Terzo capitolo de La casa dei ricordi, romanzo della scrittrice mozambicana Amilca Ismael. Clicca qui se hai perso le precedenti puntate.
Questa partita si faceva sempre più dura per me e mi portò a riflettere ancora una volta sulle ragioni che mi avevano portato lì, e mi sorse un dubbio: «Sarà stato Dio ad avermi messo alla prova?». Vedendo le loro facce così tristi e sole, mi chiesi se avevo scelto questo lavoro solo per avere un stipendio a fine mese o se era stato il destino a portarmi e a farmi rimanere lì.
Lavorare con il cuore non è un argomento che si tratta a scuola o che si trova sui libri di testo, ma una lezione che si impara da soli, per rimanere poi incisa nel profondo del pro- prio essere. Molte volte l’anziano viene portato in una casa di riposo quando diventa ingestibile in famiglia, non riesce a fare più nulla da solo e tenerlo a casa sarebbe un rischio per lui e per chi gli sta vicino. Il dottor Dimoli, medico specializzato nel morbo di Alzheimer, durante il corso ASA ci aveva detto che, in molti casi, venivano prescritti più medicinali a chi cura a casa un malato di Alzheimer che non al malato stesso.
Come il caso di Renato, un uomo che aveva lavorato in un’industria meccanica per tutta una vita ed era rimasto sempre attivo, anche quando era già in pensione. «Tutti i giorni andava al bar a giocare a carte con gli amici» disse sua moglie «a un tratto…». Fece una pausa. Era triste e non riusciva a dire più nulla. Poi prese coraggio, con un fazzoletto di carta si soffiò il naso, e dopo un bel respiro continuò.
«A un tratto tutto cambiò, iniziò ad andare di meno al bar, ogni giorno sempre di meno. Non riuscivo a capire il perché, ma non mi sembrava un problema. Notai però che non trovava più la chiave di casa, e a mano a mano smarriva anche altre cose. Finché un giorno, non vedendolo arrivare, pen- sai che si fosse fermato a parlare con qualcuno o che avesse deciso di andare al circolo, dato che non ci andava da tanto tempo. Ma il tempo passava e lui non tornava: iniziai a preoccuparmi, andai fuori sulla strada e lo vidi arrivare, allora mi tranquillizzai e rientrai in casa. Più tardi suonò il telefono, era Ernesto, un amico di Renato. “Ciao Ernesto!” lo salutai. Poi gli chiesi: “Vuoi parlare con Renato?”. “No! Ho bisogno di parlare con te”. “Dimmi pure!” gli risposi. “Scusami se te lo dico così, ma ieri ho trovato Renato che andava da tutt’altra parte rispetto a casa, e quando gli ho chiesto dove andasse, lui mi ha risposto che andava a casa. Stai attenta a lasciarlo andare in giro da solo!” mi disse ancora. “Non capisco! Non era mai successa una cosa del genere. Non so cosa dire, ma grazie davvero!”.
Ero preoccupata e confusa, non riuscivo a credere a quelle cose che mi aveva appena detto Ernesto, non mi sembrava possibile. Ernesto mi salutò e io ricambiai e lo ringraziai ancora una volta. Rientrai in cucina: Renato era lì seduto ed era tranquillo. Lo guardai ancora e non vidi nulla di cambiato in lui, ma decisi di controllarlo nei giorni successivi. Con il tempo mi accorsi che Renato si dimenticava anche le cose più banali ed elementari; per esempio non si ricordava i nomi, o se aveva o no fatto colazione e, quando parlava di casa sua, parlava di quella dove aveva vissuto da piccolo.
La cosa mi preoccupava sempre di più, allora decisi di portarlo da un specialista e la diagnosi fu chiara. Si trattava di Alzheimer già al secondo stadio. Non mi diedi pace, non riuscivo a capire come mai non mi ero mai accorta di certi cambiamenti. Il medico mi spiegò che difficilmente ci si accorge dell’Alzheimer nel primo stadio perché il malato tende a nasconderlo e ci riesce perfettamente, poiché lui è consapevole di sbagliare o di dimenticare le cose più elementari. Ad esempio trovava mille scuse per non andare più al bar a giocare a carte, una cosa che prima faceva spesso. Fu l’inizio del calvario.
«Più passava il tempo più Renato peggiorava: da uomo tuttofare a un uomo che non si ricordava dove fosse casa sua. Era triste non poter fare nulla per aiutarlo, era diventato peggio di un bambino e, di notte, non dormiva più, voleva sempre usci- re a camminare. Mi confondeva con sua mamma e, peggio ancora, confondeva mia nuora con me. Pensava che lei fosse sua moglie e le chiedeva delle prestazioni sessuali. In questi ultimi anni è peggiorato e io non ce la facevo più a stare in piedi e mi imbottivo di medicinali. Mi stavo ammalando, ero sempre nervosa e stressata, non dormivo di notte, lui grida- va, era diventato violento e qualche volta alzava le mani. Mio figlio e il dottore mi hanno convinta a portarlo qui, anche se, le dico la verità, mi fa tanto male: mi sembra di abbandonarlo. Non so più cosa pensare, forse è meglio per tutti e due… ma vederlo qui da solo mi fa tanto dispiacere. Tenerlo a casa forse è peggio, anch’io ho la mia età, ma mi sento in colpa perché mi sembra di fargli un dispetto».
Silvia, così si chiamava sua moglie, aveva ragione: Renato era violento e ingestibile. Difficilmente si lasciava lavare e alzava le mani molto facilmente. Io capivo il dispiacere di quella donna: lei lo aveva curato a casa per ventiquattr’ore al giorno, era sola, a differenza di noi che lo gestiamo solo per otto ore a turno e siamo in tanti.
