Tutto questo improvviso cambiamento lo confonde: ha davanti a sé qualcuno che non conosce, a volte di pelle diversa della sua, e molte volte la comunicazione è scarsa perché quel qualcuno non sa parlare bene l’italiano, ma è questo qualcuno che lo tocca, che pure tocca le sue parti intime per lavarlo. Praticamente questo sconosciuto ha il telecomando della sua vita e può usarlo a suo piacimento.
È diventato vecchio agli occhi di tutti: anche se lui ha ancora forza e voglia di vivere, non viene creduto; tutti dicono che non capisce niente, ma lui sa che non è così e vorrebbe gridarlo al mondo intero. Ma sarebbe inutile perché ormai ha addosso quel maledetto marchio: “vecchio”.
Quello che ha da dire vale meno di niente: ormai deve morire, le sue parole non contano più, ma per fortuna nessuno può spegnere i suoi ricordi e i suoi pensieri. Il suo sguardo appannato è sempre più lontano e ha paura di trovarsi solo. Nella sua mente ci sono tanti ricordi e il suo cuore scoppia d’amore: vorrebbe regalarne un po’, ma non viene compreso. È tagliato fuori: le sue convinzioni, le sue storie e le sue esperienze non interessano più a nessuno, sono tutti convinti che ogni suo racconto sia inutile, ogni suo suggerimento sia sbagliato. Non interessa a nessuno che quel “vecchio” che si ha di fronte tempo fa era un primario famoso, un dottore, un dirigente di banca o uno scienziato, che ha contribuito anche lui a far andare avanti il mondo!
Ormai è vecchio, la casa di riposo gli sta stretta, gli manca l’aria, non può più andare in giardino, sul balcone e neppure al bar a fare una partita a carte. Si trova legato alla sedia con la cintura di contenzione e chiede arrabbiato: «Perché sono legato?».
«Per ordine del medico!» risponde qualcuno. Giorno dopo giorno entra in un tunnel a senso unico e senza uscita, cade in depressione, i suoi ricordi si allontanano, cancellando ogni traccia come una maledizione; farebbe mille cose per rimediare, ma non può più tornare indietro.
La sua mente si annulla come quando la maestra cancella la lavagna e solo andando in profondità si possono leggere delle frasi sconnesse. Quella pasta al pomodoro, di cui andava matto, ormai se ne è andata con i suoi ricordi, si trova a mangiare cibi frullati e a bere liquidi con addensanti: a volte per ordine del medico, a volte per comodità dell’assistente, perché lui mangia lentamente e il tempo è poco ed entro una determinata ora bisogna che vada a letto.
Dargli un piatto unico è più veloce! Non riesce a capire come mai, ma due giorni prima di entrare in casa di riposo lui era in grado di andare in bagno da solo o al massimo accompagnato dai parenti. Ora si ritrova a usare il pannolone! L’anziano paga spesso lo scarso o nullo interessamento degli altri.
Tante volte si ribella, anche violentemente, ma questo gesto viene interpretato spesso male dall’assistente, che non capisce che l’anziano non chiede niente di più del suo spazio. Anche se l’aiuto è necessario, poiché lui non è più in grado di capire e di gestire da solo la sua vita, tante volte, per non “perdere tempo”, lo si priva della sua dignità. La colpa è solo in parte dell’assistente, poiché è il sistema imposto da chi gestisce una casa di riposo che lo porta ad agire in fretta.
Ci sono tempi da rispettare, massimo quindici minuti per persona: cosa fattibile quando si lavora a cottimo, ma impensabile quando hai come compito quello di aiutare una persona nelle sue necessità primarie.
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