Sono passati dei mesi da quando Renato è entrato da noi: ormai stava peggiorando ed era andato completamente fuori di testa. Bisognava legarlo al letto, altrimenti scavalcava le spondine. Non mangiava più da solo ed era anche difficile imboccarlo: spesso ti sputava addosso il cibo. Era entrato camminando sulle sue gambe, poi aveva cominciato a usare il deambulatore. Renato ormai non camminava più e, dopo essere caduto, si trovava su una sedia a rotelle legato con la cintura di contenzione. Era triste, debole, sembrava quasi che si fosse arreso. Questa debolezza lo tradiva, si ammalava spes- so di bronchiti, finché non morì in silenzio nel suo letto.
Il caso di Laura era ben diverso. Ella fu portata al ricovero dal figlio ai primi segni di demenza senile. Non si sapeva molto di questa donna: era da noi da poco e apparentemente non aveva nulla. Lei cercava sempre di rendersi indipendente, non voleva aiuto, provava a fare tutto da sola. Il viso e i denti se li lavava da sé. Appena pronta si dirigeva verso la sala pranzo, dove faceva colazione senza l’aiuto di nessuno. Questa donna era sempre sola, non veniva mai nessuno a trovarla.
Quel pomeriggio ero di turno, e arrivarono due persone mai viste prima di allora, che decise entrarono in camera di Laura e andarono direttamente a controllare l’armadio.Mi diressi da loro e gentilmente chiesi: «Scusate voi chi siete? E che cosa cercate nell’armadio di Laura?».
La donna mi rispose scocciata: «Io sono la nuora e lui il figlio della signora Laura! Sto controllando se va tutto bene». «Mi scusi non lo sapevo…» dissi sconcertata. Uscii della camera: ero sconvolta, non sapevo che quella donna avesse un figlio. Era lì da tanto e l’avevo vista sempre sola. Mentre mi avviavo verso l’infermeria, vidi Valentina, la collega che era di turno con me, e la prima cosa che le dissi fu: «Indovina chi sono quei due che sono in camera di Laura?».
«Non lo so. Non li ho mai visti prima d’ora» mi rispose sorridente. «Lui è suo figlio e lei la nuora!». «Dai! Stai scherzando? Non sapevo che Laura avesse figli!». Valentina, come me, era meravigliata: anche per lei era una sorpresa.
«Pensa» le dissi, «la loro prima preoccupazione è stata di vedere se i vestiti sono a posto, se manca qualcosa, e di Laura non hanno ancora chiesto nulla!». Mentre commentavamo l’accaduto, ci piombò addosso la nuora e con tono arrogante disse: «Come mai mia suocera ha due gonne rotte e delle camicie senza bottoni?».
«Pensavamo che lei sapesse che facciamo solo servizio lavanderia, ma quello di sartoria nella nostra struttura non è previsto». «Anzi, visto che lei è qui, ne approfittiamo per chiederle di portare a Laura qualche cambio in più». «Va bene» ci rispose la nuora, di malavoglia, e se ne andò un’altra volta in camera di Laura.
Era da circa cinque minuti che quella donna frugava tra gli indumenti di Laura, cercando sicuramente qualcosa per mostrarsi interessata allo sguardo del marito. Lo sguardo di un uomo sottomesso alle regole della moglie, per il quale la parola della moglie è un ordine. Si poteva facilmente immaginare chi dei due in casa loro portasse i pantaloni. Con la scusa di controllare Eddy, che dormiva nel letto accanto a Laura, entrai nella camera. Eddy aveva seguito ogni movimento senza dire una parola; appena mi vide entrare, spostò lo sguardo verso di me e scuotendo la testa, come una che non capiva il perché di tutta quella arroganza, mi regalò un sorriso dolce e sincero.
«Ciao, Eddy! Come va?». «Ciao, Cioccolatino! Va meglio, ma sono stanca di stare a letto, mi puoi alzare?». «Forse per cena. Adesso ti misuro la temperatura, poi vediamo!». Con la coda dell’occhio seguivo i movimenti di quella donna arrogante, di cui innervosiva ogni suo commento, e mi domandavo come suo marito potesse essere così imbambolato da non protestare e come poteva stare lì a osservare la moglie che si preoccupava solo e unicamente dei vestiti, disinteressandosi completamente di sua mamma, dal momento che ancora non l’aveva vista e, peggio, non si era degnata di chiedere dove fosse.
Quarantacinque minuti dopo uscii disgustata da quella camera, mi sedetti con gli altri, tentando di trovare un argomento sensato per fare conversazione. Mentre ero lì arrivò la nuora di Laura, con quell’aria di chi sa di tutto e di più, accompagnata dal marito: con lo sguardo basso, senza degnarsi di salutare gli anziani presenti, mi chiese finalmente dove fosse Laura.
«Giù in Sala blu » le risposi, senza guardarla negli occhi. Quella donna non meritava di essere guardata da nessuno: era egoista e senza cuore, anche se in un certo senso mi faceva pena. Non penso che fosse una donna forte, forse era fragile e sola e, per nascondere questa solitudine, era diventata così esuberante e, per sentirsi importante, si divertiva a sottomettere le persone: per primo suo marito.
In Sala blu ci si trovava in mattinata per stare un po’ insieme: qualcuno leggeva il giornale agli anziani, si faceva catechismo, si parlava del lavoro che avevano fatto in passato e si tentava di andare in profondità per tirare fuori quel poco che era rimasto nelle loro teste, ma, molte volte, gli ospiti non collaboravano perché erano stanchi di sentire la stessa melodia ogni giorno.
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